Osiamo dire, Padre nostro
Roberto Vignolo
Osiamo
dire
Padre
Il Padre nell’Antico Testamento
Che sei nei cieli
Sia santificato il tuo nome
Venga il tuo regno
Sia fatta la tua volontà
Il pane quotidiano
Rimetti a noi i nostri debiti
Non ci indurre in tentazione
Osiamo dire
"Osiamo dire ..." particolarmente preziosa questa
battuta iniziale con cui si fa premessa al Padre nostro. In
realtà il "Padre nostro" è quanto di più
"comune" c’è o dovrebbe esserci nella nostra vita
cristiana, esso stesso suo "pane quotidiano".
Comune è ovviamente anche quell’ "osiamo
dire" perché è liturgico: così di messa
in messa la Chiesa, da buona madre, ci fa riappropriare di questa
preghiera.
La liturgia propone formule, e la formula, si sa, è fissa,
è ricorrente anche se noi sacerdoti possiamo, volendo,
mutarla a seconda delle circostanze (purtroppo non avviene sempre
in meglio). Sbaglieremmo però a pensare che la formula
liturgica voglia indurre assuefazione, anche se questo purtroppo
avviene. La formula liturgica, paradossalmente, è pensata
in senso opposto perché vorrebbe riproporre sempre di
nuovo l’originario, anche e soprattutto là dove si
presenta terribilmente abituale. La liturgia ha senso proprio
nella misura in cui ne percepiamo il valore intrinsecamente,
sempre di nuovo rigenerante.
"Che cos’è un rito?", chiede il Piccolo
Principe alla famosa Volpe, nell’omonimo libro di
Saint-Exupéry. Vale la pena ricordare che la Volpe gli
aveva chiesto di essere addomesticata (anche se finirà ad
essere lei ad "addomesticare" il Piccolo Principe) e per questo
dice al Piccolo Principe di tornare da lei tutti i giorni. Lui
torna, ma mai alla stessa ora. La volpe allora osserva:
Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora. Se
tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre
io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora
aumenterà la mia felicità! Ma se tu vieni non si sa
quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore
… Ci vogliono i riti … Un rito è quello che
fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre
ore.
Il rito è diverso perché rompe la monotonia, il
"sempre identico" più comune e volgare del tempo. E’
diverso perché mi ridà il valore originario del
tempo che sto vivendo.
Similmente la formula del rito. Diversa di volta in volta anche
se identica perché in quel momento, un momento che
è sempre differente, io sono graziato nel potermi
riappropriare del senso originario del tempo.
"Istruiti dalla Parola di Gesù" - ci dice appunto la
formula - istruiti dalla sapienza del Vangelo, "Osiamo
dire" ... e qui si comincia con il Padre nostro - a
prendere sul serio la formula introduttiva - evidentemente
costituisce un’invocazione, se non rischiosa, quantomeno
spregiudicata, inconsueta e sfacciata
Padre
Ma cosa ci sarà di tanto spregiudicato?
‘Padre’ non sembra una parola così
originale applicata a Dio! Quale religione non conosce Dio come
Padre? Forse ce ne sarà qualcuna, ma credo proprio che
tutte le religioni conoscano Dio come Padre ... non ci voleva
Gesù per farcelo scoprire. Questo è un punto
delicato e cruciale.
Purtroppo sembra esserci un’abitudine alla paternità
di Dio. E’ una nozione perfettamente acquisita e forse
altrettanto perfettamente estinta e inutile. Tutti noi cresciuti
sui banchi del catechismo ne siamo stati istruiti. Sembra che
nessuno abbia problemi in merito, a meno che sia portato nella
sua esperienza di fede a interrogarsi sulla paternità di
Dio e a chiedersi, appunto, dove sia questo Padre e che volto
abbia.
"Osiamo dire ..." se noi prendessimo più sul serio
questa formula introduttiva capiremmo che l’esperienza
della paternità di Dio è un atto di incredibile
libertà, non è un atto consueto, un gesto facile a
portata di mano. Piuttosto, così come ci fa dire la
liturgia è qualche cosa che evoca addirittura il rischio
di "osare". E per osare ci vuole il coraggio da prestare davanti
ad un rischio, a un evento che ti sollecita a una scelta gravida
di conseguenze.
Il padre, evidentemente, è colui che genera e riconosce il
proprio figlio, ma in un certo qual senso la nostra condizione di
figli è tale nel momento in cui riconosciamo noi il Padre
che ci genera.
