IL SILENZIO DEL PADRE


Gianni Colzani


La parola che viene dal silenzio
La dura parola che sale dal silenzio del male
Il Verbo si fa silenzio per accogliere la silenziosa parola del dolore
La com-passione di Dio, silenzioso vangelo di salvezza
Conclusione


Ammonendoci sui limiti dei nostri discorsi, Qoèlet 3,1.7 precisa che "per ogni cosa c’è il suo momento; (…) c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare". Il riconoscimento di questa doppia articolazione del linguaggio è un prezioso monito ed è, sicuramente, un passo avanti rispetto ad una logica ciarliera che ha invaso anche il linguaggio religioso. Il tempo del tacere è indispensabile al tempo del dire. Lo è, a maggior ragione, quando l’argomento del discorso è Dio, l’ineffabile, il mistero santo, come amava dire K. Rahner. Del resto, i mistici hanno spesso sottolineato la disperante inadeguatezza del linguaggio umano quando si tratta di parlare di Dio.
Questo è ancora più vero per i teologi. Tommaso1 , ad esempio, inquadrava ogni discorso su Dio entro questo criterio fondamentale:

de Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit

Di fronte al mistero, tuttavia, il teologo non può limitarsi a tacere: deve tentare di parlare, deve tentare ugualmente di articolare la viva coscienza dei limiti del suo linguaggio in un discorso, deve provare ad entrare nella nube che, sulla vetta del Sinai, segna il luogo della misteriosa presenza di Dio. Tacere e parlare sono due modi di lasciarsi interpellare dal Dio della Bibbia. Nessuno, quanto il teologo, ha coscienza del dramma di questo stare di fronte all’Ineffabile: è il suo pane amaro, è la sua lotta giornaliera; stando continuamente di fronte a Dio, il teologo impara che il silenzio appartiene alla parola e viceversa: un silenzio senza parola soffoca e opprime, una parola senza silenzio inaridisce come chiacchiera inutile. Come ben ci ricorda Gutiérrez2 ,

fare teologia senza la mediazione della mistica e della prassi, significherebbe essere al di fuori delle esigenze del Dio della Bibbia. Il mistero di Dio vive nella contemplazione e vive nella pratica del suo disegno sulla storia umana; soltanto in seconda istanza tale vita potrà animare un ragionamento appropriato, un linguaggio pertinente

Questa sera siamo qui per riflettere sul silenzio, sul silenzio di Dio e sul suo riflettersi sull’uomo. Nessuno, forse, l’ha compreso meglio di Giobbe che, secondo Gb 2,13, per sette giorni e sette notti tace circondato dai suoi amici, sgomenti per il suo dolore. Nessuno parla ma il silenzio rinchiude in sé tutti gli orrori, è come un dramma di cui nessuno osa pronunciare il nome. Ma ecco che, alla fine, "Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Giobbe prese a dire"3 . Ormai il silenzio è rotto e l’animo straziato di Giobbe erompe in altissime grida; in modo semplice ma drammatico dal punto di vista della fede, Kierkegaard commenterà brevemente: "io comprendo quelle grida, faccio mie le sue parole". Troppo spesso, quando oggi si parla del dolore, lo si fa sollecitando le corde della compassione e del coinvolgimento emotivo; non ci pare possibile osare di più. Per questo dobbiamo tornare a lasciare spazio a Giobbe ed al coraggio che egli ha di chiamare in causa Dio: "se non lui, chi dunque?"4 . Questo grido spazza via, come muri di carta, tutte le difese con cui la teodicea ha provato a giustificare l’agire di Dio e ci espone al grido di sofferenza che attraversa tutta la storia umana. Bisogna, con Giobbe, spingersi fino ai limiti della bestemmia, per lasciar davvero risuonare ciò che non sarà più possibile tacere.
Mai come oggi, è naturale invocare che Giobbe parli; abbiamo bisogno di qualcuno che osi contendere con Dio. Giobbe è la voce di chi è schiacciato, il grido di coloro che l’angoscia ha reso muti; non so se la mancanza di persone come lui sia, oggi, segno di maggior senso del timor di Dio o di maggiore indifferenza e di maggiore viltà. Dunque questo indimenticabile Giobbe parla per tutti noi e le sue parole sono pesanti come macigni.

Sappiate che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete. Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia5 .

