DALL’INFORMATORE PARROCCHIALE
DI S. MARIA DEL SUFFRAGIO


Mirko Bellora


Gli corse incontro
Il silenzio del padre
Il ritorno del figlio
Gli corse incontro
La religiosità del capretto
Nelle braccia del padre
Ecco il Padre... diventare il Padre
Gli si gettò al collo
Il più giovane disse
Allora rientrò in se stesso
L'abbraccio
Un credente "ateo"



Ho pregato il Padre Nostro. In ginocchio.
In queste mattine e in queste sere.
Da soli, in ginocchio, non è la stessa cosa
di quando sei con tutti …
Non ti senti neppure all’altezza di essere lì,
eppure ti senti in un abbraccio.
E chiedi perdono per quando
l’ingiustizia della morte
o la paura del futuro
diventano grumi inestricabili.
E la speranza ti investe.
E’ proprio vero che dire "Padre"
spalanca il cuore.
E’ proprio vero che "in ginocchio"
è l’unica posizione per lasciarsi amare,
per amare, per lasciarsi perdonare.
In ginocchio, dicendo Padre, si fa strada
la luce, la forza, la danza della Pasqua.
                     (Y.D.)


GLI CORSE INCONTRO
maggio 79

Non finisco mai di "gustare", pezzo dopo pezzo, la nostra Chiesa ... ogni "pietra" mi parla.
Vi ho già raccontato di Davide e della sua cetra, nascosta nelle vele del presbiterio e sulla porta dell’altare che porta in S. Proto; dei due grandi affreschi sull’altare di Aldo Carpi raffiguranti la Crocifissione e la Resurrezione; della piccola vetrata sopra la statua di S. Monica che con una barca nella tempesta allude al "cuore inquieto finché non riposa in Dio"; del fatto che tutta la nostra chiesa è un canto a Maria: dalla lunetta della facciata, alla Madonna della Misericordia appena entrati, ad alcune vetrate, alle splendide stazioni della Via Crucis di Aldo Carpi, al trittico dell’Addolorata sull’altare, al nuovo portale della tenerezza e della misericordia; delle nuove vetrate dell’amore trinitario nell’abside; dei nostri grandi archi con le loro chiavi di volta; infine del pellicano nascosto nella piccola vetrata del transetto di destra e sulla tavola dell’altare.
Questa volta mi voglio fermare con voi, grato e stupito, davanti al grande affresco del transetto destro, opera dell’artista L. Filocamo, che raffigura la famosissima parabola narrata da Luca (15,11-32), nota come "Il figliol prodigo".
E’ una delle parabole più note, una delle più belle, un vangelo nel vangelo.
Dice il biblista P. Grelot: "è un racconto di rara bellezza letteraria e di ancor più rara densità teologica" ... non c’è particolare che non comunichi un significato importante.


Il silenzio del padre

Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze (Lc 15,11-12)

... non una parola, non un rimprovero, non un tentativo di fermare quel figlio che ritiene di poter trovare maggiore libertà e maggiore felicità lontano dal padre, lontano dalla casa paterna, che crede nella propria autosufficienza, che ritiene di possedere le chiavi della felicità, che vede il padre come un padrone a lui ostile. E’ un silenzio, quello del padre, carico d’amore e sicuramente di qualche lacrima ...
E’ il dramma di un padre che, in nome della libertà del figlio, è pronto persino a perderlo ...


Il ritorno del figlio

Ma il figlio non trova la libertà, la felicità sognate: sperperate le ricchezze, finisce col pascolare i porci e a sognare di saziarsi con le loro carrube.
Finita la pretesa di autosufficienza, forse per bisogno

rientrò in se stesso e disse: ... Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni (15,17-19)

E’ il suo mutamento interiore, è l’ammissione del proprio sbaglio così descritto da Paul Claudel:

Il grande peccato, l’unico peccato dell’uomo è di credere alla propria sufficienza.


E c’è il cammino di ritorno verso il padre.