Questo significa nient’altro se non quella bellissima
espressione di Paolo che dice: " Noi abbiamo la parresia di
fronte a Dio". Essere figli, trattare Dio come Padre vuol
dire veramente quello che in modo magnifico esprime Péguy,
in uno stile apparentemente trasandato:
"Padre nostro che sei nei cieli."
Evidentemente quando un uomo ha cominciato così,
quando mi ha rivolto queste tre o quattro parole,
quando ha cominciato col far avanzare davanti a sé
queste tre o quattro parole,
dopo può continuare, può dirmi quello che
vuole.
Lo capite, io resto disarmato.
E mio figlio lo sapeva bene, lui che ha tanto amato questi
uomini.
Invocare Dio come Gesù ci insegna consiste
nell’introdurci in un dialogo ed in una relazione con Dio
tale per cui godiamo della possibilità di dire tutto
quello che si vuole. Ecco il rischio da correre coraggiosamente:
quello della nostra libertà filiale.
Noi però sappiamo benissimo che Dio è padre, ma
raramente osiamo rivolgerci a Lui come tale, raramente osiamo
quello che di per sé non sarebbe così
immediatamente alla nostra portata, ma che lo Spirito di
Gesù ci concede (Rom 8; Gal 4).
Il Padre nell’Antico Testamento
Tutte o quasi le religioni conoscono Dio come Padre.
Tuttavia se c’è una fede in cui questa esperienza,
questa rivelazione arriva piuttosto alla fine che non al
principio è proprio l’esperienza biblica culminante
in quella di Gesù. Se scorriamo la Bibbia si trova
sì, qua e là, qualche menzione, qualche rivelazione
nell’Antico Testamento di Dio come Padre, ma in
verità non tanto frequente. Padre non è certamente
un titolo, un nome divino che si impone per la sua frequenza.
Però se leggiamo attentamente - e anche questo è
interessante - ci si accorge che gli autori biblici
dell’Antico Testamento quando parlano del Padre lo fanno
con un riguardo del tutto speciale, comunque in posizioni
assolutamente strategiche, tali da dare un’ermeneutica,
un’interpretazione in maniera davvero decisiva di interi
corpi biblici.
Così la rivelazione di Dio Padre piace molto al libro del
Deuteronomio, l’ultimo libro del Pentateuco,
quella Torah che ci dà la quintessenza della fede di
Israele. Proprio alla fine di questo libro Dio parla con gli
accenti di un Padre che avrebbe voluto conoscere attraverso
un’esperienza filiale coloro che ha generato alla vita (la
generazione vitale è in primo luogo, un’esperienza
storico-salvifica) e invece verifica che i suoi sono figli che
non sono figli (Dt 32), figli degeneri.
E’ un messaggio che si trova proprio in coda a tutto il
Pentateuco quasi a sintetizzare nelle ultime parole di
Mosè il vissuto autentico della fede. La storia di
salvezza arriva ai confini della terra promessa per poter
riscoprire questa condizione filiale.
Nel libro di Isaia si ha la stessa percezione:
"l’asino conosce la greppia del padrone, il bue conosce
pure chi gli dà da mangiare e invece Israele non
comprende, il popolo che è il popolo dei miei figli non mi
conosce!".
Sarebbe anche magnifico vedere il cap. 11 del libro di
Osea dove la paternità di Dio diventa anche
la paternità capace di grande perdono.
Si direbbe che la rivelazione di Dio come Padre è un
po’ come un risultato, come un segreto che quello che noi
chiamiamo Antico Testamento ci affida, ponendolo in certe pieghe
delle pagine bibliche, non così evidenziato, non
così direttamente e accentuatamente palesato.
Tutto questo è rilevante e noi dobbiamo interpretarlo come
il pudore con cui si circonda ciò che è
particolarmente prezioso e che chiede un’iniziazione
profonda e autentica. Non è ciò che subito e
immediatamente può essere recepito, ma è ciò
che invece può essere scoperto attraverso un cammino di
fede, che passa per la terapia del deserto, che è sempre
molto energica pedagogia paterna:
Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo
Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel
deserto … il Signore ti ha nutrito di manna ... il tuo
piede non si è gonfiato in questi quarant’anni ...
