L'ateismo del monaco
Nihil amore Christi praeponere
padre Valerio Cattana
«Ripartiamo da Dio»: il monaco esperto in ateismo
«Nulla anteporre all'amore di Cristo»
Il monaco: un «esperto in ateismo»
Il vanto del monaco: la sua debolezza
«Ripartiamo da Dio»: il monaco esperto in ateismo
Io sono un monaco, un monaco peccatore, ma un monaco e, per
di più, come si suol dire, felicemente monacato. Non nel senso che nella mia
vita siano tutte rose e fiori, angelismi, ma nel senso che più avanzo negli
anni e più il dono della chiamata alla vita monastica mi appare affascinante,
perché la ricerca di Dio è affascinante. Tutto questo il vostro parroco, don
Mirko, lo sa perché anche lui ha un cuore di monaco. Questa sera, pertanto, non
potrò fare altro che presentarvi una riflessione, tra le tante possibili sulla
lettera pastorale "Ripartiamo da Dio", dalla mia ottica monastica.
Nulla anteporre all'amore di Cristo
Cominciamo dalla versione monastica del titolo che
l'arcivescovo ha dato alla sua lettera pastorale Ripartiamo da Dio, vale a dire l'espressione
«Nulla anteporre all'amore di Cristo» contenuta nella Regola di san
Benedetto al capitolo 4, 21 (d'ora in avanti Regola di san Benedetto = RB). Con
una decina di altri passi sostanzialmente equivalenti, san Benedetto dà una
impostazione fortemente cristocentrica alla sua Regola.
Ora, il cardinal Martini, nel paragrafo 2.2 della sua lettera
pastorale: L'ultima misura di tutto, scrive testualmente: «Ripartire
da Dio vuol dire misurarsi su Gesù Cristo e quindi ispirarsi continuamente alla
Sua parola, ai Suoi esempi, così come ce li presenta il Vangelo. Vuol dire
entrare nel cuore di Cristo che chiama Dio 'Padre',... è l'esperienza che
facciamo ogni volta che ci dedichiamo seriamente alla 'lectio divina'» (Ripartiamo
da Dio, 23). Direi che siamo in totale perfetta consonanza con il mondo dei
monaci, del resto già ben definita da un volumetto che porta il nome
dell'arcivescovo ed il titolo significativo Il vescovo e il monaco (Seregno
1995, 'Orizzonti monastici', 10).
Ma proviamo a vedere, nel dettaglio, dove e come si manifesta
questa radicale scelta di Cristo, questo vivere da innamorati di Cristo perché
ci si sente oggetto continuo del suo amore creativo. E' un po' come suonare una
cetra a dieci corde! Non sono un musico e mi limiterò ad un pizzico per corda.
Prima corda.
«A te dunque si volge ora la mia parola, chiunque tu sia
che rinunzi alle proprie voglie e, accingendoti a meditare per il vero re Cristo
Signore, prendi le validissime e lucenti armi dell'obbedienza »(RB, Prologo 3).
E' il passaggio dalla «voglia» (ne ho voglia, non ne ho voglia, ne ho poca
voglia) all'adesione al progetto, alla verità sull'uomo e su Dio. L'obbedienza,
le validissime armi dell'obbedienza, altro non sono che la libera decisione di
entrare nell'umanesimo integrale, nella possibilità per la persona umana di
realizzarsi obbedendo al progetto di Dio, quindi di essere felice (notate questo
primo accenno alla gioia, che è poi la nota dominante del discorso di Benedetto
insieme alla partecipazione ai patimenti di Cristo).
Seconda corda.
L'obbedienza a Dio, e di questa fondamentalmente si tratta,
rischia talvolta di diventare equivoca, per cui san Benedetto offre come
criterio sicuro di discernimento l'autorità dell'abate: «Si sa, infatti,
per fede che egli nel monastero fa le veci di Cristo, poiché viene chiamato col
suo stesso nome... Abbà, Padre» (RB 2, 2-3). E «all'amore di Cristo
nulla va anteposto »(RB 4, 21). E' tutta la passione, la poesia, l'ideale
del monaco: amare e servire integralmente Cristo, via per raggiungere il Padre.
