Dio nel volto di Gesù
Luigi Sabbioni


Parlare di Dio è una sfida
La discrezione del Dio di Gesù
Il Dio di Gesù non è neutrale
La paternità di Dio
Il Dio crocifisso
Il Dio che è amore


Signore Gesù, come ti aspetti che parliamo di te?
Ogni discorso su Dio, a maggior ragione un quaresimale, dovrebbe essere sempre introdotto e accompagnato da questa domanda: Signore Gesù, come ti aspetti che parliamo di te?
La domanda dovrebbe essere posta più spesso da parte di chi prega Dio o insegna a pregarlo - magari insegnando il segno della croce ai bambini.
La domanda dovrebbe essere posta, soprattutto, da chi si trova a cercare di dire qualche parola sensata su Dio.
Chiedersi questo equivarrebbe ad essere senz’altro più accorti nel parlare, o anche nel tacere su Dio. Sono in molti a sostenere che una delle più alte parole su Dio, forse la più alta, è il silenzio.
Mi viene in mente una delle pagine conclusive del libro di Giobbe (42,7-8) nella quale Dio stesso decide chi ha parlato bene di Lui e chi no.
C'è Giobbe che per tutto il libro si è lamentato della situazione drammatica, e che è arrivato ad urlare contro Dio; ci sono gli amici presunti teologi che hanno 'sgridato' Giobbe e hanno cercato di fargli capire che Dio è diverso da come lui lo ha imprecato e addirittura bestemmiato. Alla fine interviene Dio stesso, che dice: "Di me ha parlato bene Giobbe, il mio amico Giobbe, mentre voi - rivolto ai presunti teologi - non avete detto di me cose rette ".
Spero che Dio non dica la stessa cosa a me, questa sera, e che non capiti altrettanto a noi tutti quando parliamo di Dio e quando cerchiamo di insegnare qualche cosa, balbettando, intorno al Suo mistero.
E allora:
Concedi, Signore, di pronunciare parole che rispettano il tuo mistero, ma anche e insieme il mistero dell’uomo, soprattutto il mistero dell'uomo che soffre.


Parlare di Dio è una sfida

Parlare di Dio, oggi, è una bella sfida. Lo è sempre stata, ma oggi in modo particolare, almeno per tre motivi.
 
Primo: noi stiamo vivendo un tempo che è normalmente definito come il tempo del sacro, del sacro selvaggio. Qualcuno lo chiama il tempo della rivincita. È comunque sotto gli occhi di tutti che c'è un ritorno del comportamento religioso, inatteso, secondo le analisi sociologiche di qualche anno fa. Questo ritorno della religione porta in sé alcune ambiguità, alcuni problemi.
Infatti la religione e Dio, per quanto siano collegati, non sono la stessa cosa. La sopravvivenza della religione, anche in forme insospettate, non significa necessariamente una purificazione della fede. Può essere che gli atteggiamenti religiosi mostrino un’insospettata vitalità rispetto a qualche tempo fa, nelle forme più diverse e più ambigue, ma non è detto che questo segni una purificazione della fede in Dio. La 'ripresa religiosa' non è automaticamente una riscoperta del volto di Dio.
 
