DIVENTARE IL PADRE
Angelo Casati
Questo il tema che mi è stato assegnato da don Mirko.
E io mi lascerò condurre da alcune suggestioni. Alla fine
magari mi accorgerò che non sono quelle teologicamente più importanti, forse
nemmeno le più stringenti. Ma forse vi avrò raccontato qualche riflessione,
fatta per strada.
La prima reazione è stata davanti al tema: "Diventare
il padre". Un certo stupore. Diventare padri o diventare bambini?
Non è forse scritto: "Se non diventerete come
bambini non entrerete nel Regno dei cieli"? (Mt. 18, 3).
E Gesù non dice anche con chiarezza inequivocabile: "Uno
solo è il Padre vostro, quello del cielo; voi siete tutti fratelli. E non
chiamate nessuno «padre» sulla terra"? (Mt 23, 8-9).
Nella visione di Gesù noi siamo chiamati in prima istanza ad
essere figli. Assoluta è la paternità di Dio.
A questo riguardo il nostro Arcivescovo ai parroci di prima
nomina, lo scorso gennaio, faceva notare che nella stessa sfera fisica
la paternità è una realtà diversificata che non cresce
indefinitamente. Il culmine vero sta nella generazione fisica del figlio e
nei primi anni della sua vita; col passare degli anni il padre diventa
piuttosto un fratello maggiore e così la paternità si attenua, si fa
fraternità. Quando poi il padre invecchia è il figlio a prendersi cura di
lui.
Sbaglia allora chi aspira ad essere – secondo il detto
popolare – un ‘padre eterno’.
Ritenere che la paternità sia un ideale assoluto è
usurpare il posto del Padre che è nei cieli, diventare padri padroni.
Sono tanti i padri che impediscono la crescita dei figli
perché vivono in maniera assoluta la paternità.
Si tratta di un atteggiamento più diffuso di quanto
sembri nella sfera sociale pur se ai nostri giorni è anche diffusa la
deviazione contraria, cioè la paura di essere padri, il non accettare
alcuna responsabilità, il non volere educare, correggere, castigare. (Triuggio
13.1.1999).
Detto questo a modo di premessa, direi che mi affascina la
suggestione del titolo del nostro incontro, che non è "diventare
padre", perché padri si diventa o perché ti nasce un figlio o perché
ti nominano parroco. Ma non basta. Non basta l’anagrafe civile o il D.N.A e
nemmeno basta la nomina o l’investitura canonica a farti parroco. Ci vuole una
vita, e forse non basta, a diventare il Padre, a inseguire una paternità
modellata su quella del Padre che è nei cieli, una paternità che nella
parabola che stiamo meditando quest’anno, quella cosiddetta del figliol
prodigo, risplende per la pazienza, l’attesa, l’amore incondizionato di Dio.
Vado per suggestioni. Diventare il Padre può significare per
noi diventare custodi, custodi e non truppe di occupazione.
La parola "custodia" evoca la percezione che
l’altro è abitato, che le cose sono abitate, che un mistero le fa sacre.
"Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una
terra santa"(Es 3,5).
Non padroni, ma custodi sì.
"Sono forse io il custode di mio fratello?".
Così Caino a Dio che gli chiedeva: "Dov’è Abele tuo fratello?".
E la voce del sangue urlava al cielo dalla terra.
"Sono forse io il custode di mio fratello?". Il
male – forse uno dei mali più grandi – viene da qui: dal non sentirci più
custodi.
E se ritornassimo a guardare, come un padre, ogni cosa, ogni
persona, a guardarla come creatura che ci è affidata, che ci riguarda, che ha
un legame con noi? Se ritornassimo a educare a questo sguardo su persone e su
cose?
Sì, è uno sguardo.
"Non si può amare un bosco, se lo si vede solo come
una fabbrica di ossigeno" – diceva in una sua intervista anni fa
il regista Ermanno Olmi –. "L’amore nasce da un rapporto diretto
e c’è un solo modo per conoscere la foresta: inginocchiarsi e guardarla
da vicino".