Chi ne fa le veci (abate) ti sottrae ad ogni illusione, al rischio di ogni
lettura riduttiva del vivere.
Terza corda
A scanso ancora di equivoci - san Benedetto è rigorosissimo
sulla trasparenza - la radicale scelta di Cristo si esprime nel confronto degli
infermi dei quali «si deve aver cura prima di tutto e a preferenza di ogni
altra cosa, sicché davvero si serva a loro come a Cristo in persona»(RB
36, 1). Qui sta il germe di quella secolare, millenaria fioritura di opere e
istituzioni cristiane a conforto dei corpi sofferenti.
Quarta corda.
«Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti
come Cristo... Inchinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in
essi Cristo che viene accolto» (RB 53, 1.7). «Si legga dinanzi
all'ospite la Legge Divina per edificarlo, e poi gli si offra ogni segno di
premurosa benevolenza» (RB 53, 9).
Quinta corda.
«I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari
cure ed attenzione, perché specialmente in loro si riceve Cristo, mentre ai
ricchi si porta rispetto per la stessa soggezione che incutono» (RB
53,15).
Sesta corda.
Ma eccoci ancora sull'amore che arroventa il cuore del
monaco: «Il principale contrassegno dell'umiltà (e l'icona del monaco è
per Benedetto il pubblicano in fondo al tempio, che con gli occhi fissi a terra
piange i propri peccati percuotendosi il petto, (RB 7, 65) è
l'obbedienza senza indugio. Essa è propria di coloro che niente hanno più caro
che Cristo» (RB 5, 2).
Settima corda.
Salita la scala dell'umiltà -icona del monaco - il monaco
ricercherà i valori della vita «non già per timore dell'inferno, ma per
amore di Cristo» (RB 7, 69).
Ottava corda.
L'ottica di fede nei confronti dell'abate si fa, a questo
punto, radicale: «L'abate, poi, giacché si sa per fede che fa le veci di
Cristo, sia chiamato "signore" e "abate", non per presunzione sua, ma per onore
e amore di Cristo» (RB 63, 13).
Nona corda.
E ancora sull'abate, sulla sua identificazione a Cristo:
«Amino il loro abate con sincera ed umile carità; nulla assolutamente
antepongano a Cristo» (RB 72, 10-11).
Decima corda.
Premesse le prime nove corde, ci si può finalmente porre ad
una sequela seria: «Rinunziare interamente a se stesso per seguire
Cristo» (RB 4, 10), perché «... tutti siamo una sola cosa in
Cristo e prestiamo sotto un unico Signore una medesima milizia di servitù»
(RB 2, 20) e ciascuno di noi discerne le insidie del male, i suggerimenti
del Maligno da prendere con forza e da spezzare "in Cristo" (RB
Prologo, 28).
Sono dieci corde di un'arpa con cui cantare a Cristo la
nostra decisione di ripartire da Lui e soltanto da Lui, unico fondamento di un
progetto di vita integrale.
Ma con l'arpa ho anche fatto vibrare contemporaneamente i
tratti fondanti della fisionomia del beato cardinal Schuster, grande monaco e
per questo grande arcivescovo, anzi, santo arcivescovo, del quale facciamo
memoria nel ripartire da Dio! E' stato scritto, e non a torto, che Schuster
concepiva la sua diocesi come una grande abbazia della quale lui era l'abate, ma
nella quale, in verità, «è Cristo abate del collegio» (Dante,
Purgatorio XXVI, 129). In essa, pertanto, ogni giorno si ripartiva da Cristo
nel modo sopra cantato e vissuto dallo Schuster fin dai primi anni della sua
vita. Ed è con i sopracitati riferimenti alla Regola che si capisce quanto e in
che modo fosse radicato nel santo arcivescovo di Milano il ripartire da Dio. Non
per nulla ci ha lasciato scritto: «La nostalgia del chiostro mi accompagna
dovunque» (La Regula monasteriorum, Torino 1942, pp. V-VI). A
questo proposito, in occasione della prossima beatificazione del santo
arcivescovo, verrà pubblicato un volume antologico dal titolo "La
nostalgia del chiostro" (Piemme, Casale Monferrato, 1996).