Gli corse incontro

Ma ecco il vero protagonista della parabola apparire con tutta la sua luce, la sua potenza, la sua commozione:

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò (15,20)

Se il padre vede arrivare il figlio da lontano vuol dire che lo aspettava, che non si era stancato di aspettarlo, che non lo dava per perduto, che desiderava il suo ritorno ... l’amore sa attendere pazientemente e soprattutto non si arrende, non si dispera.
Gli corse incontro: l’amore, corre, vola ...
Il padre non gli lascia nemmeno il tempo di parlare, di scusarsi, di giustificarsi: l’abbraccia, lo bacia, intimamente commosso, con lo stesso amore di sempre, totalmente gratuito, che non rinfaccia il passato.
Mi torna in mente un proverbio berbero:

Quando muovi il primo passo verso Dio, lui ti sta già correndo incontro.

... è quello che capita qui, a un figlio "travolto" dal perdono e dalla gioia del padre.
Ed è questo il vero sconvolgimento, come dice il biblista don Bruno Maggioni:

Quella del figlio che torna non è la vera conversione. E’ solo una premessa necessaria. Il figlio minore non conosce suo padre, né quando si allontana da lui né quando decide di tornare. E’ convinto di aver perso l’amore del padre e di doverselo meritare di nuovo. Invece, il padre non ha mai smesso di amarlo. Non lo lascia neppure parlare: il suo amore precede il pentimento e la conversione! Il padre è molto diverso da come il figlio lo immaginava. Capire finalmente il padre è il vero ritorno, la vera conversione.




La religiosità del capretto

Forse la parabola poteva finire qui. Ma ecco farsi strada un terzo personaggio: il figlio maggiore.

Egli si indignò e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici" ... Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo" ... (15,28.31)

Questo figlio non sa gioire, non sa commuoversi come il padre per il ritorno del fratello, è piuttosto impietoso e implacabile nel giudizio, non sa perdonare, non accetta un padre che perdona, è gelido, invidioso, lamentoso. Sta nella casa del padre ma ne è così lontano! Rimane ma senza amore, senza passione. Sostituisce il dovere alla gioia.
Neppure lui capisce l’amore del padre, e si scandalizza per una tale accoglienza al fratello che chiama sempre "tuo figlio".
E tocca ancora al padre prendere l’iniziativa, fare il primo passo: esce a pregarlo perché anche lui condivida la festa per il figlio ritrovato.
Anche qui, a proposito del capretto, mi torna alla mente un detto del mistico Rumi:

Stamani nel giardino colsi una rosa temendo di essere visto dal giardiniere, ma lui mi ha detto: perché solo una rosa, io ti do l’intero giardino!



Nelle braccia del Padre

Ecco, questo padre è il nostro Dio. E questi figli siamo noi, invitati a scoprire la relazione d’amore che Dio ci offre, la sua infinita tenerezza.
Quella di Luca è

la pittura luminosa del volto di Dio, così come Gesù l’ha rivelato: un Dio dell’amore e del perdono, che accoglie il peccatore pentito riportandolo alla pienezza della sua dignità, un Dio deluso dai figli ottusi e gretti ma pronto sempre ad attendere che il loro arido legalismo si sciolga (G.F. Ravasi)

Forse davanti a questa parabola possiamo essere presi da una giusta inquietudine o da un po’ di tristezza: perché ci riconosciamo nel figlio minore e nella sua pretesa di autosufficienza o nel suo sospetto che il padre non desideri la nostra felicità; o perché ci riconosciamo nel figlio maggiore e nella sua glaciale fedeltà senza passione ... ma l’importante è innanzitutto guardare al cuore del Padre ed essere certi che noi siamo nel cuore del Padre. Per questo davanti al grande affresco della nostra chiesa, mi è spontaneo dire con don Primo Mazzolari:

Mi pare di ritrovarmi anch’io, quasi senza accorgermene, nelle braccia del Padre.