Forse potremmo continuare all’infinito: c’è solo un modo
per conoscere Dio, per conoscere una donna, un ragazzo, una città…
"inginocchiarsi e guardarli da vicino".
La custodia non l’occupazione.
Potremmo aggiungere: il volto, non il programma, l’assoluto
del volto, non l’assoluto del programma.
La paternità richiama i volti, la debolezza del volto.
Mi affascina sempre l’immagine di un Dio che si intenerisce
e si ferma davanti al volto, davanti alla fragilità di un volto.
Il padre della parabola accantona il programma, il programma
è in secondo piano rispetto al volto del figlio.
Un figlio, che si sente fuori programma, non torna più a
casa. Torna il figlio che si sente amato nel suo volto fragile.
C’è nell’aria, purtroppo, anche ai nostri giorni, un’immagine
di potenza che uccide. O sei al massimo livello o sei pietra di scarto. Una
società, anche la nostra, che avanza pretese sulla vita. E tu devi stare al
passo. Alla pari con i sogni dei tuoi genitori o dei tuoi figli, con i sogni dei
maestri e dei preti, con i sogni dei tuoi amici e colleghi. E non con quel
sogno, a tua misura, che Dio ha chiuso dentro di te.
Il mio, di parroco, è un osservatorio modesto, ma io ho
visto purtroppo qualche ragazzo andarsene e scomparire nel vuoto, perché la
corsa era impari, impari a pareggiare i sogni che altri avevano costruito su di
lui.
Impresa titanica, umanamente impossibile. Impossibile, o
quasi, vivere in una società che non accetta, non accoglie, non ama la tua
debolezza.
E allora, o fuggi, o metti la maschera, una maschera che
nasconde il volto, la debolezza del tuo volto.
Il luogo della paternità (e della maternità) è il luogo
del volto, dove si è amati così come si è e non come dovremmo essere.
E proprio perché tu mi ami così come sono, e non come
dovrei essere, proprio perché mi ami, con la mia debolezza, io posso dirmi,
così come sono a te.
Mentre l’idea di onnipotenza fa strage dentro di noi e
fuori di noi, il chinarsi umili sulle cose, risuscita la speranza.
Abbiamo costruito, forse senza avvedercene, modelli
prepotenti, spesso impraticabili, e li abbiamo caricati sulle spalle degli
altri, fino a far sentire fallito chiunque non resiste a portarli.
Così, i nostri modelli culturali, ecclesiali finiscono per
essere spietati, e ci fanno privi di paternità vera, spietati. Giudichiamo dall’alto.
Dall’alto di una verità gelida.
"Se vuoi correggere il tuo amico" – dice
un proverbio africano – "prima cammina sette giorni con le sue
scarpe".
E diceva don Primo Mazzolari:
Noi che sappiamo quanto peso può portare la soma di un
asino o la gettata di un ponte, sappiamo misurare quanto peso possono
portare le spalle di un uomo, di una donna?.
Dicevo: essere padri, diventare il Padre, significa la cura
del volto prima che la cura del programma.
Significa anche diventare uomini e donne del viaggio, più
che della casa.
Qualcuno potrebbe dire che il Padre della parabola è uno che
rimane nella casa, nella casa ad aspettare.
Ma, vedete, non ha rinchiuso il figlio nella casa. Anzi
qualcuno lo giudica troppo arrendevole con quel figlio che gli chiede di
dividere l’eredità.
È come se nel cuore si mettesse anche lui in viaggio con
quel figlio
E infatti le parabole di Luca – lo sapete – sono tre, tre
in risposta a quelli che mormoravano perché Gesù riceveva i peccatori e
mangiava con loro. Le parabole vanno tenute insieme, perché il messaggio sia
integro.
Ebbene, la prima parabola è quella del pastore delle cento
pecore che si mette alla ricerca della centesima perduta. Si mette in viaggio.