Questa dura negazione della giustizia divina nega l’evidenza di un senso che avvolga la storia, così come il positivo avvolge dialetticamente il negativo; la storia si presenta a Giobbe come un drammatico ritorno al caos, a quella terra informe e vuota 6 in cui tutto si svolgeva come se Dio non fosse

Sono innocente? Non lo so neppur io, detesto la mia vita! Per questo dico: ‘È la stessa cosa’, egli fa perire l’innocente e il reo7 !

Tocchiamo qui un limite, quel limite che spinge Giobbe a dichiarare che i suoi amici – e, con loro, la teologia tradizionale – non sanno parlare adeguatamente di Dio:

tacete, state lontano da me: parlerò io, mi capiti quel che capiti. Voglio afferrare la mia carne con i denti e mettere sulle mie mani la mia vita. Mi uccida pure, non me ne dolgo; voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta8 .

Si tratta di una esperienza-limite che S. Kierkegaard descrive come "prova", come esperienza di un contrasto con Dio che non permette più di accontentarsi di spiegazioni di comodo e che, per questo, è attesa e inizio della vera fede; al contrario E. Bloch la leggerà come la fine della pazienza, come l’esodo da ogni rappresentazione religiosa di Dio, fino a lasciar comparire sullo sfondo l’immagine di un Prometeo ebraico.
Sarà sempre Kierkegaard, più tardi, ad indicare una possibile soluzione a questo dramma parlando di una donna – Maria – che raccoglierà il suo silenzio e la sua vita non tanto attorno allo stupore ed al dolore umano quanto attorno alla stessa Parola di Dio9 . La vergine serba il ricordo degli eventi e li medita nel proprio cuore; per questo è espressione di quella fede che, prima del capire, ricerca il proprio posto nell’abbandonarsi fiduciosa nelle mani di Dio. Questa fede, anche quando come in Lc 1,38 si riveste di parole10 , non va in realtà oltre un silenzio amoroso. Questa fede nuda, mentre confessa che Dio è di un altro ordine rispetto agli accadimenti, in qualche modo lo intuisce e vi si affida. Per questo mi pare che, nell’affrontare i drammi di questo nostro mondo, la cosa più importante non sia gridarli, urlarli, ma raccoglierci attorno ad essi in silenzio.

La parola che viene dal silenzio

In una società come la nostra, che esalta il dire e il dirsi, il silenzio non è ovvio. È una realtà complessa; vi è un silenzio innocente ed un silenzio scaltro, un silenzio che penetra la verità ed un silenzio che nasconde la menzogna. Questi diversi significati collocano il silenzio nell’ambito della comunicazione, come una sua possibilità particolarmente alta e densa. Vi sono parole e vi sono silenzi che parlano, vi sono voci che vengono dal silenzio; anzi si dovrebbe dire che le parole non sono che maldestri tentativi di plasmare il silenzio. Se però andiamo oltre questo primato della interiorità e questa debolezza della Parola, dobbiamo osservare che il silenzio ha bisogno della parola: senza parola il silenzio naufraga nella ambiguità; per questo il mio compito è stasera straordinario, è proporre il silenzio con le parole.
Mi viene in mente, al riguardo, lo pseudonimo con cui Kierkegaard firma la sua opera Timore e tremore: la firma come Johannes de Silentio. È lo pseudonimo di cui si serve per investigare la coscienza di un Abramo, pronto a sacrificare a Dio il figlio. In questo dramma, Abramo è al di là di regole etiche generali e sta come Singolo, come libertà individua di fronte a Dio; di questo dramma porterà per sempre il segno drammatico:

da quel giorno Abramo divenne vecchio, non poté dimenticare quel che Dio gli aveva richiesto. Isacco continuava a crescere come prima: ma l’occhio di Abramo si era appannato, egli non riuscì ad avere più la gioia11 .

Questo dramma dove l’amore per il figlio, e cioè il contenuto elementare dell’etica, è tentazione per la fede, è cioè per la dedizione assoluta a Dio, non può essere affrontato che nel silenzio; se non altro perché la fiducia in Dio, quale risolutore della prova etica, non sa e non conosce la via che Dio percorrerà. È il silenzio di una fede nuda e lacerata; sostenuto dalla fede, il vissuto si impoverirebbe non appena si consegnasse alle parole. Si può però dire che abbiamo qui una prima indicazione: è il vissuto a legittimare la Parola che viene dal silenzio ed è un vissuto nel quale l’uomo si erge, muto e solo, di fronte a Dio.