Riconosci dunque in cuor tuo che, come un padre corregge il
figlio, così il Signore tuo Dio corregge te ha fatto con
te. (Dt 8,2-5)
Dobbiamo riaccostarci a questo aspetto così
cruciale della nostra fede anzitutto accettando in primo luogo la
logica dello stupore che è riscoperta di un cammino per
molti aspetti inedito: Dio è Padre che sa dare vita anche
e soprattutto in luoghi e tempi di per sé completamente
inospitali e aridi – proprio come il deserto -, alieni da
ogni benedizione. In questo senso Dio è Padre: colui sotto
la cui guida, "non manco di nulla" (Sal 23,1).
Che sei nei cieli
Dio è Padre "nostro", ma anche il Dio "nei
cieli" - ci dice Gesù, attraverso il linguaggio
dell’evangelista Matteo, quando insegna il Padre nostro:
"Padre nostro che sei nei cieli ..."
E’ soprattutto Matteo che caratterizza la preghiera di
Gesù aggiungendo un "nostro" al nome divino e
aggiungendo anche "che sei nei cieli", una specificazione
che gli è molto cara.
Non è il Dio dietro l’angolo, non è il Dio
del pianerottolo! Gesù ci istruisce su questo mistero che
sta al cuore della sua vita come della nostra e della ricerca di
tutti, perché in realtà noi cerchiamo sempre e
soltanto il Padre. Lo cerchiamo quando cerchiamo il fratello,
quando cerchiamo la sposa o lo sposo, quando cerchiamo il figlio,
quando cerchiamo la madre, quando cerchiamo il padre (con la
minuscola). In realtà noi cerchiamo sempre il Padre. Lo
cerchiamo anche quando apriamo un libro, qualunque libro sia,
perché cerchiamo un altro che ci precede e dal quale farci
rigenerare fosse anche con un romanzetto, con una novella
divertente o forse anche con il manuale con cui faremo
l’esame e in seguito arriveremo ad occupare un ruolo
socialmente significativo e di responsabilità. La lettura
è un "essere rigenerati da una paternità" e
queste cose non sono dette da voci sospette di filo-cattolicesimo
o di filo-cristianesimo, ma da voci dichiaratamente atee, come
quella di Roland Barthes secondo il quale il piacere della
lettura è di farsi rigenerare da qualcuno, di farsi
rigenerare ad un senso, ad una novità di vita che dopo
questa lettura potrà essere in qualche maniera
incrementata, trasfigurata.
Se questo vale per la lettura figuriamoci per una esperienza di
preghiera là dove interviene Gesù di Nazareth a
rigenerarci, dandoci le coordinate più autentiche della
esperienza di Dio, in particolare quelle della
paternità.
Tutte le volte che pensiamo a Dio, ci volgiamo a Lui lo scopriamo
come tale nella misura in cui ci lasciamo istruire da
Gesù.
E’ interessante che entrambi gli evangelisti Matteo e Luca
collochino il Padre nostro come una istruzione di Gesù
anche se in contesti diversi.
Nel Vangelo di Matteo il padre nostro si erge come la guglia
centrale tra i capitoli da 5 a 7, ovvero nel cuore del "Discorso
della montagna". sta proprio in mezzo, centro perfetto di tutto
quel discorso e, in particolare, al centro di tre istruzioni:
l’elemosina, la preghiera, il digiuno. Qui Gesù
ripete come un ritornello:
Quando fai l’elemosina ... quando preghi ...
quando digiuni ... fallo nel segreto! ... E il Padre tuo che vede
nel segreto ti ricompenserà!.
Nell’ottica di Matteo, il Padre nostro va
letto come una istruzione supplementare che arriva dopo che
Gesù ci ha istruito dicendoci: "Guarda che Dio è
Padre tuo".
Nei Vangeli un testo così è davvero unico. Neppure
Giovanni ha un’espressione così da parte di
Gesù, un Gesù che diventa Maestro di sapienza e
istruisce personalmente ogni discepolo sul fatto che Dio è
Padre suo: "Guarda che Dio è Padre tuo!".
Un "Padre tuo" che non è da confondersi con un padre
amicone o intimista, ma che invece chiede di essere sperimentato
come colui attraverso cui si riguadagna un’esperienza di
fraternità: "Padre nostro".
Tutto questo è tipicamente matteano: la Chiesa di
fratelli, perché discepoli di Gesù e figli del
Padre.