Né si dica che tutto questo è proprio di un monaco ma non
di un laico, dal momento che il Concilio Vaticano II nella Lumen gentium ha
chiarito una volta per tutte che non ci sono due cristianesimi (uno di serie A e
uno di serie B!) ma un solo modo di porsi alla sequela di Cristo in tre diversi
progetti: da laici, da consacrati e da preti.
Richiamando il titolo di questa prima parte potremmo
ritradurla e articolarla così: si riparte da Dio solo se si è assetati di Dio
ritrovato nel concreto della vita, e il cardinal Schuster ne ha quasi
plasticamente incarnata la forma! Ma potrebbe pur sempre sembrare che tra il
monaco e la secolarizzazione dell'uomo contemporaneo corra un abisso. In realtà
il monaco, il contemplativo, è un «esperto in ateismo», il più
vicino all'uomo che dice di non credere.
Il monaco: un «esperto in ateismo»
Vediamo come. In trent'anni di aggiornamento postconciliare,
il cambiamento più importante nell'ottica della vita monastica (che un tempo
veniva orgogliosamente - in maniera santamente orgogliosa! - presentata come la
«parte migliore») è stato quello di tendere a passare dalla prima
fila nella Chiesa all'ultima fila, quella del pubblicano evangelico che non osa
alzare gli occhi al cielo, si percuote il petto ed esclama: Abbi pietà di me,
Signore, perché sono un peccatore. Invocazione che san Benedetto nella sua
Regola ha lasciato quale icona del monaco, «formula di preghiera perfetta e
perpetua», come qualcuno ha scritto.
In fondo alla chiesa ma, ora più che mai, nel cuore della
Chiesa. La Chiesa dell'Esodo, la Chiesa di Gesù tentato nel deserto, là dove
Dio la convoca "per parlare al suo cuore... e per renderla sua sposa per
sempre", se vogliamo usare le parole del profeta. Senza posa in ascolto
della Parola, la Chiesa rinasce ogni giorno da essa e si ritrova nello stesso
tempo riportata nel deserto e pienamente impegnata nel mondo: il compito dei
contemplativi è quello di tener vivo il dialogo della Chiesa con il suo sposo
perché sia garantita l'autenticità del suo messaggio.
Ma il cammino dell'Esodo non è affatto riposante. E il
novizio fa ben presto esperienza proprio attraverso le vie tradizionali
dell'ascesi (il digiuno, le veglie, la solitudine, il silenzio) che
paradossalmente non rendono il cammino più semplice ma fanno percepire ancor
più profondo l'abisso della propria povertà. L'ascesi cristiana diviene così
una sorta di luogo della propria disfatta - come ha ben sottolineato l'abate
trappista André Louf in varie sue opere su questa tematica - in cui ti si
frantuma il cuore, dove ti rendi conto che solo la grazia di Dio può trionfare:
il monaco esperimenta come tutte le sue opere cosiddette buone sono solo dei
miracoli della grazia. Si rende conto che «non è affatto migliore dei suoi
fratelli, che egli è peccatore perdonato altrettanto e persino più di loro e
che, per essere accolto nella contemplazione... egli deve raggiungere coloro
(pubblicani e peccatrici) ai quali Gesù ha promesso che precederanno tutti nel
suo regno. Egli diviene così la Chiesa dell'umile e gioioso pentimento»
(Assetati di Dio, 'esperti in ateismo', "Testimoni" 17, 1994, n° 4,
pp. 6-8).
