PADRE NOSTRO
CHE SEI NEI CIELI: RESTACI


Luigi Pozzoli


Perdita e ricerca del Padre nella letteratura del '900
Un Padre impassibile
Un Padre temibile
Un Padre inesistente
Un'assenza inquietante
La ricerca del Padre nella letteratura del '900
La paternità di Dio nel cuore della coscienza
Un Padre come immagine di saldezza
Un Padre come immagine di perdono
Un Padre come immagine di compassione
Il Padre, immagine di un mistero ineusaribile


Perdita e ricerca del Padre nella letteratura del '900

L’immagine di Dio preferita dal Nuovo Testamento è senza dubbio quella del Padre.
È l’immagine che nel mondo cristiano risulta ora la più famigliare perché si pensa che offra di Dio un’evocazione la quale, pur nella sua inadeguatezza (Dio è sempre al di là di ogni possibile misura espressiva), sembra se non altro allontanare altre immagini che si prestano a interpretazioni false e pericolose.
Ma anche la figura del padre è sempre da riscoprire e da purificare perché, dal punto di vista semantico, è soggetta a tutte quelle variazioni che sono connesse con i mutamenti culturali sempre operanti all’interno della società.
Basti osservare che la parola padre non ha ora le stesse possibilità evocative e rappresentative che aveva al tempo di Gesù quando il ruolo del padre era molto più esteso che non quello attuale.
E non si deve neppure dimenticare che la psicanalisi si è incaricata di esplorare e di segnalare come, dietro questa parola abitualmente associata ad un naturale sentimento di dedizione e di protezione, si nasconda spesso una pericolosa volontà di potenza.
Viviamo in tempi in cui l’immagine del padre, dopo essere stata sottoposta ad un severo vaglio critico, si è rivelata sempre più problematica ed esposta a insofferenze a volte particolarmente tenaci e radicali.
Nella letteratura del '900 sono tante le testimonianze che potrebbero essere invocate a convalidare questo discorso già accertato attraverso gli strumenti delle scienze umane.
Due esempi sono particolarmente significativi.
 
Il primo è offerto dalla famosa Lettera al padre di Franz Kafka.
A trentasei anni, in quarantacinque fogli dattiloscritti che il padre non ebbe mai tra le mani, Kafka fa una lunga confessione per spiegare le ragioni di quel profondo disagio che l’accompagna dagli anni lontani dell’infanzia.
Perché di fronte al padre prova un senso di grande inferiorità e di colpevolezza che lo rende estremamente fragile e insicuro?
La ragione dovrebbe risultare dal ritratto del padre che nella Lettera viene tratteggiato in tutta la sua esuberante vitalità: è quello di un uomo che si impone per "forza, salute, appetito, potenza della voce, eloquenza, soddisfazione di sé, senso di superiorità".
Questa presenza incombente rappresentava agli occhi di Kafka la legge che non poteva in alcun modo essere contestata:

Grazie alla tua energia, eri arrivato da solo ad una posizione così elevata che avevi una fiducia illimitata nella tua opinione. Dalla poltrona governavi il mondo. La tua opinione era giusta; qualunque altra opinione era pazza, stravagante, anormale. E con ciò la tua fiducia in te stesso era talmente grande che non avevi bisogno di essere coerente per avere ragione. (…) Ai miei occhi assumesti l’aspetto enigmatico che hanno i tiranni, il cui diritto non si fonda sulla riflessione, ma sulla loro propria persona.

A partire da quest’esperienza, che idea Kafka avrebbe potuto formarsi della paternità di Dio?
 
L’altra testimonianza è quella che ci ha lasciato Sartre nel racconto autobiografico intitolato Le parole, là dove, accennando alla morte prematura del padre, parla della paternità come di una necessità esclusivamente biologica, una sorta di accidentalità destinata ad esaurirsi nel semplice fatto procreativo.
Le sue annotazioni al riguardo sono di una lucidità così spietata da toccare le corde sgradevoli del cinismo:

Un buon padre non esiste, è la norma; non si accusino gli uomini bensì il legame di paternità che è marcio.
Fare figli, non c’è cosa migliore; averne, che cosa iniqua!
Se fosse vissuto, mio padre si sarebbe steso sopra di me e m’avrebbe schiacciato. Per fortuna è morto prematuramente.(…)
La mia fortuna fu di appartenere a un morto: un morto aveva versato le poche gocce di sperma che costituiscono il prezzo occorrente di un bambino.

Nella crudezza di queste parole il legame padre-figlio viene rimosso e cancellato.
Non c’è traccia di conflitti o di complessi edipici, ma la semplice constatazione di un rapporto mancato e per nulla rimpianto.

La crescita dei figli è la morte dei padri" aveva detto Hegel.

Sartre si ritiene fortunato perché questo è avvenuto nella sua vita in modo non traumatico, quasi che a lui sia stato concesso di vivere una situazione privilegiata e ottimale.
 
Quali riflessi avrebbe potuto avere questa perdita del padre sull’immagine di Dio che la tradizione cristiana ha custodito nei secoli come l’icona più pura di Colui che si è soliti chiamare Dio?
Se Dio in qualche modo si delega in ogni paternità, non corre il rischio di vedere la sua immagine compromessa e sminuita dai limiti umani?
Come già nella figura del padre, si procede ad una sistematica demolizione della paternità divina. È quello che è avvenuto nella cultura del ‘900 e che la letteratura, sempre attenta ai grandi fremiti che attraversano la coscienza del proprio tempo, non ha mancato di registrare e di interpretare.
 