La dura parola che sale dal silenzio del male

Mi pare di poter introdurre questo tema con le drammatiche parole del capolavoro di Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, un libretto che ipotizza una lettera/testamento di un difensore del ghetto di Varsavia. Dall’inferno della shoah, quasi un novello Giobbe, egli alza la sua voce perché giunga ben chiara a Dio:

ti voglio dire in modo chiaro e aperto che ora più che in qualsiasi tratto precedente del nostro infinito cammino di tormenti, noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo il diritto di sapere: dove si trovano i confini della Tua pazienza? E qualcosa ancora Ti voglio dire: non tendere troppo la corda, perché, non sia mai, potrebbe spezzarsi. La prova cui ci hai sottoposti è così ardua che Tu devi, Tu hai l’obbligo di perdonare quanti nel Tuo popolo si sono allontanati da Te nella loro disgrazia e nella loro indignazione12 .

In modo simile Ph. Nemo13 parlerà di eccesso, di ek-cessus del male per indicarlo come quella situazione esistenziale in cui viene meno ogni norma ed ogni legge: il senso non può che essere altrove, non può in alcun modo far corpo con la situazione che si vive. Ora, se Dio è altrove rispetto alla situazione di morte che l’uomo vive, allora Dio è l’assente, Dio è il silenzio. Il male diventa così l’interrogativo radicale e ultimo sul senso; rimanda, oltre se stesso, alla agognata solidità della fede. In realtà si ha qui come uno sdoppiamento di Dio: non si giunge al Dio misericordioso che attraverso la dinamica del Dio/Satana, il Dio che mette alla prova. In qualche modo, sembra di dover concludere che il male, nella sua ragione ultima, appartiene a Dio; la concezione del male come prova appare una diga fragile che, in qualsiasi momento, rischia di crollare sotto la dura contestazione della ragione.
Riprendendo questi temi, H. Jonas si domanderà quale Dio abbia permesso che questo accadesse e riterrà di dover abbandonare la tradizionale visione di un Dio, signore della storia: "concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza"14 .
Interrogandosi sulla possibilità della coesistenza della onnipotenza divina con la sua conoscibilità e la sua bontà, Jonas concluderà che

la onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non-comprensibilità di Dio, cioè della accezione di Dio come mistero assoluto15 .

D’altra parte chi, a partire dal silenzio o dalla assenza di Dio, si è spinto a trasferire il peso del male e della sua giustificazione dalle spalle di Dio a quelle dell’uomo si è trovato di fronte a problemi ancora peggiori: i limiti dell’uomo e le radici della violenza, come ci ha insegnato la psicanalisi, stanno nell’uomo e gli sono propri.
Ecco allora J. Nabert presentare il male come ingiustificabile, che è cosa ben diversa dal dichiararlo assurdo o misterioso16 .
Ingiustificabile è la categoria che lo pone al di là degli sforzi della ragione speculativa e del dover-essere della morale, al di là delle mediazioni che lo collocano nella evoluzione progressiva della storia fino a considerarlo materiale per l’intelligenza e la progettualità umana. Questa categoria proclama un contrasto radicale tra la domanda spirituale che sale dall’uomo e la struttura reale del mondo in cui vive; testimonia

une opposition invincible entre un monde qui répondrait à l’absolu spirituel et le monde où les hommes plient diversement sous le malheur17 .

Espressione di una inadeguatezza della coscienza umana rispetto a questo mondo, il male è domanda, insoddisfazione, inquietudine, quell’inquietudine che solo la religione può tranquillizzare. Se mai l’ingiustificabile contiene la radice di un suo oltrepassamento, non dovrebbe portare che alla nostalgia del Totalmente Altro18 .
Difficilmente, però, questa strada approderà a qualcosa di positivo. Se la teodicea ha fermato i suoi ragionamenti attorno alla oscurità del disegno divino ed al nascondimento attuale della salvezza, la nostalgia di un Dio Tutt’Altro sembra concludere a un Dio trascendente e glorioso che regna nonostante i drammi della storia umana. Ciò di cui oggi sentiamo il bisogno è di un Dio non dimentico del crocifisso; nel crocifisso cogliamo l’unità che la libertà divina ha posto tra l’amore e il male, nel crocifisso siamo posti di fronte a quel Dio che, non volendo essere senza l’uomo, non può fare a meno di confrontarsi con il male. Nel crocifisso la scissione tra Assoluto e storia sono sviluppati in modo da lasciar intuire una conciliazione tra Infinito e finito; nel crocifisso le ferite della storia non sono curate con brandelli di ottimismo raccolti qua o là o illuse con un rimando al senso o alla totalità come baluardi insuperabili ma rimangono aperte e sanguinanti come le ferite del Figlio. Il grido di Gesù: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"19 raccoglie il dolore dell’umanità e proclama una fame di giustizia che non ha l’uguale nella pur millenaria storia dell’umanità.
Auschwitz e Hiroshima, Cernobyl e Sarajevo ci presentano una storia che è più in sintonia con la croce che non con le promesse di un progresso luminoso e felice. Questo grido attende una risposta.