E questo è particolarmente attuale, perché oggi la
Chiesa è in crisi non perché i preti giovani (e
meno giovani) abbandonano presto; e neanche perché ci sono
tanti divorzi, tante separazioni o per tutta la serie di altre
ragioni. La crisi della Chiesa oggi è una crisi di
fraternità, è una crisi di estraneità palese
e intollerabile (prima era strisciante e, nella struttura
piramidale della Chiesa, da tutti omologata, l’assenza di
fraternità aveva una sua plausibilità accettabile).
È’ la crisi di una Chiesa che mentre predica la
comunione, in realtà è fatta più di funzioni
che di relazioni. È’ la crisi di una Chiesa in cui
Dio è cercato come una divinità dai tratti
anonimamente materni (stile New Age), che ci fa sentire in buona
risonanza con noi stessi, possibilmente anche con Lui.
Addirittura Dio diventa il felice scambio dell’energia
vitale in maniera da armonizzare o anche, più
semplicemente, eccitare la propria esistenza. E’ la crisi
di una Chiesa come organizzazione di un sacro erogato in termini
spendibili, il sacro il più spendibile possibile.
Da questo punto di vista si potrebbe davvero sfruttare questo
anno del Padre per ritrovare la dimensione della paternità
e la sua ricaduta sul piano delle nostre relazioni personali.
Dalla bocca di Gesù (nella circostanza
dell’istruzione) forse non è uscita la parola
"nostro". Gesù diceva "Padre, Abbà" e basta, ma
faceva dire a tutti i suoi discepoli "papà mio" in maniera
tale che tutti quanti potevano poi ricuperare la percezione di
una unità tra di loro sentita a un livello non puramente
occasionale, non puramente emotivo, tanto meno in termini di mera
e semplice organizzazione.
Questo Padre mio/nostro, è quello celeste.
Sarà anche importante cogliere questa bella dialettica:
"padre nostro che sei nei cieli". Direbbe Qoelet
(5,1): "Quando preghi, quando vai alla casa di Dio, stai attento
a come apri la bocca perché Dio è in cielo e tu sei
in terra ...". "I cieli sono i cieli del Signore e la terra
l’ha data ai figli dell’uomo" (Sal 115,16). I
cieli ci dicono non tanto un Dio lontano e staccato, ma ci dicono
che noi parleremo di Dio, sperimenteremo Dio sempre soltanto
guardando dal basso in alto, ci dicono che sopra la nostra testa
ci sarà sempre un ‘cielo’ a cui poter
guardare, ci dicono che il ‘cielo’ è
‘l’osservatorio di Dio’ e cioè quel
luogo nel quale noi siamo originariamente pensati e benedetti da
Dio (Ef 1,3 ss).
La lettera agli Efesini comincia con una magnifica
benedizione al Padre: "Benedetto il Padre del nostro Signore
Gesù Cristo che ci ha benedetto con ogni benedizione
spirituale nei cieli in Cristo". I ‘cieli’
potrebbero essere un luogo che appartiene ad una immagine
mitologica del mondo, ma avendo imparato a ricuperare la grande
ricchezza del linguaggio del mito, possiamo dire che il Padre di
Gesù è un Padre infinitamente superiore a noi, che
sempre e ovunque ci trascende.
Giovanni alla fine del Prologo ribadisce che, nonostante la
rivelazione che Gesù ha fatto di Dio: "Dio nessuno
l’ha mai visto" (Gv 1,18): è il Figlio che ce lo
racconta, è il Figlio che è rivolto verso il Padre,
che ce lo narra.
Lo stesso, in termini diversi, troviamo in Luca quando i
discepoli che vedono pregare Gesù hanno voglia di entrare
nel mistero della sua preghiera. E’ molto bella questa
prospettiva di un insegnamento da parte di Gesù, tipica di
Luca, collocata all’interno del cammino che Gesù sta
compiendo in salita verso Gerusalemme, un cammino che è in
realtà un abbandono nelle mani del Padre. I discepoli
hanno bisogno di essere coinvolti in questo cammino che va verso
il Padre.
Al Padre si va "dal basso in alto": quello che Luca non ci dice
(perché non ha il particolare ‘nei cieli’) ce
lo rende in modo ancora più efficace con l’idea che
al Padre si va entrando in comunione con la preghiera di
Gesù.
Il Padre nostro di Matteo è forse più didascalico
rispetto a quello di Luca, che invece ha un tratto un po’
più diretto e spiccio e, in questo senso, anche più
confidenziale, più simile alla preghiera stessa di
Gesù.