Ho letto, in un midrash della tradizione rabbinica, di
Mosè:
Fu col gregge che il Signore lo mise alla prova.
Osservano i nostri maestri: una volta, quando Mosè pascolava il gregge di
Ithro nel deserto, gli fuggì un capretto. Mosè gli corse dietro fino alla
fessura di una roccia; giunto là, il capretto si fermò davanti a una
cisterna per bere. Quando Mosè gli fu vicino, gli disse: "Ma io non
sapevo che tu corressi per la sete, sei dunque stanco?". E nel dire
così lo mise sulle spalle, e continuò a camminare. Allora il Santo,
benedetto Egli sia, gli disse: "Poiché tu hai compassione e sai
guidare il gregge degli uomini, sono certo che saprai guidare anche il
gregge del mio popolo, Israele" (Shem, R.2).
I figli sono sempre in viaggio, in viaggio verso un
"altrove".
Anche il Figlio di Dio, Gesù –lo ricordavo nella mia
parrocchia alla festa della Santa Famiglia di Nazaret– anche lui è in ricerca
di un "altrove". Ai genitori che lo cercano dice: "Non
sapevate che io devo essere – altrove – nelle cose del Padre
mio?"(Lc 2, 49).
E quei genitori, se pur a fatica, si mettono in viaggio
interiormente. Dico, se pur a fatica, perché è scritto: "Ma essi non
compresero le sue parole" (Lc 2, 50).
Qui, se non sbaglio, è allusa una condizione essenziale al
costituirsi di un buon rapporto tra genitori e figli, tra moglie e marito, tra
una generazione e l’altra: la condizione del viaggio, dell’andare insieme
"altrove".
Pensate quanti rapporti si rompono, perché uno dei due non
si muove, o perché né l’uno né l’altro si muovono.
Se noi vogliamo incontrarci – diceva Fulvio
Scaparro – dobbiamo fare un viaggio insieme. Per viaggio intendo dire
anche un viaggio di fantasia, un’esperienza in comune.
Certo abbiamo bisogno di guide. Ma, crescendo io ho
bisogno di qualcosa di più: non soltanto di una guida, ma anche di qualcuno
che non sappia tutto, che abbia delle esperienze con me.
Essere in viaggio significa anche custodire una paternità
che non sa tutto, che cerca di capire dove va l’altro.
"Dimmi dove vai…" – è scritto nel
Cantico – "perché io non sia come una vagabonda" (Ct. 1, 7)
Mettersi in viaggio a scoprire dove va un figlio, una moglie,
un amico, dove va con i suoi pensieri, con i suoi sogni.
E dunque creare le condizioni perché uno non debba mettersi
la maschera: ci parleremmo tra sconosciuti. Creare lo spazio della libertà.
Mi dà gioia sentire qualcuno che con stupore dice:
"Questo è un luogo dove uno può dire quello che pensa". Ma non
dovrebbe essere la regola questa, la regola e non l’eccezione? Non dovrebbero
essere tutte le famiglie, tutte le parrocchie luogo di libertà, luogo dove si
può condividere i pensieri del cuore?
Diventare il Padre significa anche dare tempo, più che dare
cose.
Forse per questo, o anche per questo, oggi ci si sente tanto
orfani. La sensazione non è più quella di essere ascoltati, interrogati nei
sogni, ma di essere invasi: ci rovesciano addosso una marea di parole. E poi lo
chiamano dialogo.
Non c’è tempo, capite.
Non c’è tempo di interrogare il cielo, né di interrogare
la terra. Né di interrogare la casa, né di interrogare i volti. Né di
interrogare i bambini, né di interrogare i vecchi.
Una società che sembra dire: non possiamo permetterci il
lusso di sprecare il tempo: interrogare non rende. Perdita di tempo, quando il
tempo è oro.
E i pensieri, le emozioni, le domande, quelle vere, rimangono
dentro.