Il Verbo si fa silenzio per accogliere la silenziosa parola del dolore

Questa risposta comincia con Gesù; se la tradizione evangelica e teologica ama presentarlo come la Parola, il Verbo di Dio, Ignazio di Antiochia parla di lui come "del Verbo uscito dal silenzio"20 .
Secondo questo autore, inoltre, le grandi opere di Dio sono compiute nel silenzio. Dopo aver citato espressamente il concepimento verginale, la nascita e la morte di Gesù, osserva: "sono questi i tre misteri strepitosi, che si compirono nel silenzio di Dio"21 .
Il silenzio è qui un artifizio retorico per indicare la trascendenza dell’agire di Dio ma è anche in qualche modo proprio di indicare Dio; già le scritture ne avevano fatto uso.
Vale la pena di ricordare al riguardo due testi. Il primo è il grande testo di 1Re 19,11-12 che, parlando della rivelazione di Dio ad Elia, paragona Dio non al vento impetuoso o al terremoto ma ad un "silenzio sottile" e il secondo è il brano di Sap 18,14 che, descrivendo la notte della strage dei primogeniti, notte di tragedia per gli egiziani e di liberazione per gli ebrei, scrive:

mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra.

Se poi raccogliamo l’agire di Dio attorno al vangelo e questo attorno alla croce, possiamo rimanere sconcertati: Gesù è una Parola silenziosa. Più volte i sinottici ricordano che Gesù taceva; tace di fronte al sommo sacerdote Caifa22 , tace di fronte ad Erode23 e tace di fronte a Pilato24 . La cosa non può mancare di colpire; i silenzi di Gesù sembrano evocare il testo di Is 53,7:

maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca.

Possiamo pensare che Gesù, tacendo, lo faccia perché ormai non vi è più nulla che vada lasciato alla parola; lungo tutta la sua Via crucis, assistiamo a gesti simbolici che terminano nel grande grido di Mc 15,34 quando Gesù consegna la sua vita nelle mani mute del Padre.
Il valore simbolico del silenzio non è sconosciuto alle scritture. Ez 3,26 parla del profeta ammutolito da Dio perché il popolo riconosca poi, quando parlerà, che la parola di Dio è veritiera;

in quel giorno la tua bocca si aprirà per parlare con il profugo, parlerai e non sarai più muto e sarai per loro un segno: essi sapranno che io sono il Signore25 .

Probabilmente il silenzio di Gesù lungo tutta la sua passione va interpretato alla stessa maniera. Gesù diventa solidale con quel silenzio di morte che avvolge l’umanità; con il suo grande grido scende in quell’abisso in cui non si loda Dio. Questa morte silenziosa è il vertice di quella kénosis in cui il Verbo dispiega la sua opera di salvezza.

Sorgono le ombre a darti lode? Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà negli inferi?26 .

La Parola divina chiude perciò il suo ministero nel silenzio: Dio ci raggiunge proprio nel nostro essere perduti. Sempre Ignazio di Antiochia commenta così questo fatto:

uno solo è il maestro; egli disse e tutto fu fatto. Ma anche ciò che egli compì nel silenzio è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può capire anche il suo silenzio e giungere così alla perfezione27 .