Secondo: Mi sembra che la civiltà della comunicazione, nella quale ci troviamo, pone alcuni seri problemi al nostro . É una bella sfida, che siamo un po' impreparati a raccogliere.
Non penso tanto al fatto che alla televisione o sui giornali si dicano delle cose discutibili o errate di Dio o della religione o che si parli in maniera inadeguata della Chiesa e del Papa. Penso piuttosto al fatto che la civiltà della comunicazione forgia una mentalità, un modo di guardare alla realtà, alle persone, alle cose e dunque forgia un modo di pensare a Dio e di parlare di Dio.
Nella civiltà della comunicazione e dell’informazione si moltiplicano a dismisura i linguaggi e le possibilità di comunicare, eppure — con una battuta forse un po’ generale — credo che si possa dire così: siamo sempre più incapaci di trovare una sorta di 'lingua madre' che raccolga tutti i linguaggi o che li attraversi; una sorta di linguaggio familiare nel quale tutti ci identifichiamo, che dica il mistero di Dio nella vita quotidiana.
Si moltiplicano i linguaggi, siamo invitati a moltiplicarli, anche per il costante rinnovamento delle dinamiche dell'evangelizzazione. Si parla molto, si comunica molto, ma sembra che abbiamo perduto quella "lingua comune" che dice il senso, il mistero "santo e ineffabile" dell'esistenza.
E in questo senso dentro le comunità cristiane - e per i pastori in modo particolare, per il ministero della predicazione - si avverte con forza anche questo specifico interrogativo: perché la Scrittura, la stessa Parola di Dio scritta, che noi conosciamo come 'la lingua' capace di spiegare tutte le lingue, appare a molti inattuale e incapace a spiegare la vita quotidiana?
 
Terzo: C’è poi una sfida che ha caratterizzato tutte le epoche, e la nostra in modo particolare.
Bisogna parlare di Dio come Lui si aspetta - e questo, se ci si pensa, fa un po' tremare i polsi. Noi credenti cristiani sappiamo che c’è una Parola che Dio stesso ha pronunciato dall’eternità: il Verbo, il Figlio che si è fatto uomo, Gesù di nazareth.
Non per niente i Vangeli dicono che Gesù è la Parola di Dio fatta carne.
Dio ha questa attesa: si aspetta che si parli di Lui dicendo cose sensate, guardando alla Parola che Lui ha pronunciato e che è Gesù. Questa è sempre stata una sfida per chi vuole parlare di Dio. Oggi ha un tono particolare: nella civiltà della comunicazione, ci piaccia o no, la Parola di Dio fatta carne è una parola fra le molte parole. Quello che noi chiamiamo "la Buona Notizia" - il Vangelo - è una notizia fra le molte notizie. Così è considerata.
E la sfida che viene alla nostra fede, anzitutto al nostro parlare di Dio - che sia il catechismo per i bambini o per gli adulti o la predicazione - è questa: bisogna riuscire a mostrare che Gesù è la Parola di Dio che vale più di tutte le parole e tutte le comprende. É una bella sfida.
C’è allora da chiedersi - io riecheggio cose che qualcuno comincia a dire nella teologia, e che sono comprese dai cristiani che fanno sul serio - se dentro la civiltà della comunicazione non è il caso di riscoprire l’antica "dottrina dell’arcano". Era la dottrina che circondava di silenzio i misteri più preziosi della fede. Era la dottrina, il metodo di introduzione alla fede che prendeva per mano e conduceva pian piano i credenti nei misteri della fede.
Sono cose molto preziose, e allora non bisogna parlarne subito, con troppo fretta. Bisogna fidarsi del testimone che ne parla, ed entrarci piano piano.
Io mi chiedo se nella nostra civiltà — ma anche dentro il cammino delle nostre comunità cristiane, nell'educazione alla fede che passa attraverso le famiglie, la parrocchia, non sia da riscoprire questa antica dottrina dell’arcano.
Con una battuta, a mo' di slogan: non è opportuno dire "tutto a tutti e subito". Il mistero di Dio va circondato di un silenzio che non è esoterismo a oltranza, ma è consapevolezza che questa Parola, che è Gesù di Nazareth, Dio che si è detto in Gesù, va adorato e venerato con il silenzio e che questa Parola va pronunciata e declinata con molta attenzione.
Mi è venuta in mente una frase molto dura di Gesù che solitamente non mi capita di citare. La cito per me, in linea con la riflessione sulla dottrina dell'arcano: "Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi" (Mt 7,6).
Non mi sembra che il tema di Dio sia oggetto di molti talk show, sono altri i temi che diventano oggetto di dibattito, ma se per caso capitasse che questo tema diventi oggetto di dibattito, dovremmo riscoprire, e con molta forza, la dottrina dell'arcano.
Oggi il vero problema è questo: riuscire a dire anzitutto a noi stessi, credenti nel Dio di Gesù, che l’Unico non è marginale, anche se i più non lo ritengono tale, anche se tanti dicono: io vivo serenamente anche senza credere in Dio e praticare la fede.
 