ECCO IL PADRE … DIVENTARE IL PADRE
ottobre 98

Si narra che, interrogato da Ben Gurion circa le motivazioni della sua fede, Martin Buber abbia risposto: "Se Dio fosse soltanto un oggetto di discorso - un dio di cui si parla - non crederei. Ma il mio Dio è un Dio a cui posso parlare. Perciò credo". (E. Bianchi, Da forestiero, Piemme)

... non solo gli puoi parlare, ti puoi fare abbracciare da Lui, come un figlio infinitamente amato, perciò infinitamente perdonato e infinitamente atteso.
Ce lo dice e ce lo insegna il nostro Cardinale Carlo Maria Martini, con "sensibilità pastorale e animo biblico", nella sua ultima lettera pastorale "Ritorno al Padre di tutti". Un gioiello che non può andare perduto.
Perché ci consegna una splendida immagine di Dio, a partire dalla famosissima parabola - mai scontata, da ricapire ogni volta di nuovo - del figliol prodigo, meglio del padre misericordioso.
Un’immagine che ci "costringe" ad interrogarci sulla nostra relazione con Dio, sul nostro saperci affidare perdutamente a Lui e sul nostro rapporto coi fratelli, figli dello stesso Padre.
E’ una lettera "pellegrinaggio", per giungere a dire "Padre" come lo diceva Gesù: "Abbà", paparino mio ... dentro una fiducia sconfinata, una fiducia senza riserve.
E’ una lettera che vi invito a leggere, a meditare, a vivere. E che io commento attraverso le parole di due grandi uomini e cristiani: don Primo Mazzolari ed Henry J.M. Nouwen.

Ci sono momenti in cui l’orfanezza dell’uomo è così tremenda e così spaventosa che nessuno vi può resistere: e in quei momenti non c’è che un duplice atteggiamento, o una duplice conclusione: o ci si inginocchia o ci si spara.
Se voi ci pensate un attimo, se voi misurate che cosa vuol dire la presenza di un Padre, voi avete subito l’impressione che, se può infastidire, è quella che tiene, che aiuta e che porta: è l’orfanezza che se ne va, è sentirsi di qualcuno, è il trovarsi nelle ore del mistero che si chiamano, dolore, abbandono, solitudine, morte, con una speranza davanti e con qualcheduno che ci accompagna.
Per questa famiglia degli uomini, questa povera famiglia degli uomini che fa così fatica ad arrivare a sera, e semina delusioni dappertutto, e speranze che non tengono, e dolori che sono così vivi, e preoccupazioni che ci tolgono persino il respiro ... ecco il Padre. (P. Mazzolari, Il Padre Nostro, Paoline)

Le parole del nostro Cardinale ci suggeriscono il cuore del Padre: un Padre a cui il ritorno del Figlio è necessario per essere Padre. Passa tutto il giorno a scrutare l’orizzonte in attesa del figlio per potergli correre incontro e abbracciarlo stretto. Un Dio che è solo e per sempre "Dio-con-noi".

Ecco il Dio in cui voglio credere: una Padre che, dall’inizio della creazione, ha steso le sue braccia in una benedizione misericordiosa, non forzando mai nessuno, ma aspettando sempre; non lasciando mai cadere le braccia per la disperazione, ma sperando sempre che i figli tornino per poter dire loro parole d’amore e lasciare che le sue braccia stanche si posino sulle loro spalle. (H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Queriniana)

Il Cardinale ci vuole consegnare una certezza: il nostro Dio è Padre e Madre, insieme.
Un’intuizione meravigliosa già presente nel pittore Rembrandt e nel suo dipinto "Il figlio prodigo", come ci racconta ancora Nouwen e come ci ha ricordato don Alberto nel corso degli Esercizi Spirituali di fine settembre:

Il vero centro del dipinto di Rembrandt è costituito dalle mani del Padre. In esse si incarna la misericordia, in esse confluiscono perdono, riconciliazione e guarigione.
Queste mani sono diverse tra loro. La mano sinistra, posata sulla schiena del figlio, è forte e muscolosa. Quella mano sembra non soltanto toccare, ma anche, con la sua forza, sorreggere.
Come è diversa invece la mano destra! Essa non sorregge né afferra. E’ una mano raffinata, delicata e molto tenera. Le dita sono ravvicinate e hanno un aspetto elegante. La mano è posata dolcemente sulla spalla del figlio. Vuole accarezzare, calmare, offrire conforto e consolazione. E’ una mano di madre.
Il Padre non è semplicemente un grande patriarca. E’ sia una madre che un padre. Lui sorregge, lei accarezza. Lui rafforza, lei consola.