In altre parole il silenzio non è limitazione della Parola di Gesù: ne è, anzi, la sua pienezza.
Gesù. quindi è il Verbo fatto silenzio, è la Parola che tace. Letto sullo sfondo del silenzio umano, sintesi di ogni dramma e di ogni dolore, il silenzio di Gesù è un silenzio di solidarietà: Gesù cioè si immerge in quel silenzio di morte che è lontananza, assenza di Dio. Inteso come solidarietà, il silenzio di Gesù non è mutismo ma ampliamento e rinforzo del vangelo: per esso Dio si lega a chi soffre, svelando così il suo amore. In questa Parola che tace, la kénosis raggiunge il suo punto più alto: scende nell’abisso della morte; il suo dimorare tra noi come uno di noi arriva dove mai avremmo pensato potesse arrivare. Questo silenzio è il momento più alto dell’amore: "avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine"28 . Il testo greco dice eis télos, fino alla pienezza, fino al compimento, fino al vertice. Il vertice dell’amore è questo silenzio di Gesù, un silenzio partecipe delle abiezioni peggiori della storia umana. Anche senza condividere la tesi di Balthasar sul sabato santo, sul farsi peccato per amore, per rompere cioè la solitudine eretta dal peccato attorno ai peccatori, questa tesi di una radicale solidarietà di Cristo fa molto pensare. Nella apparente debolezza di questo silenzio d’amore palpita, infatti, la forza dell’amore del Padre. Questo silenzio è l’impegno delle persone divine al fianco dei drammi umani.
L’abbandonato da Dio è l’icona del drammatico confronto tra l’amore divino e la volontà umana di male. Qui abbiamo qualcosa di unico: il segno della nostra miseria è l’altra faccia dell’amore divino. Raissa Maritain, rifacendosi ai colloqui del marito con L. Bloy, giungerà a scrivere che questo dolore è "l’ausiliario della creazione"29 , è cioè ciò che fa giungere la creazione alla sua pienezza. Inteso così, il silenzio di dolore di Cristo è liberato da un indissolubile legame con il male e va connesso, più correttamente, alla donazione di sé e all’amore. Identico al doloroso silenzio umano, quello di Cristo è espressione di una ferita d’amore che l’ha reso salvifico. È il mistero del Dio con noi, il mistero della com-passione di Dio.

La com-passione di Dio, silenzioso vangelo di salvezza

Il mistero della com-passione di Dio sta nel fatto che ciò che in noi è dramma corrisponde a ciò che in Dio è perfezione di amore e sorgente di beatitudine; in termini cristologici si dovrà dire che "il vertice del suo amore è il culmine del suo dolore. In Gesù abbandonato è rivelato infatti tutto l’amore di Dio"30 . Questo mistero ha attirato l’attenzione della teologia contemporanea che ne ha fatto il centro della sua visione. Al centro viene quel Gesù abbandonato da Dio il cui dolore raccoglie tutto il dolore umano per interpretarlo al suo livello più alto, l’essere abbandonati dal Padre. Questo dolore dell’Uomo-Dio, il più grande che cielo e terra possano contenere, non ha più in lui solo un valore ascetico ma, ormai, anche messianico.
Non si tratta più solo di riconoscere l’altezza incommensurabile di Dio e di piegarsi adoranti di fronte al mistero del suo agire; questo è vero ma non è sufficiente. È vero che, di fronte al male, la ragione non può che tacere;

dirà forse la creta al vasaio: Che fai? oppure: La tua opera non ha manichi?. Chi oserà dire a un padre: Che cosa generi? o a una donna: Che cosa partorisci?. Dice il Signore, il Santo di Israele, che lo ha plasmato: Volete interrogarmi sul futuro dei miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani?31

Queste parole del Deutero-Isaia chiariscono l’impossibile impresa di una discussione con quel vasaio che ha tutto ciò che ha fatto e ha decretato che é buono, molto buono32 . Alla ragione non resta, come Giobbe33 , che mettersi la mano sulla bocca: ogni parola rischia di oscurare il consiglio divino e di essere esposta senza discernimento. Il cammino della fede, però, è diverso; non si accontenta di tacere adorando ma osa parlare di un radicale coinvolgimento di Dio nel mistero del dolore e della morte.
A guidarci, in questo, sarà soprattutto Moltmann34 .Questi, partendo dalla sua visione luterana sensibile ad una theologia crucis35 , non insisterà tanto sulla incarnazione, vista come incontro e identità di Dio e dell’uomo36 , quanto sulla passione e morte di croce. In essa la negatività di un silenzio tenebroso non è risolta da una critica all soggettività e da una generica valorizzazione della alterità, alla maniera di Lévinas, ma da un appello a quell’Altro la cui esistenza coincide con una positività infinita. Si tratta, però, di un Dio che deve potersi immergere nel dolore e nella disperazione umana. Con ragione Camus, nel suo L’uomo in rivolta, ricorda che questa condivisione della sofferenza non può essere alleviata dalla speranza di una vita eterna; prendere sul serio il grido di Cristo significa ricordare che "perché Dio sia uomo, deve disperare"37 . Si abbandona così l’ottimismo teistico e ci si addentra così nei grandi misteri del dolore e della morte. Basta dire che il "divino paziente" li ha condivisi con noi per dire che li ha risolti? Riflettendo sul fatto che ha mutato di destino di dover morire nella sorprendente libertà di donare la sua vita38 , Moltmann scriverà che il crocifisso