Le considerazioni fin qui svolte creano il terreno giusto per parlare di Dio nel volto di Gesù.
Ora vorrei cercare qualche pagina di Vangelo che offra risposte alla situazione che ho appena cercato di tratteggiare. Quando Dio si è rivelato in Gesù, secondo quanto ci narrano i Vangeli, si sono prodotti degli effetti del tutto analoghi a quelli che oggi noi registriamo nel nostro contesto. Il Vangelo dice già quali effetti ha suscitato la Rivelazione di Dio: la fede certo, ma anche l'incredulità, l'indifferenza, l'ostilità ...
Mi soffermo su alcuni effetti della Rivelazione del Dio di Gesù, quelli che mi sembrano più eloquenti anche per noi. Vorrei dire una parola su questi aspetti:

la discrezione di Dio
la non neutralità di Dio
la paternità di Dio
il Dio crocifisso
la verità di Dio, Padre Figlio e Spirito Santo, come Amore
 

La discrezione del Dio di Gesù

Signore Gesù, dona occhi per vedere come hai vissuto la noncuranza e l’indifferenza degli uomini, come hai guardato all’umanità indaffarata e distratta, divenuta ostile nei tuoi confronti.
 
Trovo primario dire che il Dio di Gesù, il Dio brillato sul volto di Gesù, è un Dio discreto: è la prima cosa che colgo della Rivelazione del Dio cristiano.
Parafraserei così questa discrezione: Dio si fa presente in modo efficace e certo, ma non azzera la presenza dell’uomo e di tutto ciò che è umano, bensì lo rispetta, lo cerca e, addirittura, ne fa conto.
 
- Ricordo anzitutto la pagina evangelica che narra l'apparire di Dio tra gli uomini, la sua Natività (Lc 2, 1-20). Il Figlio di Dio è l’Unico che ha potuto decidere quando e come entrare nella storia, perché nessuno di noi ha mai deciso di nascere. La vita l'abbiamo solo ricevuta, e ciò è fonte di stupore. Dio decide quando entrare come uomo nella storia degli uomini. Sceglie anche in che modo, presso chi e in quale condizione apparire in forma umana: un bimbo, un essere che ha assolutamente bisogno di cura e di custodia, e che si mette nelle mani di una madre e di un padre.
Quando la discrezione di Dio appare nel mondo, ha la figura della debolezza, della fragilità e dell’inermità.
Il nostro Dio nasce inerme, ma anche sfrattato e, poco tempo dopo, è già profugo (Mt 2,13-18).
 
- La discrezione di Dio conduce Gesù a non distinguersi dalla massa peccatrice, a starvi in mezzo e quasi confondersi in essa. Ciò appare quando Gesù, all’inizio della 'vita pubblica', si mette nella folla di quanti vanno da Giovanni Battista per ricevere il Battesimo di conversione. Al termine della sua missione Gesù sarà crocifisso come un malfattore, in mezzo a due malfattori. In entrambi i casi il Dio fatto uomo non si fa problema di essere confuso con i peccatori. Ne rimane invece sconcertato il Battista (Mt 3,13-15) che resta sorpreso dalla "giustizia" di Dio, il Giudice che si confonde con i giudicati.
 
- Il Dio discreto, il Dio di Gesù, è Colui che non spezza la canna incrinata e non spegne il lucignolo fumigante (Mt 12,15-21). É Colui che nella sua stanchezza chiede acqua da bere per poi offrire, a sua volta, un’acqua viva (Gv 4,1 ss.). È la discrezione di Dio che si fa vicino agli uomini volendo aver bisogno di loro.
Nel Vangelo di Matteo (11,2) il Dio discreto si presenta - ed è l'unica volta in tutto il primo vangelo - dicendo di sé: Io sono mite e umile di cuore. L’unica definizione che Gesù si dà - secondo Matteo - è questa: io sono mite. Il Dio che brilla sul volto di Gesù è mite, discreto.
Mi pare importante ricordare, in un contesto conflittuale come il nostro, che il nostro Dio non fa strepito e che si accosta discretamente agli uomini i quali, comunque, possono camminare indifferenti ed ignorarlo.
 