Sono un parroco e più passano gli anni, più tanta gente mi desidera padre ... anche i "miei" vicari parrocchiali ... E anch’io mi sento sempre più dolcemente costretto dallo Spirito a essere, a diventare padre. Forse lo dobbiamo diventare tutti, come ci dice ancora Nouwen, con questa sua sorprendente e "inquietante" meditazione conclusiva:

Un figlio non rimane un bambino. Un figlio diventa un adulto. Un adulto diventa padre e madre.
La sfida, o meglio la chiamata, è diventare io stesso il Padre. Sono intimorito da questa chiamata.
Sebbene io sia entrambi, tanto il figlio minore che quello maggiore, non devo rimanere come loro, ma diventare il Padre.
Voglio essere non solo colui che è perdonato, ma anche colui che perdona; non solo colui che è accolto festosamente a casa, ma anche colui che accoglie; non solo colui che ottiene compassione, ma anche colui che la offre.
Il ritorno al Padre è in definitiva la sfida a diventare il Padre.
Diventare il Padre misericordioso è lo scopo ultimo della vita spirituale.

E’ una lettera consolante ed insieme esigente quella del nostro Cardinale. Perché così è la parabola di Luca. Una parabola che chiede continuamente un cammino, un alzarsi, un andare.
Ci vuole impedire la tentazione del sentirsi a posto, del sentirsi arrivati.
Con Dio e con il prossimo.
Ci vuole pellegrini.
Verso Dio e verso il prossimo.



GLI SI GETTO’ AL COLLO
novembre 98

Voglio bene al prodigo … E’ la nostra storia, quella di ogni allontanamento, di ogni esilio, di ogni ritorno. (P. Mazzolari)


Il più giovane disse ...

La parabola del Padre misericordioso narrata da Luca al cap. 15 ci accompagnerà anche questo mese: a ottobre vi ho raccontato del Padre prodigo di misericordia, oggi guardiamo insieme al figlio più giovane della parabola. Quello che con perentorietà dice al padre: "Dammi la parte di beni che mi spetta". Quello che parte, che fugge via, lontano dal Padre, dall’appartenenza a lui, forse perché lo sente come un nemico, come un padrone. Quello che se ne va per cercare libertà, autonomia, felicità. Come diceva qualche decennio fa Simone de Beauvoir: "Ho lasciato Dio perché mi rubava la terra"
In questa meditazione ad alta voce mi farò aiutare da H.J.M. Nouwen, come nel mese scorso, e da p. Marko I. Rupnik, che abbiamo conosciuto nel nostro quaresimale di marzo.

Sono il figlio prodigo ogni volta che cerco l’amore incondizionato dove non può essere trovato. Perché continuo a ignorare il luogo del vero amore e persisto nel cercarlo altrove? Perché continuo ad andarmene da casa dove sono chiamato figlio di Dio, il prediletto di mio Padre? … E’ quasi come se volessi dimostrare a me stesso e al mio mondo che non ho bisogno dell’amore di Dio, che posso costruirmi una vita tutta mia, che voglio essere del tutto indipendente. Sotto tutto questo c’è la grande ribellione, il "no" radicale all’amore del Padre. (H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, ed. Queriniana)

Qui comincia la grande avventura del figlio. Ma quale ironia ci consegna la parabola! Il figlio se ne è andato perché sentiva il padre come padrone, voleva essere lui il "padrone" della sua vita, delle sue sostanze, voleva una nuova identità. Ma tutto questo si conclude con la perdita di quei beni tanto desiderati. A casa, dal padre, si sentiva schiavo, adesso lo è veramente.



Allora rientrò in se stesso

Il figlio ha perduto tutto, tutto si è "sbriciolato" fra le sue mani. E allora:

Adesso comincia a sentire la nostalgia del donatore. Se prima ha fissato lo sguardo sulle cose dimenticando il donatore, adesso inizia a provare la nostalgia proprio di qualcuno che gli dia le cose. (M. Rupnik, Gli si gettò al collo, ed. Lipa)

Allora rientrò in se stesso … Quella della coscienza è un’avventura difficile, inquietante, ma esaltante. Senza questa vicenda non si cresce, non si diventa uomini liberi. E spesso l’esperienza di Dio, della sua paternità, passa "fatalmente" attraverso la sua negazione …
E’ proprio questo il cammino del figlio: rientra nel suo cuore, riconosce il proprio fallimento e, nel cuore, si ritrova di fronte al padre. E’ il primo passo della salvezza.