apre agli uomini una via che passa attraverso il giudizio e l’abbandono di Dio, e che diventa all’uomo accessibile soltanto in comunione con lui. Questo non significa che, a motivo della rappresentanza di Cristo, si attenuino anche i travagli in cui l’uomo si trova immerso, ma é certo che Cristo sulla croce sperimenta un inferno di reiezione e di isolamento che in questa natura non dovrà più essere patito dai credenti. Da precursore egli apre la strada; coloro che lo seguono camminano su un sentiero già tracciato. Cristo sperimenta la morte e l’inferno nell’isolamento; il suo seguace lo sperimenta nella comunione con lui. Non si tratta di una sostituzione, ma di una liberazione39 .

Questo Dio capace di sofferenza è l’unica vera risposta alla protesta di Giobbe; mentre annulla la protesta del credente che vede nella sofferenza solo il dramma della lontananza di Dio, apre alla fede un nuovo sorprendente cammino. Dio non entra in dialogo con l’uomo solo attraverso l’inquietudine e l’insoddisfazione ma anche attraverso il dolore e la morte; rompe così quella amara solitudine che portava Camus a proclamare che

la vita, il destino sono una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini40 .

Il senso positivo di questa protesta è indicato da D. Sölle, là dove essa ricorda che lo scopo di ogni rappresentanza "è l’autosuperamento della rappresentanza"41 . Il rapporto tra Cristo e i suoi discepoli non può essere quello della sostituzione, dove cioè Cristo faccia tutto al nostro posto, ma quello della solidarietà, dove perciò rimane uno spazio alla libertà dell’uomo.

Ne consegue che il Crocifisso non scompare a compimento avvenuto; anzi proprio qui diventa il fondamento dell’esistenza redenta in Dio e dell’abitazione di Dio in tutte le cose42 .

L’impegno umano diventa allora quello di vivere la propria libertà, la propria progettazione della vita all’interno del "pathos" divino. È stato Heschel a chiamare così la profonda partecipazione di Dio alla vita e ai drammi della storia umana43 . Per lui il pathos, l’amore partecipe di Dio, non ha nulla di quella tempesta emotiva che pone una persona in balia di sentimenti che non riesce a dominare ma è l’atteggiamento impegnativo con cui Dio vuole, in modo partecipe, quello che vuole. Liberato dall’irrazionale, questo "pathos" è applicabile a Dio; nella sua assolutezza e nella sua libertà Dio non è l’impassibile ma il sofferente, il crocifisso che condivide la sofferenza umana. Questo Dio è il Dio presente in tutte le cose: regge la nostra vita e la guida sulle strade dell’amore. Non insiste sul mantenimento della bontà iniziale del mondo ma, piuttosto, sul suo radicale rinnovamento;

io creo nuovi cieli e nuova terra: non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare44 .

Il crocifisso diventa così il fondamento di un impegno per il futuro nel quale vi è posto per la nostra libertà e nel quale la fede prende la forma della speranza. Si tratta di condividere il grido di dolore dell’uomo ma, al tempo stesso, di ricondurlo alla pienezza delle dimensioni della croce. Poiché nella croce l’amore di Dio comprende la fedeltà e la misericordia verso l’umanità, non sarà più possibile parlare di Dio in modo tale da lasciare che il dolore del mondo vada per la sua strada. Nella unità crocifissa del riconciliatore e del riconciliato, Dio sconfigge quel male che allontana l’uomo da lui e fonda la libertà di una persona partecipe della sua vita. In questo modo Dio rende ragione alla creazione non nella forma gloriosa del compimento ma nella forma sofferta e impegnata della condivisione che, da dentro, apre la strada alla liberazione.