Il Dio di Gesù non è neutrale

Dire che Dio è discreto non significa dire che è neutrale o indifferente alle situazioni umane, tantomeno acquiescente alle umane ingiustizie. Mi sembra emblematica la pagina delle Beatitudini (Mt 5, 1-12; Lc 6, 20-26).
 
Signore, Tu sei un Dio discreto, che non sgomita per farsi largo. Non ti vuoi imporre; preferisci essere ignorato e frainteso. Preferisci prendere il male su di te anziché infliggere qualche colpo. Eppure hai uno sguardo preciso sull’umanità. Fai intendere bene quali sono i luoghi umani che apprezzi maggiormente, i comportamenti che meglio si addicono al venire del tuo Regno.
 
Le Beatitudini dicono proprio la non neutralità di Dio. È una pagina che vuol parlare di Dio. È un discorso che Gesù ha fatto per parlare di Dio, non tanto per produrre immediatamente alcuni comportamenti. Che cosa vuol dire Gesù in questa pagina?
Vuole dire che Dio, il suo Dio, quel Dio che da sempre conosce perché ne è Figlio, preferisce questi comportamenti umani. Un Dio che nel presente dichiara "beate" le persone che hanno quei comportamenti sconcertanti.
Tradiremmo le Beatitudini se dicessimo che predicano un premio per un 'poi' rimandato al termine della esistenza terrena. Il messaggio sconcertante sul Dio di Gesù è che queste persone sono proclamate beate ora. Adesso, su di esse, si posa la rugiada dell’amore misericordioso di Dio: sui poveri, sui miti, sui misericordiosi, sugli affamati e assetati di giustizia.
Il messaggio delle Beatitudini non deve essere ridotto in senso moralistico. Dice che il nostro Dio fa una scelta sconcertante, una scelta che non razionalizza né le nostre ingiustizie, né l'aver ridotto qualcuno in povertà. D'altra parte il Dio delle Beatitudini è un Dio per tutti e per ciascuno, nello stesso tempo.
Si può anche scegliere di vivere secondo il Dio delle Beatitudini. Anzi: la proposta sconcertante del Vangelo è che si scelga di vivere secondo un Dio così, che si accetti di vivere secondo un messaggio che predica la felicità nell’oggi pur essendo in certe condizioni umanamente certo non desiderabili. Chi sceglie di vivere secondo le Beatitudini - povero, mite, afflitto, affamato e assetato di giustizia, operatore di pace - che non sono certamente comportamenti e categorie vincenti secondo la mentalità mondana, si trova dentro lo sguardo beatificante di Dio. Ma attenzione: la felicità donata da Dio è una felicità donata nella forma scelta da Dio, perché la beatitudine che il Dio di Gesù, già nell’oggi, riserva a chi crede in Lui è una beatitudine che può convivere appunto con l’afflizione e la fame. Ciò è possibile perché la felicità donata ad ogni uomo dal Dio delle Beatitudini, in Gesù, è la felicità che ha la forma del piccolo seme.
Così ne parlava Gesù in parabola, con grande realismo oltre che con grande speranza (Mc 4, 30-32).
Il messaggio delle Beatitudini non è una contraddizione: è un annuncio di speranza. Dice che già oggi, in questi luoghi umani assolutamente non vincenti secondo la mentalità del mondo, si può essere felici. Occorre riconoscere che Dio semina nel tuo cuore e nella tua coscienza la felicità nella forma di un seme che è piccolo piccolo e poi crescerà, perchè il Regno di Dio è come quel piccolo seme che cresce fino ad essere una grande pianta alla cui ombra verranno a ripararsi tutti gli uccelli del cielo.
 