Un Padre impassibile

Le prime perplessità incominciano a nascere quando si prende in esame il rapporto che dovrebbe esistere tra paternità divina e condizione umana.
Il Padre evoca creatività, tenerezza, amicizia, benevolenza e protezione.
È vero che non esiste parola capace di esprimere quel Dio che per l’uomo resterà sempre l’inenarrabile, ma una volta che si sceglie di parlare di Dio chiamandolo Padre vuol dire che gli si riconoscono come essenziali tutte quelle qualità che sono compendiate dalla parola bontà.
Può succedere però che questa immagine sia disattesa e contraddetta da tutto ciò che nel segno della desolazione entra nella nostra esperienza quotidiana come verità inconfutabile.
Già in tempi lontanissimi Giobbe si domandava che senso avesse il nascere se poi si deve soffrire e morire.
Se tra il nascere e il morire nella sofferenza c’è di mezzo la presenza di un Dio che dovrebbe essere l’immagine della pura bontà, è possibile non patire uno scandalo e non essere tentati dal dubbio e dal rifiuto?
L’orrore purtroppo è una componente strutturale del mondo e della storia.
L’orrore è dentro le leggi della vita, la lotta per la sopravvivenza, i rapporti tra le razze e le culture, le tensioni sociali.
In Ricerca perdizione Singer ha scritto:

Personalmente, ero del tutto pronto a incoronarlo con tutti gli attributi possibili, ad eccezione della benevolenza e della compassione.
Riconoscere la misericordia in un Dio che da milioni di anni assisteva a massacri e torture, e che aveva alla lettera edificato tutto un mondo sul principio della violenza e dell’assassinio, era una cosa che il mio senso della giustizia mi vietava.

L’orrore che Singer vedeva come una legge a dimensione cosmica ha trovato nel nostro tempo una sorta di condensazione e di focalizzazione attraverso la tragedia che si è consumata nei lager nazisti e staliniani.
Auschwitz è diventata la cifra di questo orrore.
Altri, molti, hanno pensato che dopo Auschwitz non sarebbe stato più possibile credere in Dio.

Dio e Auschwitz non vanno insieme ha detto Elie Wiesel in un’intervista.

È un fatto che tragedie di queste dimensioni sottopongono la fede a una vera agonia perché essa si trova a comporre ciò che sembra incompatibile.
È possibile continuare a credere nella bontà di colui che rimane muto e indifferente davanti alle sventure degli uomini?
Questo interrogativo è al centro di opere fondamentali del '900 i cui autori (si pensi in particolare a Elie Wiesel) hanno rivissuto la stessa esperienza di Giobbe.
Tutti gli argomenti della teodicea in difesa di Dio, tutte le sottigliezze della teologia sono come spazzate via perché a imporsi su ogni altra cosa è soltanto un lamento, forte come un grido lacerante, irriducibile come la disperazione.
Nello stesso anno del dramma di Borchert, Camus pubblicava La peste (1947), un romanzo in cui il flagello della peste adombra, oltre alla condizione umana di sempre, anche la spaventosa tragedia rappresentata dalla barbarie nazista.
I duecentomila abitanti di Orano prigionieri nella loro città richiamano sul piano allegorico i duecento milioni di europei prigionieri della potenza nazista e, in modo più generale, l’umanità intera alle prese con il male.
Che cosa ha fatto Dio per salvare i bambini innocenti?
Camus è ossessionato dal silenzio di Dio soprattutto in relazione al dolore innocente.
Si racconta che un giorno (era il 1932) ad Algeri fu testimone di un incidente in cui un bambino musulmano, urtato da un autobus, sembrava precipitato in un coma profondo.
Puntando il dito verso il cielo, Camus disse all’amico che l’accompagnava:

Come vedi, egli tace

Se Dio non risponde, l’uomo che cosa può fare?
O si arriva a negare addirittura l’esistenza di Dio come se si trattasse di un’illusione o di un mito che non può coesistere con l’evidenza del male, oppure, per salvare almeno un’apparenza di logicità, bisogna togliere a Dio l’appellativo di Padre.
Rimane come estrema via d’uscita, di fronte a questo tormento metafisico, quella di protestare la propria indignazione rivendicando il diritto, in un eventuale faccia a faccia, di chiedere e di avere spiegazioni.
Nel romanzo Un altro mondo di James Baldwin il giovane negro Rufus si getta da un ponte vicino a New York, dopo una vita dissipata nella quale Dio per lui si è dissolto nella più totale insignificanza.
Ma prima di suicidarsi, un pensiero gli attraversa la mente.

"Tu briccone", dice rivolgendosi al Dio perduto, "tu sporco briccone onnipotente, non sono anch’io figlio tuo? Ora vengo a te!".