In questo cammino nel deserto il monaco fa anche esperienza
del silenzio di Dio. «Un Dio - continua padre Louf - che sembra tanto
lontano, un Dio che, in certi momenti, gli sembra come 'morto', inesistente,
un'ombra, proiezione all'infinito dei suoi stessi desideri. Il contemplativo si
trova nel centro del suo deserto, o della sua notte oscura, dello stesso mistero
di Gesù: 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'... Più di qualsiasi
altro credente, il contemplativo diviene allora un eminente 'esperto di ateismo'.
Egli crede? Può darsi, ma senza credere, gli sembra. Egli non comprende più
niente, eccetto una cosa: che il Dio al quale credeva di credere, era soltanto
un idolo, fabbricato più o meno da lui stesso, oppure confezionato da una
cultura ancora vagamente impregnata di cristianesimo. Capisce che Dio non si
raggiunge mediante i propri sforzi, ma bisogna attenderlo incessantemente e
lasciarsi afferrare da Lui, quando gli piacerà» (ibid).
Nasce così l'esperienza del frantumarsi del cuore: il cuore
di pietra, presuntuoso, sicuro, va in pezzi in questa esperienza di
abbassamento. Quel cuore insensibile a Dio e agli altri, ritirato dentro il suo
guscio di difese e di protezioni, il cuore che non sa veramente uscire da se
stesso per andare verso un fratello e per incontrarlo in una relazione veramente
personale: un cuore che non sa ancora amare davvero.
Dalla tentazione e dal frantumarsi del cuore che le tiene
dietro, rinasce un cuore nuovo, un cuore aperto, fiducioso, accogliente, e
perciò stesso fragile e vulnerabile, ma che accetta di esserlo perché l'altro
lo possa diventare a sua volta. Un cuore del genere la Bibbia lo definisce un
cuore di carne, toccato e trasformato dallo Spirito.
E come non richiamare, o farsi richiamare, dai molti passaggi
della lettera del cardinale Martini sul «fare del cuore»? «Nella
persona umana - scrive ad esempio al punto 11 - decisivo è il 'cuore',
l'interiorità. E' il luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi che
cambiano la vita e dei grandi orientamenti che danno senso alla storia. Tutta la
vicenda umana si gioca nell'intimo dell'uomo. La Parola di Dio che illumina e
salva è destinata al cuore umano, lo tocca nell'intimo e lo trasforma. Di qui
l'importanza del silenzio, dell'attenzione vigile, della riverenza e
disponibilità interiore di fronte a Dio che si comunica: in una parola,
l'importanza della 'dimensione contemplativa della vita'» (Ripartiamo da
Dio, 11). Veramente i conti tornano: il cammino del monaco e il cammino
proposto dal vescovo si incontrano, identificandosi!
E possiamo fare, a mo' di conclusione quaresimale, un passo
ulteriore. La vita contemplativa, la vita del monaco, rimanendo semplicemente
ciò che essa è - se è vero quanto abbiamo detto sopra - ossia la via di un
peccatore che si rende conto di essere quello che è soltanto perché amato da
Dio, unica fonte per saziare la sete di assoluto, la vita contemplativa - dicevo
- può risvegliare, presso il credente come presso il non credente, il desiderio
di comunione con Dio che sonnecchia nel cuore dell'uomo. Purificato dei suoi
falsi dei, il monaco si sente vicino a tutti coloro che dubitano e sono in
ricerca, e particolarmente a coloro che si ritengono atei (penso agli incontri
del nostro arcivescovo con i non credenti). I1 monaco è così particolarmente
vicino ai peccatori afferrati dalla disperazione che vengono spesso a bussare
alla sua porta, perché ha fatto esperienza della misericordia sconvolgente di
Dio e sa che il gioioso pentimento è l'unica via, per il peccatore come per il
giusto, per conoscere fino a qual punto noi siamo amati.