Entrare realmente in se stessi vuol dire entrare nell’amore, trovarsi di fronte all’Altro che ti ama.
Entrare in se stessi significa entrare nel cuore, anzi scoprire il cuore e trovarsi di fronte a un Padre misericordioso che non tradisce, ma che ti guarda con un amore perenne. (M. Rupnik)



L’abbraccio

Il figlio ritorna così sui suoi passi, ritorna dal Padre.
E il Padre, vedendolo arrivare quando era ancora lontano, gli corre incontro, gli si getta al collo, lo bacia. Commosso.
Non dà al figlio neppure il tempo di scusarsi, di pronunciare qualche timida parola … Perché l’amore attende sempre, non conosce la lontananza e lo sguardo dell’amore sa vedere lontano e in profondità, anche nella notte, nella notte del cuore. Perché l’amore sa perdonare.

Dio non ha mai ritirato le sue braccia, non ha mai rifiutato la sua benedizione, non ha mai smesso di considerare suo figlio come il prediletto.
Ma il padre non poteva costringere il figlio a rimanere a casa. Non poteva imporre con la forza il suo amore al prediletto. Doveva lasciarlo andare in libertà, anche se sapeva il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso.
E’ stato l’amore a impedirgli di trattenere il figlio a casa a tutti i costi. E’ stato l’amore a consentirgli di lasciare che il figlio vivesse la sua vita, anche a rischio di perderlo.
Qui si svela il mistero della mia esistenza. Sono amato a tal punto che mi lascia libero di andarmene da casa.
La benedizione c’è fin dall’inizio. Il Padre continua a cercarmi con le braccia tese per accogliermi di nuovo e sussurrarmi ancora all’orecchio: ‘Tu sei il mio figlio prediletto’. (H.J.M. Nouwen)

Siamo soliti pensare che sia l’uomo a cercare Dio: questa meravigliosa parabola rovescia i nostri pensieri.
E’ il Padre che corre incontro, che getta le sue braccia al collo del figlio, che "dimentica" il passato, che spalanca a un nuovo futuro il figlio.
Perché l’amore compie il miracolo del radicale cambiamento.

In questo ‘gli si gettò al collo’ del Padre si consumano la storia di Dio e la storia dell’uomo. (M. Rupnik)

*****
 

Mentre leggo la parabola "mi ritrovo anch’io, quasi senza accorgermene, nelle braccia del Padre".


UN CREDENTE "ATEO"
marzo 99

A volte ho percepito che i non credenti sono più esigenti di molti credenti, e il loro essere senza Dio manifesta una passione per Dio, una concezione più alta e più intensa di quella di molti cristiani che non cercano veramente Dio e pensano di averlo trovato per sempre. Ignazio Silone, a chi gli chiedeva perché avesse abbandonato la chiesa, rispondeva che "si era stancato di stare con cristiani che dicevano di attendere Gesù Cristo e la resurrezione ma poi l’aspettavano con la stessa indifferenza con cui si aspetta un tram" ... (E. Bianchi, Da forestiero, Piemme)

Parole sferzanti, infastidenti ... le ho scelte per riannodare i fili della parabola del "figliol prodigo" raccontata da Luca al cap. 15. Vi ho già parlato del Padre e del figlio minore, adesso è la volta del figlio maggiore che un po’ tutti descrivono come un rimando al cristiano "praticante".
E’ con lui, col figlio maggiore che "abita" in noi, che una volta o l’altra dovremo "fare i conti". Magari in questa Quaresima. Sapendo che la conversione più difficile da attuare, come ci comunica la parabola, è la conversione di colui che "sta a casa".
Sentite come viene descritto il figlio maggiore da alcuni "maestri":