E così dicendo si getta dall’alto.
Come interpretare queste parole?
Sono parole di bestemmia o parole di invocazione disperata?
Può essere considerato come ateo chi è ancora capace di rivolgersi a Dio con il "tu" del confronto e della protesta?
Contestatore e ribelle nei confronti di Dio è anche il protagonista del romanzo La ribellione di Joseph Roth, il quale, per tutte le ingiustizie subite, affronta Dio con queste parole:

Dovrò far peggio che rinnegarti: dovrò ingiuriarti! Milioni di esseri come me metti al mondo, Dio, nella tua fecondissima insensatezza, ed essi crescono creduli e codardi, destinati a essere schiacciati e a morire. (…)
La tua grazia non la voglio! Mandami all’inferno!.

Quando c’è di mezzo lo scandalo della sofferenza, è sottilissimo il discrimine che passa tra bestemmia e implorazione, tanto che Cioran diceva che certe bestemmie sono come delle preghiere negative e certe ingiurie sono più vicine a Dio della teologia.
Da questo punto di vista rimane esemplare nella Bibbia la grande figura di Giobbe.
Proprio richiamando la grande figura di Giobbe (anche Joseph Roth era stato conquistato dalla sua forza di provocazione), Isaac Singer ha confidato un giorno di aver scritto un saggio, senza mai pubblicarlo, intitolato: Rivolta e preghiera spiegando che "la religione deve contenere un elemento di protesta" e concludendo con queste parole:

Sì, se io potessi dichiarerei sciopero contro l’Onnipotente con questo slogan: ‘Più giustizia nella vita’.

Anche Ionesco è d’accordo: Dio ci deve delle spiegazioni.
Per il credente è importante tenere aperto il registro della tensione interrogativa, anche se questo dovesse portare a note emotive di struggente desolazione come è capitato a David Maria Turoldo, quando ha cantato:

Attendere un segno,
almeno un segno nelle
lunghe notti desolate…
 
Fingere l’abbraccio
E non averti:
chiamarti, e tu sai
con quale strazio
 
ma Tu
una risposta, mai!

In certi casi, quando la misura del dolore sembra superare la soglia di ogni umana sopportazione, sembra che si possa arrivare a vergognarsi di Dio.
È quello che ci ha voluto dire uno scrittore ebreo di Trieste, Giorgio Voghera, in un suo romanzo pubblicato anni fa dal titolo Nostra signora morte.
Racconta che, entrato un giorno nell’ospedale di Trieste per visitare un amico, vide in un corridoio un paziente, malato di cancro, che aveva il volto completamente deformato dalla malattia e dalle radiazioni.
Gli capitò allora di assistere a questa scena e a questo colloquio.
A quel malato si avvicinò un amico, un paesano che era venuto a visitarlo, il quale rimase colpito da quel volto così sfigurato e non poté nascondere un moto di perplessità.

"Cos’hai che mi guardi così", gli disse il malato. "Hai paura che venga anche a te?". E lui ha risposto: "No, ma mi vergogno per il Signore Iddio".


Un Padre temibile

Un padre che non abbia più il volto della tenerezza non può che assumere il volto contrario della durezza. Se si cancella l’immagine che del padre ci ha dato il vangelo quando ha parlato di Dio, subentra, sempre applicata a Dio, l’immagine arcaica del padre, visto come autorità assoluta e depositario di ogni diritto.
Il pater familias della tradizione romana o il padre-padrone presente tuttora nella cultura di molti popoli offrono immagini che, trasferite nel mondo religioso, fanno pensare a un Dio perverso, da temere più che da amare.
Come si potrebbe amare un Dio che volesse controllare tutto scrutando ogni cosa, anche le coscienze?
Se esistesse un Dio così indiscreto e così autoritario, sentiremmo pesare su di noi il suo sguardo e dovremmo fare i conti con la sua presenza muta e incombente.
Il padre della più famosa parabola che si legge in Luca è pronto a lasciare partire il figlio minore, quando questi decide di realizzarsi liberamente lontano dalla casa paterna, e lascerebbe partire anche l’altro figlio, se mai avesse lui pure il desiderio di andarsene.
Ma se Dio si comporta da padre-padrone, non rimane che rassegnarsi a vivere nella paura o ribellarsi.
Un Dio che fa paura è visto come un ostacolo alla promozione dell’uomo, un rivale che egli deve a tutti i costi eliminare.
L’uomo non può essere, finché Dio rimane vivo.
Perciò Camus con la pacatezza di chi sta parlando di qualcosa che dovrebbe essere a tutti evidente può affermare:

Uccidere Dio significa diventare Dio.

Solo la morte di Dio potrebbe assicurare la vita dell’uomo.
Presso altri autori il problema non assume accenti così drammatici, anche se le premesse sono pur sempre di ordine conflittuale.
Invece di impegnare con Dio una sorta di colluttazione violenta per cancellarne la presenza, si preferisce tentare la via della fuga così da sottrarsi alla sua improvvida autorità.
Questa autorità potrebbe anche ammantarsi delle forme più suadenti come quella della amabilità affettuosa e generosa, ma nessuno dovrebbe lasciarsi ingannare: dietro la più luminosa immagine paterna si può nascondere un’intenzione possessiva, tanto più pericolosa quanto più dissimulata.
È quello che Gide ha suggerito rinarrando la parabola del figlio prodigo nel racconto intitolato Il ritorno del figliol prodigo.
In quella casa non mancava proprio nulla.
E quel padre era l’immagine della più affettuosa bontà.
Ma vivere accanto a quel padre voleva dire rinunciare alla propria libertà e alla propria affermazione.
Il ritorno alla casa paterna da parte del figlio prodigo è visto perciò come un errore gravissimo, tale cioè da condannare l’esistenza ad una mediocrità fasciata di ordine e di sicurezze.
Peccato non è stato l’aver abbandonato la casa paterna, ma l’aver deciso, in un momento di debolezza, di ritornarvi.