La paternità di Dio

Il Dio delle Beatitudini si chiama 'Padre'. Così lo chiama Gesù, che lo crede con tutte le forze. Il tema della paternità di Dio è centrale per Gesù e diventa centrale per chiunque crede in Gesù, anche perchè Gesù lo consegna ai suoi discepoli nella forma della preghiera (Mt 6,7-15).
 
Signore Gesù, dalle tue parole e dai tuoi gesti abbiamo imparato che al principio di tutte le cose sta una Volontà buona, che desidera la salvezza di ogni uomo, anzitutto degli indigenti, e che lascia a ciascuno il tempo necessario per collaborarvi responsabilmente.
Signore Gesù, abbiamo imparato da te a dare il nome di ‘Padre’ al principio di tutte le cose, e ad affidarci ad esso con confidenza e disponibilità.
 
La certezza che Dio è davvero un Padre per ogni uomo ha accompagnato Gesù stabilmente, incrollabilmente. È singolare che l’unico testo evangelico nel quale si può dire con certezza che Gesù abbia pregato Dio chiamandolo "Abbà" (papà) è il testo della Passione secondo Marco (14,36). Probabilmente Gesù ha pregato abitualmente il Padre con questo titolo ma, stando al tenore dei testi evangelici, secondo gli studiosi è questo il testo che riporta con certezza la preghiera di Gesù. É il Getsemani, il momento della maggiore sofferenza e prostrazione.
Lì, secondo Marco, Gesù prega Dio che gli appare lontano, che sente quasi ostile. Non riesce a capirne la volontà e, se fosse possibile, vorrebbe allontanarla. Prega quel Dio al quale, non molte ore dopo, lancerà dalla croce la preghiera del Salmo: Perchè mi hai abbandonato? Nonostante ciò Gesù chiama Dio "Abbà", anche in quel momento!
Vuol dire che Gesù si è sempre sentito accompagnare dalla paternità di Dio.
Se ne sentiva custodito quando raccontava la parabola del padre misericordioso (Lc 15): abbiamo imparato a non chiamarla più la parabola del 'figliol prodigo' perchè abbiamo capito che il protagonista è il Padre. É opportuno ricordare qui anche l’invocazione di Gesù al Padre perchè perdoni i suoi crocifissori (Lc 23, 34): dietro le braccia aperte di Gesù crocifisso si profila il volto splendido del Padre, al quale Gesù sa di poter affidare il perdono, che noi diremmo immeritato, per i suoi crocifissori deicidi.
Il Dio che è Padre di Gesù è sorprendente e sconcertante.
 
Vorrei ricordare a me e a voi due pagine evangeliche, due discorsi di Gesù - una parabola e una parola dentro la catechesi riportata nel Discorso della Montagna di Matteo - nelle quali traspare in maniera ancor più nitida l’idea che Gesù ha della paternità di Dio.
Anzitutto la parabola degli operai presi a giornata (Mt 20,1-15).
In questa parabola il padrone della vigna cerca operai e allora esce e ne prende alla prima ora, alla seconda, e così via fino all'ultima ora del pomeriggio. Alla fine della giornata tutti vengono convocati e ad essi viene data la paga che è uguale per ciascuno, con comprensibile maggiore sconcerto negli operai della prima ora e, proporzionalmente, per quelli dalla seconda ora in poi, come si può intuire. La risposta del datore di lavoro, interpellato sul suo comportamento, è ancora più sconcertante: Siete invidiosi perchè io sono buono?
Questo è il Dio Padre che Gesù ha in mente. Una gratuità unilaterale che va oltre il principio della 'prestazione'.
Evidentemente Gesù non vuole parlare in questa parabola della retribuzione sociale, ma vuol parlare del 'principio della retribuzione religiosa'. La parabola di Gesù è rivolta ai suoi interlocutori polemici: gli scribi, i farisei, quelli che arricciavano il naso per la sua frequentazione dei peccatori , dei pubblicani e delle prostitute.
"Siete invidiosi perchè io sono buono?". Non sopportiamo l’idea che Dio sia così buono! Non ci torna. Noi daremmo ragione agli operai. Gesù invece ha raccontato apposta questa parabola, per far saltare questo schema della prestazione, senza preoccuparsi che poi noi non riuscissimo a comporre bene questo messaggio sconcertante con la giustizia sociale.
 