In fondo la questione è tutta qui: noi non possiamo
pensare di aver pregato mai, neanche una volta, autenticamente,
il Padre nostro se non lo abbiamo fatto in maniera tale da essere
in primo luogo coinvolti dallo Spirito di Gesù Cristo.
Il Padre nostro non sarà mai pregabile adeguatamente se
non proiettandoci sopra le nostre idee ed esperienze limitate
della paternità divina o della paternità umana. Per
lo più è preghiera che sottoponiamo ad infinite
mutilazioni alla quale andiamo avendola in qualche maniera
già tacitamente spenta nel suo significato e nella sua
carica più forti.
Noi preghiamo il Padre nostro autenticamente almeno se, di tanto
in tanto, con Giobbe, diciamo a noi stessi: "Ecco, oggi riscopro
un tratto del Tuo volto che prima non conoscevo. Prima ti
conoscevo per sentito dire, ma oggi in effetti ti conosco
più direttamente e più personalmente".
Poiché in effetti il Padre nostro è ispirato
proprio a questo principio: il Padre di Gesù è
sempre nell’atto di rivelarsi, non è un Padre, per
così dire, già rivelato, preconfezionato.
Sia santificato il tuo nome
"Sia santificato il tuo nome": è molto
originale questo modo di pregare nonostante Gesù ricorra
ad un linguaggio ampiamente reperibile nel mondo ebraico del suo
tempo. Se infatti Gesù avesse pregato come normalmente
tutti gli ebrei al suo tempo, invece di dire "sia santificato il
tuo nome" avrebbe celebrato la lode di questo nome di Dio e
cioè lo avrebbe esaltato lui stesso direttamente. Avrebbe
cioè detto "Voglio esaltare, lodare, santificare il
Tuo Nome!". E invece no: la lode di Dio da parte di Gesù
avviene attraverso una preghiera di domanda in cui egli chiede
che sia Dio stesso a santificare il proprio nome. Vale a dire:
"Padre, Papà mio, fatti conoscere per quello che veramente
tu sei".
Avete presente quando noi - per lo più non oltre i 9 o 10
anni - confrontandoci con i nostri coetanei, vantavamo le
qualità del nostro papà? Vinceva chi riusciva a
vantarle migliori e più grandi. Gesù sta facendo,
grosso modo, questo tipo di operazione, con la sola differenza
che fa conto sulla qualità, sulla capacità che Dio
ha di farsi conoscere per quello che veramente è, di farsi
stimare e amare veramente da tutti come Padre suo e nostro.
Un ebreo normale al tempo di Gesù avrebbe detto: "Ci
pensiamo noi a tenere alto l’onore di Dio dicendo che
è benedetto, lodato, santificato". Gesù invece
è come se facesse un passo indietro, ritenendo che la lode
migliore di Dio è quella che Dio dà di se stesso e
che quindi la nostra lode migliore a Dio è proprio
supplicarlo di farsi Lui conoscere in tutta la sua magnifica
libertà.
Quando noi diciamo "Padre sia santificato il Tuo nome", in quel
momento dovremmo avere, sempre di nuovo, una percezione
più profonda e autentica della paternità di Dio
perché, se diciamo seriamente quel "sia santificato il Tuo
nome", siamo noi stessi per primi coinvolti come destinatari di
questa manifestazione che Dio vorrà fare di sé.
Questo dovrebbe farci pensare che il nome santo di Dio è
sempre quello di Padre esattamente come del Padre è sempre
il Regno, quella signoria di cui viene invocata la venuta e la
piena affermazione.
Venga il tuo regno
Sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo Regno"
sono invocazioni che mettono l’accento su quello che
è la personalità più profonda e autentica di
Dio, la libertà più profonda ed autentica di Dio,
una libertà che ha accettato il rischio di misurarsi con
la nostra.
Il nome di Dio possiamo averlo nel cuore e sulle labbra, ma
possiamo anche profanarlo, allontanare dalla nostra esistenza. Il
Regno di Dio viene, ma noi possiamo anche sottrarci a questa sua
venuta e rifiutarci alla conversione che esso ci offre e ci
chiede.
Da questo punto di vista è davvero molto rilevante tenere
presente che quella di Gesù è la preghiera di chi
apre la bocca aprendo il cuore e l’orecchio, cioè
è la preghiera di chi, in primo luogo schiude la propria
esistenza a ricevere la sempre nuova rivelazione di Dio.
Pregare non è un atto devoto ma vitale: è
rinascere, è ritrovarsi fino in fondo responsabili di
fronte a Dio perché la Sua Parola ci è stata
rivolta e noi gliela possiamo restituire.