Conclusione

Abbiamo qui qualcosa di decisivo su cui riflettere. La croce si lascia alle spalle tanto la nostalgia delle origini quanto una concezione metafisica di Dio; la croce è l’apparire della storia divina, è l’apparire di un amore che è tanto grande da rendere ragione anche al suo contrario, anche al peccato ed ai suoi drammi. Di questa storia noi viviamo.
Il crocifisso, infatti, ci lascia lo Spirito45 , quello Spirito vivificante che si sofferma in noi come donatore della vita. Questo Spirito, posto in noi come vinculum amoris, mostra la sua vitalità quando è accolto e corrisposto. Quel crocifisso, dalla cui pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia46 , diventa così il principio della pienezza della nostra vita.
Si tratta, però, di una vita radicalmente aperta a Dio e definitivamente segnata dal rapporto con Lui. Vi è qui la fine di un soggetto egocentrico, di un uomo incurvatus in se; viene a galla una dimensione di ascolto e di fede in grado di dare alla nostra vita un senso nuovo e più vero.

Se fossimo artigiani dell’ascolto anziché maestri dl dire, potremmo forse promuovere una diversa convivenza degli umani47 .

Questo avverrebbe, però, soprattutto se avessimo fede, quella fede che traspariva da una scritta trovata su un muro di una cantina di Colonia, dove alcuni ebrei rimasero nascosti per molto tempo, e che mi pare la sintesi di quanto ci siamo detti stasera:

Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell’amore anche quando non lo sento, credo in Dio anche quando tace.


NOTE:

1 Tommaso, Summa Theologica I,q.3, prologo
2 G. Gutiérrez, Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell'innocente. Una riflessione sul libro di Giobbe. Queriniana, Brescia 1987, 17.
3 Gb 3,1.
4 Gb 9,24.
5 Gb 19,6-7.
6 Gen 1,2.
7 Gb 9,21-22.
8 GB 13,.13-15.
9 Lc 2,19-51.
10 "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Luca 1,38.
11 S. Kierkegaard, Opere, a cura di C.Fabro,Sansoni, Firenze, 1972,44.
12 Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1977,24-25.
13 Ph. Nemo, Giobbe e l'eccesso del male, Città Nuova, Roma 1981.
14 H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1990,36.
15 Ivi, 33.
16 J.Nabert,Essai sur le mal, Aubier-Montaigne, Paris 1970.
17 Ivi, 53.
18 M. Horkheimer, La nostalgia del Totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1972.
19 Mc, 15,34.
20 Ignazio, Ai Magnesii, 8,2.
21 Ignazio, Agli Efesini, 19,1
22 MT 26,63.
23 Lc 23,9.
24 Mt 27,12.14; Gv 19,9.
25 Ez 27.27
26 Sal 88.11-12.
27 Ignazio, Agli Efesini, 15,1-2
28 Gv13,1.
29 R.Maritain, I grandi amici, Milano 1975,164.
30 C.Lubich, L'unità e Gesù abbandonato, Città Nuova, Roma 1984,59.
31 Is 45, 9-11.
32 Gen 1,31.
33 Gb 40,4.
34 J.Moltmann, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 1973.
35 Mi riferisco alle tesi 19,20 della disputa di Heidelberg (26.4.1518)in cui Lutero pone le basi della sua gnoseologia teologica. Tesi 19:"Non merita il nome di teologo colui che percepisce e comprende la natura invisibile di Dio per mezzo delle opere da Lui compiute". Tesi 20: "Merita invece il nome di teologo colui che comprende ciò che della natura di Dio si rende visibile e si rivolge all'uomo come esso si trova esposto nella passione e nella croce".
36 1Gv 3,2.
37 A. Camus, L'uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1972,38.
38 Gv 10, 17-18 "Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie ma la offro da me stesso, perché ho il potere di offrirla e di riprenderla di nuovo".
39 J. Mohlmann, Il Dio crocifisso...,, cit.,309.
40 A. Camus,Il mito di Sisifo, Milano Bompiani 1947,148.
41 D. Solle Rappresentanza.Un capitolo di teologia dopo la "morte di Dio". Queriniana, brescia 1970.
42 J. Mohlmann, Il Dio crocifisso...,, cit.,312-313.
43 A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981.
44 Is 65, 17-18.
45 Gv 19,30. Secondo un'opinione non astrusa, questo versetto potrebbe esser reso così: "E, chinato il capo, donò lo Spirito".
46 Gv 1,16.
47 G. Corradi Fiumara, Filosofia dell'ascolto, Jaca Book, Milano 1985,84.
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