La vita contemplativa perpetua la Chiesa in esodo, sempre
addossata al deserto, impegnata nell'ascolto del suo sposo, un ascolto che si
trasforma in lode e azione di grazie. Sottoposta alle tentazioni di un deserto
che le rivela la sua fragilità e il suo bisogno radicale di salvezza, si rende
conto che l'ascesi è un miracolo continuo della grazia. Essa si sente allo
stesso modo solidale con tutti i poveri nello spirito del nostro tempo, con i
peccatori, coloro che soffrono o che disperano di poter credere in Dio.
Il vanto del monaco: la sua debolezza
C'è a questo proposito una riflessione del già citato
trappista, André Louf, abate di Mont-des-Cats in Francia, che dà le vertigini.
«Gesù ha costruito la sua Chiesa sul rinnegamento di Pietro e sul perdono
che gli è stato accordato. Così pure costruisce le comunità monastiche non
sulla forza né sulla virtù dei loro membri, ma sulla loro debolezza, una
debolezza senza posa da loro confessata e da lui accolta nella sua misericordia.
Ivi compresa la nostra debolezza più fondamentale: la nostra condizione di
peccatori e il nostro bisogno continuo della grazia e della misericordia
inesauribile di Dio... E' proprio a motivo di ciò che Dio ci ha scelti per
realizzare la sua opera, con questa ferita e questa debolezza: non malgrado
questa, ma attraverso essa... Ne consegue che i poveri e i piccoli sono persone
importanti nella comunità, tanto quanto le debolezze della comunità stessa.
Per la crescita spirituale del gruppo è necessario conoscere queste debolezze e
poterle guardare in faccia. In passato la strategia adottata è stata spesso il
rovescio. Tutto ciò che potesse provocare stupore o scandalo era accuratamente
occultato. La comunità era fortemente idealizzata, e questo 'ideale' più o
meno inconsciamente lo si aspettava da tutti i membri. Il piccolo e il debole,
quelli che non ce la facevano a corrispondere a tale aspettativa, erano tenuti
un po' in disparte, fino a perdere talvolta la fiducia del superiore e dei
fratelli. Questo è capitato, e può capitare ancor oggi. Però, facendo così,
si favorisce un processo che va esattamente all'opposto del dinamismo dello
Spirito Santo, il quale è all'opera nel gruppo e ne vuol fare una comunità
cristiana che vive secondo il Vangelo e offre un posto nel suo seno ai piccoli e
ai deboli. D'altronde, quel tipo di comunità rischia allora di degradarsi a
setta, che raggruppa delle reclute di élite perfettamente addestrate - i puri e
i duri - che si tengono in disparte, più o meno consciamente, dalla comune dei
mortali e dei cristiani ordinari... Invece la debolezza di un fratello o di una
sorella dovrebbe ricordarci che deboli lo siamo tutti; cosicché, tutti insieme,
ci si possa mettere al nostro vero posto, cioè nella debolezza che abbiamo in
comune, per attendervi insieme il perdono e la salvezza che ci vengono da Gesù.
I difetti degli altri sono anche i miei. E se mi irritano tanto è proprio
perché io rifiuto di osservarli nella mia vita. Io li scarico sugli altri per
darmi buona coscienza. Mentre la Buona Novella si colloca esattamente
all'opposto di un tale atteggiamento da giudici o giustizieri. E' così: Gesù
viene non per i giusti ma per i peccatori, cioè per quei peccatori che noi di
fatto siamo, e non certo per i giusti che noi speravamo di poter essere o di
poter sembrare, ben al sicuro nel guscio della vita monastica... E non c'è
Chiesa se non fondata sulla debolezza e sul perdono ricevuto dai suoi membri,
così come è stata, in primissimo luogo, sulla debolezza e sul perdono ricevuto
dal suo capo e dal suo primate, Pietro, il primo dei peccatori perdonati. Così
come non c'è testimonianza sul Risorto all'infuori di quella che risale al
primissimo testimone del mattino di Pasqua, una donna: Maria di Magdala, anche
lei peccatrice perdonata.