Quella di Luca è "La parabola dei figli perduti". Non si è perduto soltanto il figlio più giovane, che se n’è andato da casa per cercare libertà e felicità in un paese lontano, ma anche quello che è rimasto. Esteriormente faceva tutte le cose che si suppone faccia un bravo figlio, ma, interiormente, si era allontanato da suo padre. Faceva il proprio dovere, lavorava sodo ogni giorno e adempiva tutti i suoi obblighi, ma era diventato sempre più infelice e meno libero.
L’obbedienza e il dovere sono diventati un peso e il servizio è una schiavitù.
Il figlio maggiore è diventato un forestiero in casa sua.
Non c’è più autentica comunione. (H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Queriniana)

Il figlio maggiore è un’immagine sorprendentemente contraddittoria: è infatti un "credente" ateo. Sembra un uomo religioso, ma in effetti non crede. ... Ha vissuto a casa come un servo, estraneo ai sentimenti del padre. (M. Rupnik, Gli si gettò al collo, Lipa)

Si convive con Dio come uno dei tanti feticci dell’esistenza, senza lasciarsi in nulla segnare o trasformare da Lui: è la condizione che la parabola della misericordia del Padre esprime attraverso la figura del figlio maggiore, quello restato a casa che, dopo tanti anni di convivenza col padre, è incapace di comprenderne la logica di amore e di perdono. Prigioniero della sua solitudine e schiavo dei suoi interessi ("non mi hai dato mai un capretto!"), il figlio maggiore non è meno lontano dal padre del figlio andato via di casa: la vicinanza fisica non è vicinanza del cuore. Si può ritornare a parlare di Dio, ma non incontrarLo e non farne alcuna esperienza profonda e vivificante. (C.M. Martini, Ritorno al Padre di tutti, Centro Ambrosiano)

Insomma, una fede, una religione, senza passione, senza amore, senza gioia, senza fiducia.
Una fede, una religione di chi si sente a posto, di chi si sente un arrivato, di chi non si sente più di cercare. Nei rapporti con Dio e con il prossimo.
Una fede, una religione del sì ma non troppo, dei corti desideri, delle speranze dal fiato corto, della carità misurata ...
Una fede, una religione che «tingono» solo un po’ la nostra vita quotidiana.

A differenza delle fiabe, la parabola non si chiude con una pagina a lieto fine. Ci lascia invece faccia a faccia con una delle scelte spirituali più difficili della vita: fidarsi o non fidarsi dell’amore di Dio che tutto perdona. Soltanto io posso fare questa scelta. (H.J.M. Nouwen)

Ciò che ci deve rimanere impresso nel cuore è il gesto splendido, tenero, commovente del padre della parabola: anche questa volta è lui ad uscire di casa e a pregare dolcemente il figlio maggiore di entrare alla festa, di entrare nell’amore, nel Suo amore.
E’ questo invito forte e dolce che il Signore rivolge a noi in questa Quaresima.
La parabola di Luca ci chiama - quasi ci "costringe" - a verificare, a riscoprire, a lasciarsi "sorprendere" dal vero volto di Dio, Padre di tutti e per tutti, un Dio dalle "viscere materne".
Il figlio maggiore è chiamato a misurarsi con questo volto nel momento della "lotta" col fratello: è lì che sono uscite allo scoperto la sua indifferenza verso il Padre, la sua invidia verso il fratello.
Sono queste le due grandi e inscindibili conversioni che devono compiersi nel cuore del figlio maggiore: quella a Dio e quella ai fratelli.
Se riuscirà in questo cammino non si sentirà più "servo" ma figlio amato, atteso, cercato, perdonato. Le sue scelte, i suoi gesti non saranno più obblighi soffocanti o tristi abitudini ma saranno scelte e gesti pieni di libertà e di amore.
E non si sentirà più "rancoroso", incapace di rapporto col fratello:

La verifica sicura dell’adesione al padre rimane la scoperta dei fratelli. Le religioni cercano di scolpire nel mondo il volto del loro dio; la parabola ci dice che è credibile il volto dei figli che riconoscono i fratelli.(M. Rupnik)

Così per il figlio maggiore della parabola, così per il figlio maggiore nascosto in ognuno di noi.
Buona Quaresima!
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