É utile anche ricordare la pagina dell'amore ai nemici (Mt 5,43-48).
Nel Discorso della Montagna ci sono esigenze terribili: amate i nemici, porgete l’altra guancia _ Penso alla parola di Gesù sull’amore ai nemici. Noi normalmente fermiamo l'attenzione su questa proposta, quasi inaccettabile, sull'esigenza di Gesù riguardante l'impegno oneroso dell'amore ai nemici. Ma la cosa più importante è che qui Gesù enuclea un altro principio: amate i vostri nemici perchè siete figli del padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5,44-45).
L’interesse di Gesù è dire che il Padre è così: la sua bontà è a 360°, non dipende dai meriti, dalle prestazioni, dalle condizioni umane. La bontà di Dio, semplicemente, si effonde.
Dio è così. E se voi volete essere davvero suoi figli, meglio; se volete vivere coerentemente secondo la vostra verità che è di essere figli di quel Padre, amate i vostri nemici!
 
Questa idea della paternità di Dio gratuita, misericordiosa, unilaterale, universale, ha sempre accompagnato Gesù, che ha messo tutte le sue forze perchè questa idea entrasse nella fede e nella preghiera dei suoi discepoli. E infatti, nella fede della Chiesa, questo stupore per un amore così unilaterale di Dio ci è entrato!
 

Il Dio crocifisso

L’icona di questo dono estremo di Dio, di questo amore estremo di Dio, l'icona del limite estremo a cui l’amore di Dio sa arrivare è la croce.
La croce come luogo in cui l’amore a 360° di Dio tocca il suo vertice.
 
« Signore Gesù, da te abbiamo imparato che siamo figli di un Padre buono e misericordioso, che si aspetta che ci consideriamo fratelli gli uni gli altri. Nel tuo amore crocifisso abbiamo scoperto, oltre ogni immaginazione, che il Padre ha tanto amato noi, il mondo, da dare il suo Figlio Unigenito.»
 