"Dunque il vitello grasso ieri ti è parso buono?", chiede il padre. E il figlio prodigo singhiozzando risponde: "Padre mio! Padre mio! Il gusto selvatico delle ghiande dolci resta pur sempre nella mia bocca. Niente potrebbe velarne il sapore".

Si comprende anche perché il figlio prodigo incoraggi il fratello minore (questo fratello più piccolo è un’invenzione di Gide) perché sia lui ora a tentare la fuga e mentre la casa è ancora immersa nel silenzio, prima che finisca la notte, lo saluti con queste parole:

È già l’ora. Il cielo impallidisce. Non far rumore. Su, abbracciami, fanciullo mio; porti con te tutte le mie speranze. Sii forte; non ricordarci; non ricordarmi. Possa tu non tornare… Scendi adagio. Io tengo la lampada….

È chiaro che chi si mette su un cammino di fuga dal Padre non ha più ragione di invocarlo per affidargli la riuscita della sua avventura esistenziale.
Il Padre nostro dei credenti viene perciò stravolto da Prévert in questa forma caricaturale e blasfema:

Padre nostro che sei nei cieli,
restaci.


Un Padre inesistente

Questo distacco dal Padre la cui presenza è sentita come insostenibile può portare a smarrire perfino la memoria del Padre e a vivere in una condizione di indifferenza, come se non avesse alcuna importanza che il Padre esista o non esista.
È una condizione questa che non comporta risvolti nostalgici o polemici.
Nel grido di Nietzsche sulla morte di Dio c’era ancora il senso di un tragico destino riservato all’uomo, che si ritrova, seppur attenuato, nelle puntigliose negazioni di Sartre e di Camus.
Ci sono bestemmie – già si è fatto osservare – che paradossalmente possono esprimere l’ossessione non pienamente superata della presenza di Dio.
Più radicale sul piano della negazione appare l’impassibilità di coloro che si limitano a costatare l’insignificanza del concetto di Dio o non vi accennano neppure.
A che cosa servirebbe Dio?
E come sarebbe possibile immaginarlo come Padre?
Milan Kundera nel romanzo L’immortalità sviluppa una teologia dell’assenza servendosi dell’immagine del computer a cui Dio avrebbe assegnato la funzione di sostituirlo.
Una bambina chiede al padre, durante una passeggiata, se credeva in Dio. Egli aveva risposto:

"Credo nel computer del Creatore".
Se è vero che "Dio ha creato il mondo e poi lo ha lasciato in balia degli uomini i quali quando si rivolgono a lui parlano ad un vuoto senza risposta, si può pensare che si sia ritirato da questo mondo lasciando al suo posto un programma che in sua assenza continua a svolgersi inarrestabile".

Il rapporto perciò non è più con un Dio personale, Creatore e Padre, ma con un dischetto inserito in un computer il quale governa in modo a noi incomprensibile la confusa vicenda degli accadimenti grandi e piccoli di cui à intessuta la storia.
A che serve allora pregare Dio come se avesse l’animo di un padre?
La preghiera ritornerebbe su chi l’ha formulata senza modificare in nulla la situazione di prima.
In un bellissimo racconto di Par Lagerkvist, intitolato Il sorriso eterno, i morti, tutti i morti, che nell’aldilà trascorrono tra la noia e il rimpianto un tempo che non passa mai, decidono un giorno di muoversi insieme in cerca di Dio.
Che cosa vorrebbero sapere da lui?
Si aspettano da lui una parola che faccia un po’ di chiarezza sul mistero della vita che hanno attraversato e soprattutto sul mistero del dolore e della morte.
La moltitudine dei defunti (una fiumana impressionante), dopo tanto camminare, finalmente arriva alla presenza di Dio: è un vecchio che sta tagliando della legna.
Il vecchio ascolta le domande della folla, ma non sa dare alcuna risposta che sia in grado di svelare il senso dell’esistenza.

"Dio si è voluto nascondere", ha scritto Blaise Pascal.

Qui Dio si rivela senza rivelare nulla.
Anche lui, con le sue risposte incerte, confuse, inconcludenti, sembra immerso in quella oscurità che avvolge la mente e il cuore dei defunti che lo stanno interrogando.
È un Dio che non sa dare spiegazioni perché, prima ancora, è incapace di controllare la trama dell’esistenza.
Potrebbe dire almeno qualcosa sulla sorte dei bambini che sono morti, loro così innocenti, quando avrebbero avuto tutto il diritto di aprirsi all bellezza della vita?

Su costoro – si limita a rispondere il vecchio Dio – non avevo alcun disegno, allora ero soltanto felice.

Non resta loro che riprendere il cammino per inoltrarsi nuovamente negli spazi eterni, mentre si leva una voce:

Io ti riconosco, vita cara, come l’unica cosa pensabile fra tutto ciò che non si può pensare.