Mi ricordo un cineforum – tra i primi cui avevo partecipato
intorno ai quattordici anni in compagnia di un amico molto
timido, che non interveniva mai in pubblico. Quella volta avevano
proiettato un film - purtroppo non ne rammento il titolo - che
finiva con questa battuta in bocca al ragazzo protagonista del
film: "Mio padre ha parlato con me!". Finisce il film, inizia la
discussione (normalmente questi cineforum erano terribilmente
impacciati all’inizio perché nessuno mai usciva a
parlare), ed ecco questo mio amico alzarsi di scatto, per primo,
e, partendo da quella battuta finale, imbastire un intervento
magnifico capace non soltanto di rileggere fedelmente quel film,
ma anche di toccare nella maniera più profonda e autentica
un nervo scoperto della sua stessa esperienza, l’istanza di
essere riconosciuti/interpellati dalla propria origine.
"Mio padre ha parlato con me" ... Questo è il senso che ci
deve restituire il Padre nostro. Mio Padre ha parlato con me, e
quindi io posso far conto sul fatto che di nuovo parlerà
con me. Posso far conto a mia volta di parlargli sempre.
Sia fatta la tua volontà
Sarebbe interessante ricuperare la prospettiva di
Matteo su quel "sia fatta la Tua volontà" -
normalmente riconosciuto come redazione dell’evangelista -
come intenzione di farci vedere che Gesù insegna a pregare
proprio come prega Lui.
Quel "sia fatta la Tua volontà" ritorna nel Getsemani (Mt
26,39.42) in maniera molto accentuata appunto da Matteo, per il
quale la preghiera insegnata da Gesù è tutta fino
in fondo coperta dalla sua esperienza più diretta.
Questa esperienza di paternità è davvero
qualificante le invocazioni che introducono il Padre nostro: "il
Tuo nome, il Tuo Regno".
In sintesi, relativamente a queste prime sue indicazioni si
dovrà tener presente come esse siano tutte sorrette e
interpretabili in riferimento a quel "padre/papà mio e
nostro" iniziale: si tratta infatti sempre del tuo nome,
tuo regno, della tua volontà.
L’esperienza di filialità qualifica
l’invocazione al Nome e al Regno del Padre, ma poi si
traduce molto bene in uno spicciolo più quotidiano.
Le richieste che vengono successivamente avanzate (il pane, il
perdono dei peccati, il non indurre in tentazione e il "liberaci
dal male") ci fanno guardare ad una esperienza più
diffusa, capillare, elementare, ci fanno contemplare questa
stessa paternità al livello della nostra vita quotidiana
(proprio come le prime ci facevano rivolgere lo sguardo verso
l’alto per cogliere il movimento di discesa di questa
paternità di Dio).
Il pane quotidiano
Ecco allora la straordinaria richiesta del pane:
"dacci il pane quotidiano". "Ogni giorno" - specifica Luca (e
questa volta forse è lui che interviene, secondo la sua
logica di amore alla quotidianità): "Chi mi vuol seguire
prenda la sua croce ogni giorno e mi segua", farà dire a
Gesù.
Il pane quotidiano è quello che, molto probabilmente,
Gesù invitava i suoi discepoli a richiedere, da mendicanti
quali loro erano.
Se dobbiamo pensare come Gesù pregasse in particolare
tutta questa serie di richieste, pensiamola così: è
la preghiera della missione di Gesù tutta dedicata al
Regno di Dio, tutta dedicata a far capire che Dio veramente si
è avvicinato a tutti come Signore e Padre, e quindi tutta
dedicata anche ad affidare a Lui senza condizioni la propria
esistenza. Non dimentichiamoci come viveva Gesù: era un
marginale, non aveva dimora fissa, né un lavoro fisso, un
ruolo riconosciuto nella organizzazione sociale del suo tempo, e
i suoi discepoli che lo seguivano vivevano pure loro così.
Ricordiamoci questo fatto perché nella vita della Chiesa
sono pochissimi quelli che hanno seguito e che seguono la forma
di vita di Gesù, una forma appunto per cui "le volpi hanno
le tane e gli uccelli il nido, ma il Figlio dell’uomo non
ha dove posare il capo" (Mt 8,20). Non fa poesia Gesù
quando dice così ma offre uno specchio fedelissimo del suo
vissuto (e quel "Figlio dell’uomo" è in senso
inclusivo perché Gesù pensa a sé, ma pensa
anche ai discepoli che hanno rischiato la vita con Lui).