Il Nuovo Testamento, nei suoi vertici teologici, quando parla di Dio ce lo indica come il Padre che dona il Figlio nella forza dello Spirito Santo.
Nel discorso a Nicodemo Gesù dice: «Dio ha tanto amato il mondo - il mondo siamo noi, il mondo è anche l’umanità peccatrice - da dare il suo Figlio Unigenito», cioè il suo bene più prezioso (Gv 3,16).
Paolo, nella lettera ai Romani, dopo aver detto che Dio da sempre ha deciso che ogni uomo sia figlio nel Figlio e che quelli che ha predestinati li ha conosciuti, li ha glorificati, dopo aver detto che da sempre Dio ha in mente questo disegno, aggiunge: «Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8, 32).
Paolo aveva forse in mente una pagina terribile dell’Antico Testamento (Genesi 22), quando Dio chiede ad Abramo - il credente per eccellenza - di sacrificare il figlio. È una pagina che ci fa rabbrividire.
Con tutta probabilità quando Paolo dice «Non ha risparmiato il proprio Figlio» intende dire implicitamente: «Mentre ha risparmiato i figli degli uomini», perchè il nostro è un Dio che non vuole vittime, ma ha lasciato che il suo Figlio fosse sacrificato.
Paolo poi aggiunge: «Se Dio è per noi, chi sarà dunque contro di noi? ... Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? ... nulla potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Signore »(Rm 8, 31.35).
Notate questa espressione: se Dio è per noi, cioè il Padre è per noi.
Noi diciamo molto spesso che Dio è il Dio-con-noi, l'Emmanuele, ma qui c’è qualcosa di più profondo: il Dio-per-noi. Non solo il Dio-con-noi che fa compagnia, che riempie le solitudini, che incoraggia, che conforta; ma il Dio-per-noi. È un vertice teologico! Dio per Dio in se stesso, nel suo essere più profondo, è a favore di, non soltanto «al fianco di». Questo fa rabbrividire.
Tutto il Nuovo Testamento parla di un Padre così.
Vorrei dedicare qualche istante a dire come questa fede nel Dio di Gesù, nel Dio crocifisso, nel Padre che dona il Figlio nella forza dello Spirito Santo, può accendere qualche luce sull’esperienza della disumanità, del dolore e del male, su quell’esperienza che sfigura l’uomo: il peccato, la malattia, la morte, l'ingiustizia, il buio.
Un discorso vero su Dio non può evitare il confronto con l’esperienza della disumanità, non ha mai potuto e non potrà mai evitarlo. É un discorso da non aggirare perchè il nostro è il Dio per noi, perchè Gesù nell’ultima, riassuntiva invocazione del Padre Nostro ci ha insegnato a chiedere: «Liberaci dal male».
Noi veniamo da secoli nei quali la produzione filosofica e teologica si è anche arrabattata per rispondere a questa domanda «Perchè Dio ha permesso il male?».
È una domanda che torna spesso nell’esperienza di molti, di tutti.
Perchè Dio ha permesso il male? Questo male della mia vita, della persona amata, degli innocenti, perchè Dio non lo ha impedito?
Si parla della "Teologia dopo Auschwitz". Con tutto ciò che evoca, Auschwitz diventa la cifra emblematica del male, della disumanità.
È possibile parlare di Dio dopo Auschwitz? Per ciascuno è chiedersi come è possibile parlare di Dio dopo questa disgrazia, questo lutto.
Un pensatore ebraico, Hans Jonas 1 , pone bene la domanda, anche se non condivido la risposta che dà. Un tempo succedeva che ci si chiedesse e magari anche noi ce lo chiediamo: "Perchè Dio ha permesso che succedesse questo?". Per Jonas è una domanda inutile perchè Auschwitz è successo. La domanda più intelligente è: «Quale Dio ha permesso Auschwitz?».
Questo è il punto: non "perchè", ma "quale Dio?".
Quando noi diciamo «Perchè Dio ha permesso?» presupponiamo, più o meno consapevolmente, di sapere chi è Dio. Supponiamo di sapere che Dio è quella Onnipotenza che non dovrebbe consentire che succeda il male, oppure, è quella Onnipotenza che, se vuole, non consente che il male succeda ... ecc.
Jonas risponde che il Dio che ha permesso Auschwitz è sostanzialmente un Dio impotente. Io non condivido questa soluzione. La fede dei cristiani non può rinunciare a dire che Dio è onnipotente, immutabile, che è assoluto. Però è importante riuscire a dire cos'è l'onnipotenza di Dio. L'onnipotenza di Dio è l'onnipotenza dell'amore.
L’Onnipotenza è la verità di un Dio che è sempre stato amore, che è soltanto amore, che non è mai stato altro che questo e che non sarà mai nulla all’infuori di questo. In questo è Onnipotente e sa vincere la morte.
Questo è ciò che noi abbiamo appreso dalla croce di Gesù, questo è quello che noi abbiamo appreso nella luce dell’incontro con il Risorto, che altri hanno appreso, di cui ci hanno dato testimonianza, e noi sulla fede di altri abbiamo a nostra volta incontrato.
Quale Dio ha permesso Auschwitz? Il Dio che è Onnipotente nell’amore.
La parola della croce - la chiama così San Paolo (1 Cor 1,18) - rimane comunque una parola di speranza perchè apre alla vita eterna che è quella aperta dal Crocefisso che è risorto.
Aggiungerei che è una parola di speranza anche quando risuona nella forma del silenzio, perchè tante volte Dio è in silenzio.
Qui a Milano qualche anno fa si è tenuta un'edizione molto interessante della "Cattedra dei non credenti" proprio su questo tema: «Chi è come te fra i muti?».
La parola della croce, anche quando ha la forma del silenzio, è una parola di speranza.
Vorrei provare a balbettare qualche cosa su questo punto. Penso alle molte persone che invocano Dio, il Dio crocifisso, dalla loro situazione di crocifissi. Rispetto a queste situazioni, che vogliamo portare tutte davanti al Signore, dico che il silenzio di Dio dalla croce è una risposta.
Quello del Crocifisso è un silenzio eloquente. La risposta di Dio è certamente una non-risposta sotto il profilo verbale, logico, dei concetti, eppure è una risposta della vita.
Dio è silenzioso quasi a scusarsi, quasi a dire - ma con il silenzio e con le braccia inchiodate - che Auschwitz, e quanto vi è di simile, non è opera sua.
Nel silenzio della croce Dio, con una delicatezza senza confini, tace. É la discrezione di cui dicevamo all'inizio. Preferisce correre il rischio di essere frainteso o di essere considerato assente piuttosto che offrire parole equivocabili, del tipo degli amici di Giobbe.
E notate questa cosa interessante: il Dio crocifisso sta in silenzio di fronte al dolore dell’uomo, ma anche noi di fronte al mistero di Dio dovremmo tacere e piegare le ginocchia. Da Dio, che è il mistero del silenzio, dal Dio crocifisso, di fronte al quale conviene stare in silenzio, udiamo una parola silenziosa.
In altri termini: Dio usa nei nostri confronti quel rispetto, quella delicatezza che un credente dovrebbe usare nei confronti di Dio.
La miglior teologia, si dice, è il silenzio adorante di fronte a Dio.
Dio, di fronte all’uomo che soffre, tace con una delicatezza senza confini e il suo amore Onnipotente apre speranza, la sua Resurrezione apre la Speranza.
 