Jacques Prévert ha l’impressione che Dio stesso abbia voluto lasciare discretamente la scena, liberando l’uomo della sua inutile presenza:

E Dio
Sorprendendo Adamo e Eva
Disse loro
Continuate ve ne prego
Non disturbatevi di me
Fate come se io non esistessi.

Pare proprio che quest’ultima parola (Fate come se non esistessi) sia stata decisamente recepita dall’uomo d’oggi il quale, vivendo una dimensione tutta terrestre dell’esistenza, dimostra di poter fare a meno di Dio e della religione.
È un uomo che, se mai dovesse parlare della morte di Dio, lo direbbe morto per superfluità.
 

Un’assenza inquietante

Abbiamo seguito l’itinerario che ha portato alla perdita del Padre nella cultura del nostro tempo.
Abbiamo incontrato, lungo questo itinerario, momenti di conflitto, di insofferenza, di fuga, fino alla conquista di un distacco che dovrebbe essere definitivo, senza nostalgici ripensamenti.
Ma la vita non presenta mai percorsi perfettamente lineari, sottratti ad ogni forma di contraddizione.
Mentre si afferma, al tempo stesso si può negare.
Quello che felicemente si credeva di aver perso, capita di doverlo subito rimpiangere.
Nella Lettera al padre si avverte quanto Kafka ami quel padre che egli crede di detestare.
Giorgio Caproni arriva a pregare perché Dio si sforzi di esistere:

Dio di volontà,
Dio onnipotente, cerca
( Sforzati!), a furia d’insistere,
- almeno – d’esistere.

E A. Zinoviev, uno scrittore russo appartenente alla grande stagione del dissenso sovietico, in un componimento intitolato La preghiera di un ateo credente, si rivolge anche lui a Dio pregandolo di esistere non solo come onnipotente, ma come Padre:

Ti supplico, mio Dio
cerca di esistere, almeno un poco, per me,
apri i tuoi occhi, ti supplico!
Non avrai da fare altro che questo,
seguire ciò che succede: è ben poco!
Ma o Signore, sforzati di vedere, te ne prego!
Vivere senza testimoni, quale inferno!
Per questo, forzando la mia voce,
io grido, io urlo:
Padre mio,
ti supplico,

e piango:
Esisti!.
 
Sono tante le invocazioni di questi figli prodighi che cercano la casa paterna.
 

La ricerca del Padre nella letteratura del ‘900

La figura del padre, per quello che rappresenta al di là del dato biologico, è strutturalmente legata al destino di una persona e la sua perdita non può che lasciare un vuoto difficilmente medicabile.
La vicenda esistenziale di Albert Camus il quale, avendo lui pure perso il padre in tenerissima età (era morto al fronte e neppure aveva avuto la possibilità di conoscerlo), sente un giorno la necessità di visitare almeno una volta la sua tomba e di sostare in colloquio, lasciandosi sommergere da un’ondata di tenerezza e di pietà quando scopre che quel padre, morto giovanissimo, per età poteva essere ora suo figlio.
Questo racconto di Camus, che nel romanzo postumo Il primo uomo è inserito in una sezione intitolata Alla ricerca del padre, fa capire come esista un rapporto padre-figlio che le vicende della vita possono anche mortificare o interrompere, ma mai completamente annullare.
Il padre abbandonato o dimenticato o sconosciuto emerge dal fondo del proprio immaginario e invoca una sorta di riconoscimento che può passare attraverso tutte le gradazioni chiaroscurali dell’odio-amore fino alla gratitudine più limpida e più affettuosa.
 

La paternità di Dio nel cuore della coscienza

Il duplice movimento di perdita e di ricerca che caratterizza il rapporto con la paternità umana si può rinvenire anche nell’esperienza religiosa dell’uomo.
Si può rinnegare la paternità di Dio, ma è difficile abitare a lungo lontano dalla sua casa.
Si rimane come segnati interiormente, nella memoria e nell’affetto, per cui, mentre si è pronti a pronunciare il proprio credo sull’inesistenza di Dio, sale dal profondo una preghiera perché si ha bisogno che Dio esista.
Per ritrovare il camino verso la casa paterna bisogna che essa sia immaginata come una casa accogliente ed amica, dove colui che porta il nome di padre si riveli come una presenza non da temere, ma da amare.
A volte si può arrivare fin sulla soglia, portati dalla nostalgia e dal rimpianto, senza aver poi il coraggio di bussare perché i dubbi non sono completamente cancellati.
Questa esperienza, tutta giocata tra impulso e resistenza, tra speranza ed esitazione, si trova finemente descritta in un racconto di Kafka intitolato Nostalgia:

Sono ritornato, ho attraversato l’ingresso e mi guardo intorno.
É il vecchio cortile di mio padre. La pozzanghera nel mezzo. Attrezzi vecchi, inservibili, intricati tra loro ostacolano il passaggio alla scala del solaio.
Il gatto sta in agguato sulla ringhiera. Un panno a brandelli, avvolto un giorno per giuoco intorno a un palo, si agita al vento.
Sono arrivato. Chi mi riceverà? Chi aspetta dietro la porta della cucina? Dal camino esce il fumo, si sta bollendo il caffè per la sera. Ti senti a tuo agio, senti di essere a casa tua?
Non lo so, sono molto incerto. É la casa di mio padre, ma freddi stanno gli oggetti l’uno accanto all’altro, come se ciascuno badasse ai fatti suoi che in parte ho dimenticati, in parte mai conosciuti.
Pur essendo figlio del babbo, del vecchio agricoltore, come potrò essere utile, che cosa sono per loro?
E non oso bussare alla porta della cucina, ascolto soltanto da lontano, da lontano sto in ascolto, in piedi, ma non in modo che mi si possa sorprendere a origliare.
E siccome ascolto da lontano, non afferro nulla, odo o credo forse soltanto di udire un leggero ticchettio d’orologio che pare mi giunga dai giorni dell’infanzia. Ciò che si svolge in cucina è un segreto di coloro che vi stanno e che me lo nascondono. Quanto più si indugia fuori della porta, tanto più si diventa estranei.
E se ora qualcuno aprisse la porta e mi rivolgesse una domanda? Non sarei io stesso come uno che voglia custodire il suo segreto?.

Sembra, leggendo questo racconto, di trovarvi una rappresentazione visiva ed emotiva di quella ricerca del padre che assilla il cuore e la coscienza di chi un giorno ha deciso di partire per un paese straniero.
Se questo padre è Dio, una volta arrivati alla casa paterna ci si domanda come avverrà e che cosa potrà riservare l’incontro: gli occhi, l’udito, tutti i sensi sono protesi a percepire qualcosa che permetta di prefigurare il momento decisivo.
Può nascere ancora un dubbio: "Senti di essere a casa tua? Non lo so, sono molto incerto".
É un dubbio che, se può essere comprensibile nel racconto di Kafka, sarebbe del tutto ingiustificato in quello di Luca.
Perché nella parabola di Luca non c’è neppure il tempo per domandarsi quale accoglienza si potrà avere.
Non c’è neppure da segnalare il proprio arrivo.
È il padre che anticipa ogni movimento con un abbraccio.
 

Un Padre come immagine di saldezza

In quale luce si presenta il Padre perduto e ritrovato?
Con quali espressioni nel volto, nei gesti e nelle parole?
Il padre terrestre rappresenta il radicamento in una tradizione, in un’autorità, in una storia, in un dinamismo vitale.
Anche Dio, nella luce della paternità, rappresenta l’immagine della saldezza e, di riflesso, della propria sicurezza.
Quando tenta di immaginare Dio, Saint-Exupéry lo vede come un albero a cui è importante rimanere attaccati.
E poiché lontano da lui si sente "disfatto e transitorio", la sua preghiera è semplice e appassionata:

Signore, riattaccami all’albero cui appartengo. Io non esisto se sono solo. (...) Io ho bisogno di essere

A un albero pensa anche Carlo Betocchi quando in una sua poesia prega: "Padre, aiutaci!" o, meglio, pensa a un ramo su cui trovare riposo e salvezza perché

siamo quali dondolan sui rami
gli uccelli, noi, sul ramo della vita.
(...)
Tra che pericoli, svolazziamo
per reggerci!

Giorgio Vigolo, che pure affida a una preghiera l’angoscia tormentosa di sentirsi condannato a un destino di morte, immagina invece che la salvezza possa venire da due braccia provvidenziali, come di un padre che si curva sulla sua creatura indifesa e la sollevi fino a incontrare il suo volto:

Aiutami tu
a tirarmi fuori
dalla palude;
come potrò da me solo
prendermi sotto le braccia?
Io non sono che un peso
d’ossa e di carne che scende
ogni momento più in basso.
Se tu non mi dai una mano,
come salirò a te?
La morte mi ti contende,
mi vuole con sé nel suo letto.

La sofferenza peggiore, pare di capire, è quella di sentirsi orfani, privati cioè di un sostegno e di una difesa che abbiano la calda trepidazione dell’amore.
Non basta neppure la certezza che esiste all’interno delle vicende umane una presenza che regga tutte le cose nel loro esistere e nel loro divenire, ma si ha bisogno di avvicinare questa presenza con il linguaggio confidente e affettuoso che è concesso a un figlio nei momenti di maggiore famigliarità con il padre.
L’arrivo alla casa paterna, evocato da Kafka nel suo racconto, si rivela dunque come un’esperienza colma di attesa e destinata a tradursi in un incontro lungamente invocato.
Non ci sarebbe ancora il rischio di patire una forte delusione quando ci si accorgesse che il Padre ritrovato assomiglia ancora troppo a quel padre di cui ha parlato Kafka nella sua famosa Lettera?
In altre parole. è possibile sperare che Dio si riveli non soltanto come sicurezza protettiva, ma anche come tenerezza delicata che non si permetterebbe mai di mortificare la libertà di chi porta il nome di figlio?
Holderlin, a questo proposito, ha una frase stupenda: "Dio foggia l’uomo come il mare fa i continenti: ritirandosi".
È quello che in seguito avrebbe pensato anche Simone Weil la quale spiega la presunta assenza di Dio dalle vicende di questo mondo con una precisa scelta di Dio stesso: creando il mondo Dio volontariamente si è messo come da parte ( non è forse l’amore di sua natura discreto e umile?) per non togliere spazio al libero giuoco delle sue creature.
Dio perciò non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza.
Di queste epifanie minimaliste di Dio si è fatta interprete recentemente una scrittrice francese, Sylvie Germain, la quale, in un saggio dedicato al re Lear, riprende alcune suggestioni di Simone Weil per domandarsi:

E se Dio, dopo aver creato il mondo e avervi iscritto un senso tanto denso e acuto quanto sottile, si fosse ritirato dalla sua Creazione, allo stesso modo di Lear che abdica di sua spontanea volontà, perfino con gioia, per consegnare il suo regno alle proprie figlie e dare loro il suo potere e i suoi beni? (…).
In cambio non avrebbe domandato che l’amore dei suoi figli.(…).
Come il re Lear, in misura infinita, Dio si sarebbe spogliato del suo potere e non saprebbe far altro che mendicare, mendicare un po’ d’amore e di riconoscenza.

Dobbiamo dunque immaginare un Dio che, avendo fatto la scelta di un volontario esilio, si riduce a mendicare, lui che avrebbe potuto disporre della volontà di tutte le sue creature.
Questo volontario esilio non significa peraltro una sorta di impotenza che lo costringerebbe ad assistere semplicemente agli accadimenti del mondo, ma un’azione provvidente nel segno di una partecipazione tanto intensa quanto delicata.
 

Un Padre come immagine di perdono

La prima immagine che il Padre offre di se stesso a chi ha lungamente atteso il rivelarsi della sua presenza e del suo volto è quella di una sicurezza che però ama velarsi e dissimularsi, come se temesse di togliere spazio alle iniziative dell’uomo.
Dio è il grande albero che regge tutte le creature nel loro esistere, ma Dio lascia anche che ogni creatura, per riprendere l’immagine degli uccelli usata da Betocchi, possa tentare liberi voli in liberi cieli.
Ma che cosa succede quando l’uomo si impadronisce di questa libertà dimenticando da chi l’ha ricevuta?
Cosa può aspettarsi da Dio colui che, dopo aver praticato infelicemente le strade della totale autonomia, sente di doversi arrendere riconoscendo il suo fallimento?
Si ripropone ancora l’esperienza dell’attesa, questa volta con il timore di incorrere in una severità che potrebbe essere senza appello.
Ma il volto di Dio è quello di un padre.
Con questo volto Clemente Rebora immagina che possa bussare alla sua porta l’ospite a lungo atteso.
Nella sua lirica più famosa, Dall’immagine tesa, sente l’imminenza di un arrivo, come lo sbocciare lieve di una presenza annunciata da un "polline di suono".
Il poeta non sa ancora chi sia l’ospite (d’altra parte è così discreto il suo bussare!), ma ha un presentimento di ciò che dovrebbe significare per la sua vita quel "bisbiglio" improvviso che gli pare già di poter avvertire:

Verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

In ben altro contesto ambientale e morale si manifesta invece il volto perdonante del Padre nel romanzo breve di Roth intitolato La ribellione, dove l’attesa è vissuta appunto nel segno della ribellione, mentre il perdono arriva inaspettato a sciogliere una tensione di incandescente drammaticità.
Protagonista del racconto è Andreas Pum il quale, dopo una vita segnata da tante ferite fisiche e morali (mutilato di guerra, è stato sottoposto a continue umiliazioni sia in casa che nella società) viene trovato morto nello squallido locale di un hotel dove svolgeva il compito di custode dei gabinetti.
In un’atmosfera onirico-metafisica, quando s’accorge di trovarsi alla presenza di un Dio giudice, non può comprimere la sua ira per tutte le ingiustizie subite, chiedendo addirittura di essere "mandato all’inferno", ma in quel momento Andreas Pum non ha più davanti a sé un giudice, bensì un padre:

Il giudice si alzò in piedi, diventò grande, sempre più grande, il suo volto grigio si fece a poco a poco bianco e luminoso, e le sue labbra rosse si dischiusero in un sorriso.

Il rivelarsi di un Dio infinitamente misericordioso è celebrato anche attraverso il contrappunto di "una splendida melodia totalmente sconosciuta".
Andreas Pum arriva finalmente a conoscere la misericordia di quel Padre di cui aveva creduto di dover dubitare.
Sono tanti i testi della letteratura del ‘900 che celebrano il volto misericordioso del Padre, ma forse nessuno può pareggiare in intensità e dolcezza emotiva quello che Péguy ha dedicato alla preghiera del Padre nostro nel Mistero dei santi innocenti.
È Dio stesso che parla rivelando che egli non potrebbe mai rinunciare al suo essere padre e suggerendo pertanto un sentimento della vita rasserenato da una grande fiducia:

Chi ha detto la sera il suo Padre nostro può dormire tranquillo.
Credete che mi divertirò a trattar male quei poveri ragazzi?
Non sono forse loro padre?
E che mi divertirò a far loro delle sorprese come si fa in guerra?
Faccio forse loro la guerra?
Sì faccio loro la guerra, ma si sa bene perché.
È per impedire loro di perdere la battaglia.
Io sono un onest’uomo, dice Dio.