"Dacci oggi il nostro pane quotidiano": credo abbia ragione chi
legge questa preghiera come quella che Gesù
all’inizio della giornata recitava con i suoi discepoli,
nella speranza di incontrare qualcuno che nei villaggi di
Galilea, di Giudea o di Samaria accogliesse i messaggeri del
Regno e con loro scambiasse la pace e condividesse anche il pane
quotidiano. E’ una domanda davvero molto bella, ben
incarnata nella missione così singolare di Gesù,
che dobbiamo riscoprire nella sua infinita valenza.
"Dacci il nostro pane quotidiano" vuol dire che tutto quello che
noi ci guadagniamo con il sudore della fronte, con competenza e
capacità resta sempre un dono: più ci abbiamo messo
di nostro, e più è dono; più è frutto
di fatica, di collaborazione e più dobbiamo riconoscerlo
come una gratuità assoluta. Non è un caso che
Gesù ha preso il pane come un segno così
caratterizzante la Nuova Alleanza. "Mangiare e bere - direbbe
Qoelet - è dono di Dio". Riuscire nelle cose che facciamo
è dono ulteriore di Dio.
"Dacci oggi il nostro pane quotidiano" davvero significa questo:
dacci la possibilità di sostentare la nostra esistenza
apprezzandone e gustandone il senso come un dono, e facendo
sì che dalla nostra esistenza sappiamo trarre non la
maledizione del lavoro, né quella dell’ozio, ma
piuttosto la benedizione di una vita tutta appesa alla
gratuità di Dio, tanto più là dove si spende
e si impegna.
Rimetti a noi i nostri debiti
Dice Evagrio Pontico (un padre del deserto della
fine del IV sec.):
Se tu preghi avendo in cuore anche solo un
po’ di risentimento verso un tuo fratello, sei come uno che
va ad attingere acqua con un’anfora forata!
Questo è il senso che noi possiamo ricavare
del "Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo
ai nostri debitori" che troviamo in Matteo. Nessuna
possibilità di essere uditi, ascoltati, perdonati da Dio
se ci sottraiamo alla trasmissione, alla disponibilità di
condividere questo perdono e, in questo senso, "di essere
perfetti - come direbbe il Gesù di Matteo - come
è perfetto il Padre vostro celeste".
Essere perfetti non è una condizione di immunità,
‘perfezione’ per la Bibbia è tutto meno che
immunità, semmai è l’essere sorgivi e
vivificanti così come è il Padre, con la differenza
che Lui può esserlo sempre e senza troppa
difficoltà, mentre noi sempre a prezzo di fatica e di un
cammino spirituale.
Luca ci dà un’idea diversa del rapporto tra
perdono di Dio e del fratello, sostenendo proprio il contrario:
"Rimetti a noi i nostri debiti perché anche noi stessi li
rimettiamo ad ognuno che deve a noi". Magnifica questa
complementarità delle due versioni del Padre!
In effetti, noi non possiamo chiedere a Dio un perdono se noi
previamente non l’abbiamo già elargito agli altri;
ma non è meno vero che soltanto Dio stesso, anticipandoci
nel perdono, è in grado di far scattare in noi la
disponibilità, la capacità effettiva di
perdonare.
Davvero osiamo e rischiamo tanto quando arriviamo qui, e varrebbe
la pena - visto che la Chiesa ci fa recitare il Padre nostro di
Matteo - di stare un po’ attenti nel recitarlo ... è
pericoloso! Perché dire "Rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori" è esporsi ad un
grosso, effettivo rischio, dal momento che dovremmo immaginarci
troppe volte un Dio che allarga le braccia e dice: "Come faccio a
perdonarti se non mi aiuti tu?".
Non ci indurre in tentazione
Anche qui - pensarci bene - è singolare.
Gesù, il rivelatore del Padre per eccellenza, ci fa
chiudere la sua preghiera in maniera che parrebbe un po’
ristretta, persino misera. Comincia in tono decisamente alto
("Padre, sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo
regno..."): l’orizzonte dischiuso è amplissimo,
enorme. Poi entra il più feriale "pane quotidiano" (e su
questo non abbiamo obiezioni). Sul perdono i problemi ci sono
eccome (e li abbiamo accennati). Ma poi tutto finisce addirittura
con "non indurci in tentazione" e con l’aggiunta di Matteo
"ma liberaci dal male" (o dal Maligno).