Il Dio che è amore

Questo Dio, che vince la morte sulla croce, è il Dio che è da sempre Amore Onnipotente.
Quando noi diciamo, facendoci il segno della croce, che Dio è padre, Figlio e Spirito Santo , vogliamo dire il nome preciso di quell’amore che vince la morte. Vogliamo dire che in quel Nome, da sempre, tutte le cose sono create e sorrette e mantenute in essere. In quel Nome tutte le cose hanno un futuro, proprio perchè all’inizio e al principio di ogni cosa c’è un Dio che è Amore in se stesso - Padre, Figlio e Spirito Santo - un Dio che da sempre è dono reciproco, è comunione. Un Dio che da sempre è in se stesso amore che arriva a morire l’un per l’altro, in un amore che vince la morte.
Vorrei citare un testo di un teologo che è anche un mistico 2 , che dice proprio questa cosa descrivendo la vita eterna, il Dio Trinità:

Se il Padre si dà senza riserve al Figlio, e a loro volta Padre e Figlio allo Spirito santo, non è questo l’archetipo della più bella morte possibile, nel cuore stesso della vita eterna? Questo definitivo non-voler-più-essere-per-sé, non è appunto la premessa della vita la più beata? L'amore del Padre per il Figlio, del Figlio per il Padre e per lo Spirito Santo è un non voler più essere per sé ma tutto e solo per l'altro.
 
E questo spiega la capacità del padre di dare il Figlio, del Figlio di donarsi, dello Spirito di mantenere nella carità del dono il Padre e il Figlio.
Se Dio è così - io ho balbettato e spero che Dio non se la prenda più di tanto - se Dio è questo amore che vince la morte, allora è una verità grandissima che abbraccia ogni cosa, ma allo stesso tempo semplicissima.
L’uomo e la donna che danno un bicchiere d’acqua, danno da mangiare, visitano il carcerato, sono uomini e donne che hanno intuito qualche riflesso di questo mistero di Dio, un mistero tanto grande e di fronte al quale si sta in silenzio, ma che è comunque capace di raggiungere ogni coscienza (Mt 25, 31-46).
 
Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore.


NOTE:

1  HANS JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Una voce ebraica, Genova 1989 (or.ted. 1984), p. 23.

2  H.U.von BALTHASAR, Il Credo. Meditazioni sul Credo Apostolico, Milano 1990 (Freiburg im Breisgau 1989), pp. 48-49.

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