Una comunità cristiana è dunque chiamata a privilegiare, a
'vezzeggiare' anzi, i suoi 'più piccoli', i suoi poveri e deboli, e aggiungo: i
suoi peccatori.» (A. Louf, La vita monastica oggi e domani,
Pontasserchio-Pisa 1995, pp. 41-45).
Il Signore ci ama, del resto, come noi siamo in realtà e non
come dovremmo essere o come gli altri si augurano che siamo, o come noi stessi
desidereremmo essere. Ci ama nella nostra debolezza e perfino nel nostro
peccato. Avendo sperimentato questo tipo di amore potremo, a nostra volta, dare
ad altri amore e perdono. Al di fuori di questa vita che è amore non c'è
Chiesa, non c'è comunità cristiana. Una comunità che non avesse nel suo seno
poveri o gente da nulla sarebbe molto semplicemente priva di vita perché dove
il peccato fosse divenuto impensabile o completamente eclissato o sottilmente
dissimulato, la grazia non avrebbe più niente da fare. Noi vivremmo in un altro
mondo, un mondo senza redenzione né salvezza; noi vivremmo in un'illusione,
l'illusione dei farisei, e, come loro, talvolta in perfetta buona fede. Non per
nulla l'icona del monaco pensata da san Benedetto nella sua Regola non è il
fariseo che sta in prima fila nel tempio, ma il pubblicano in fondo, che piange
e si percuote il petto fissando gli occhi a terra.
E se qualcuno pensasse che l'intuizione dell'abate Louf
sopraesposta è realizzabile soltanto in una comunità monastica ma non in una
comunità parrocchiale, quella ad esempio del Suffragio, vorrei concludere con
un apoftegma dei Padri del deserto.
Nel deserto egiziano c'era un uomo estremamente santo che si
chiamava Antonio (quel sant'Antonio abate raffigurato con il porcellino!).
Passava tutto il giorno a pregare, faceva continua penitenza e si esercitava
alla povertà, ai sacrifici, alla lotta con la tentazione. Eppure un giorno gli
apparve un angelo che gli disse: «Guarda Antonio che tu sei molto indietro
nella vita spirituale, in Alessandria c'è uno che è più santo di te...».
Per sant'Antonio, che da quarant'anni era nel deserto, pensare che ad
Alessandria, una città piena di postriboli e di peccati, si potesse trovare un
uomo di tali virtù destò non poca sorpresa. Chiese dunque: «Chi è
costui?». L'angelo rispose: «In Alessandria c'è un uomo che fa il
calzolaio e lavora tutto il giorno in strada. Ha moglie e figli e, nel fare i
sandali, ripete continuamente: "Signore, Figlio di Dio, abbi pietà di me
peccatore". Ad ogni colpo di martello che dà invoca: "Signore, abbi
pietà di me", e non sa dire di più. Arrivato a sera, vende i sandali,
tiene parte del denaro per mantenere i figli e la moglie, lascia il resto sulla
soglia per i poveri della città e, ripetendo ancora: "Signore, abbi pietà
di me" se ne va a casa. "Costui, gli dice l'angelo, è più santo di
te, caro Antonio...»
Anche i ciabattini possono pregare meglio dei monaci! Questo
ciabattino è veramente l'icona del monaco e del cristiano tout court: la sua
invocazione è chiaramente voce dello Spirito Santo e non sua. Suoi sono
l'umiltà, il sapersi peccatore e l'ascolto dello Spirito. Sua è la povertà di
fatto e di spirito. Sua è la gioia del dare: sentendosi amato, ama. Potrebbe
essere la splendida Pasqua dei cristiani di S. Maria del Suffragio e del suo
pastore.

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