Non abbiamo il tempo. Ma forse neanche la chiave per
disserrarle: la chiave è il silenzio, il rispetto, l’attesa paziente, l’umiltà,
la luce degli occhi.
Scrive una testimone non sospetta, Madre Teresa di Calcutta:
Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per
parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno, per essere ciò che
i nostri figli si aspettano da noi, ciò che un marito si aspetta dalla
propria moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni
con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di
gentilezza. La gente è affamata d’amore, poiché siamo tutti troppo
indaffarati.
Forse dovremmo ricordare il Padre che è nei cieli: "Non
affannatevi… Dio veste l’erba dei campi, Dio nutre gli uccelli dell’aria,
a maggior ragione voi".
Diventare padri, diventare il Padre significa educarci a un
amore incondizionato, l’amore incondizionato del Padre dei cieli.
Ti amo non per le tue prestazioni. Una verità questa, che
splende nella parabola, nel padre della parabola, quella verità che non aveva
capito, che scandalizzava il figlio maggiore, il figlio che sognava una
paternità misurata sulle prestazioni. E si scandalizza.
È uno scandalo questo padre che uccide il vitello grasso per
quel figlio perduto, senza prestazioni. E lui, il figlio delle prestazioni?
Nemmeno un capretto con cui far festa con gli amici!
Ma questa è la buona notizia. Che notizia è un padre che a
tanto dà tanto, che notizia buona è un Dio che, se vai via di casa, ti
fulmina?
Questo è lo scandalo del Vangelo. Gesù scandalizzava
perché mangiava con pubblicani e peccatori, si lasciava ungere dalla donna
peccatrice. Con pubblicani e peccatori, prima che si convertissero. Un banchetto
con i convertiti non avrebbe scandalizzato.
Diventare il Padre significa scandalizzare per questa stima,
che va all’altro prima di ogni conversione.
Perdonate l’accenno personale. Ricordo di avere scritto una
lettera aperta a una prostituta. Di averla pubblicata sul nostro foglio
parrocchiale. Finiva con un: "Con stima. Don Angelo". Ricordo la
reazione scandalizzata di una parrocchiana –comunione quotidiana–: "Ma
senta! Quella finale della lettera: con stima!". Mi chiedo: con quale Gesù
si fa la comunione? Con un Gesù che ci inventiamo noi o con quello dei Vangeli?
Vedete, i figli maggiori si scandalizzano.
C’è da imparare questa paternità gratuita.
Non so se la chiesa oggi scandalizza con lo scandalo buono,
lo scandalo di Gesù, o se scandalizza per la separatezza, per i requisiti, i
prerequisiti che richiede, per la non stima, per le "battaglie" che
hanno sempre come scopo un ritorno di immagine, d’interesse.
Qualcuno di voi avrà letto quel bellissimo libro "L’abbraccio
benedicente" di Henry Nouwen.
Henry Nouwen confessa:
Contro le mie migliori intenzioni, mi sorprendo sempre a
ingegnarmi per ottenere un qualche potere. Quando do un consiglio, voglio
sapere se viene seguito; quando do del denaro, voglio che venga usato a modo
mio; quando faccio del bene, voglio essere ricordato. E pazienza se non mi
è possibile ottenere una statua o anche una semplice targa alla memoria, ma
ciò che sempre mi assilla è di non venire dimenticato, di sopravvivere
comunque nei pensieri e nelle opere degli altri
Il padre del figlio prodigo non si preoccupa invece di
sé. La sua vita fatta di tante sofferenze lo ha svuotato di ogni desiderio
di dominio su cose ed eventi. L’unica sua preoccupazione sono i suoi figli
e su di essa riversare tutto il suo amore (Henry Nouwen, L’abbraccio
benedicente, Queriniana, pag. 189).
Fermo qui le mie riflessioni. Ognuno di voi ne avrà colto la
parzialità. Il desiderio è che il vostro contributo nel dibattito renda le mie
riflessioni meno parziali.

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