La percezione è di entrare progressivamente a contatto con
una situazione davvero sempre più misera: la miseria di un
quotidiano che ci vede troppo abitualmente tentabili, una
situazione nella quale la prova non è
l’eccezionalità, ma è la
normalità.
Siamo abituati a valutare positivamente la nostra vita cristiana
tanto quanto la sentiamo intoccabile, perfetta (dove
‘perfetta’ semmai vuol dire ‘blindata’
come una cassaforte che nessuno riuscirà mai a scassinare)
... Ma non pare che Gesù la: per lui la vita cristiana
è quella di una filialità militante, una condizione
in cui si riconosce la grandezza di Dio e in cui si è
altrettanto consapevoli della miseria nostra. In questo senso si
riconosce anche il fatto che Dio ha le sue buone ragioni, non
tanto a tentarci nel senso di insidiarci, ma quanto meno a
metterci alla prova.
Qui sta la differenza tra noi e Dio, una differenza che
l’Antico Testamento ci ricorda in maniera così
chiara: Dio può metterci alla prova, ma noi non possiamo
mettere alla prova Dio (cfr. Es 19,20; Dt 6,16; Mt 4,7).
La nostra esistenza ha senso tanto quanto noi non ci sottraiamo
all’essere misurati dalle circostanze più
imprevedibili. La nostra fedeltà a Dio che tante volte ci
può apparire così adamantina, cristallina potrebbe
essere appesa ad una serie di condizioni molto tenui. Venute a
mancare, tutto potrebbe cambiare molto, molto radicalmente,
offuscarsi e quindi inquietarsi (cfr. Sal 30).
"Non indurci in tentazione" vuol dire proprio questo: "fa’
sì che noi sappiamo essere provati, che accettiamo la
spoliazione della prova, ma sii Tu la nostra roccia
all’interno di questa prova".
Chiudendo non possiamo non rammentare come Gesù stesso
incorpori questa preghiera.
In particolare, proprio nel vangelo di Luca (23,46), la stessa
invocazione "Padre" è quella che Gesù avrà
sulla bocca quando dalla croce griderà: "Padre, nelle
tue mani affido il mio spirito", e proprio così
dicendo spira, orientando il suo esito finale in un totale
affidamento e slancio verso il Padre.
La preghiera di Gesù fa spiccare a noi lo stesso salto,
trasmette lo stesso slancio, la stessa esistenza filiale che si
affida a queste mani paterne sostenuta dalla fede stessa di
Gesù, dalla fiducia che Gesù per primo sperimenta
affidandosi alle mani del Padre.
Il Padre nostro in questo senso è proprio via maestra a
farci riscoprire una condizione di esistenza in cui non siamo
condannati né ad essere schiavi né condannati a
sentirci come dei re su questa terra, ma in cui siamo invitati a
una vita filiale che talvolta è via regale e talvolta
è via umilissima di servi, ma sempre e comunque una
condizione di fraternità. La rivelazione di questo Padre
da parte di Gesù è, in ultima analisi, la prima
grande esperienza di fraternità che lui ci fa fare.
"Lui, il Figlio - come dice la lettera agli Ebrei - non
si è vergognato di chiamarci fratelli" (Eb 2,11
ss).
Riscoprire la preghiera di Gesù, pregata da Lui, insegnata
da Lui e quindi il Padre di Gesù rivelato da Lui, è
la condizione più elementare alla quale noi dobbiamo ogni
giorno con semplicità essere appropriati. E questo
è davvero dono, ma certamente anche il frutto di una
esperienza di discepolato al Signore molto disponibile.
LUCA 11,1-4
1 E avvenne che mentre egli era in un luogo a pregare, come
ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: "Signore,
insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi
discepoli".
2 Disse loro: "Quando pregate dite:
Padre,
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno;
3 dacci ogni giorno il nostro pane
quotidiano;
4 e rimetti a noi i nostri peccati,
perché anche noi stessi
li rimettiamo a ognuno
che deve a noi;
e non farci entrare
in tentazione".
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MATTEO 6,9-13
9 "Voi dunque pregate così:
Padre nostro che (sei) nei cieli;
sia santificato il tuo nome;
10 venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra;
11 dacci oggi il nostro pane quotidiano;
12 e rimetti a noi i nostri debiti,
come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri
debitori;
13 e non farci entrare
in tentazione,
ma liberaci dal male".
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