Un Padre come immagine di compassione

Dio finora, nelle pagine della letteratura, si è rivelato come un Padre che mantiene nell’esistenza e che è pronto a riaccogliere tutti quelli che si perdono o che comunque sentono il bisogno di avere da lui un abbraccio pacificante.
Ma a questa immagine del Padre manca ancora un tratto essenziale che noi ameremmo trovare e che il Padre amerebbe far conoscere.
È dolce infatti contemplare quel volto luminoso che si è manifestato ad Andreas Plum, ma sarebbe ancora più commovente poter intravvedere nella trasparenza di quella luce le stimmate di una sofferenza dovute al suo amore di padre.
C’è stato chi ha fatto notare che il padre della famosa tela di Rembrandt sembra avere la vista consumata dall’aver troppo a lungo scrutato il ritorno del figlio.
Non sarebbe possibile immaginare che anche Dio, come Padre, abbia il volto segnato dalla passione di stare accanto alle sue creature più smarrite, oppure si deve necessariamente vederlo nella perfezione di una beatitudine sottratta ad ogni ombra di dolore?
Della sofferenza di Dio, a partire dall’immagine del Christus patiens, hanno parlato diversi teologi e grandi credenti come Moltmann, Kitamori, p.Varillon (uno dei suoi libri ha come titolo La sofferenza di Dio), ma anche la letteratura ha avuto intuizioni meravigliose precedendo a volte i sentieri aperti dalla teologia.
Non è possibile non ricordare anzitutto quello straordinario racconto di Elie Wiesel intitolato La notte e, in particolare, una pagina di altissima drammaticità sia umana che teologale.
Ad Auschwitz vengono impiccati tre detenuti, alla presenza di tutti gli altri: due di essi muoiono subito, il terzo, più giovane, lotta a lungo con la morte.

Nel corso di questa straziante agonia c’è qualcuno che ad alta voce si domanda: "Dov’è il Buon Dio? Dov’è?" ed un altro – è lo stesso narratore – che vorrebbe rispondere: "Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…" .

Voleva forse dire che in quella tragedia feroce e assurda veniva a spegnersi per sempre anche la fede in Dio?
Ma c’è anche un altro significato possibile: Dio era lì, appeso a quella forca, a condividere il destino di chi stava morendo.
Un Dio che soffre può disorientare la tranquillità di una teologia abituata a immaginare come impassibile l’essere divino.
Ma un Dio che soffre interpreta meglio l’immagine che ci ha lasciato la parola rivelata presentandoci Dio con un cuore di padre.
Se Dio, rivelando il suo cuore di Padre, si fa pienamente solidale con ogni creatura che soffre e si dibatte in una situazione di grave necessità, non può più essere visto come un Dio da condannare per lo scandalo del dolore innocente, ma come un Dio da amare restituendogli qualcosa della tenerezza che lui dispensa con grande prodigalità.
È venuto il momento – sembra di poter leggere in diverse pagine della letteratura del nostro tempo – in cui si è chiamati a scoprire il volto di un Dio debole, disarmato e sofferente.
A questo proposito Marguerite Yourcenar ha posto sulle labbra di un monaco del XVI secolo, nell’Opera al nero, alcune riflessioni che sono di una sorprendente profondità:

Per quante notti ho respinto l’idea che Dio lassù non è che un tiranno o un monarca incapace, e che l’ateo che lo nega è il solo a non bestemmiarlo…
Poi una luce s’è fatta in me (…). E se ci ingannassimo postulando la sua onnipotenza e vedendo nei nostri mali l’effetto della sua volontà? Se dipendesse da noi ottenere che giunga il Suo regno?
Ho già detto che Dio si delega; mi spingerò oltre…
Forse egli non è che una fiammella nelle nostre mani, e dipende da noi alimentarla e non lasciarla spegnere; forse siamo la punta più avanzata alla quale egli perviene.
Quanti infelici offesi dall’idea della sua onnipotenza accorrerebbero dal fondo del loro sconforto se si chiedesse loro di venire in aiuto alla debolezza di Dio? (…)
Ognuno di noi è assai debole, ma è una consolazione pensare che Egli sia ancora più impotente e scoraggiato, e che tocca a noi generarLo e salvarLo nelle creature….

Lungo il filo di queste intuizioni si muove anche un altro personaggio, questo non creato dalla finzione letteraria, ma modellato dagli eventi tragici della grande ultima guerra e, in particolare, della barbarie nazista di cui, essendo di famiglia ebrea, è stata una delle tante vittime sacrificate nei campi di sterminio.
Si tratta di Etty Hillesum che nel suo Diario dedicato all’esperienza vissuta negli ultimi due anni della sua vita (pubblicato nel 1981 in Olanda conobbe un successo pari a quello riservato al Diario di Anna Frank) affronta il problema religioso con una sensibilità sempre più arresa al rivelarsi di un Dio che non sta dalla parte di coloro che fanno soffrire, ma si fa trovare dentro la sofferenza come un Dio nascosto che va mendicando anche lui un po’ di pietà.
Di fronte a questo Dio vulnerabile, Etty Hillesum, che anni prima sognava di scrivere una novella dal titolo La ragazza che non sapeva inginocchiarsi, trova il coraggio di inginocchiarsi non per debolezza, ma per un debito di compassione che l’apparenta alle grandi anime mistiche, come Teresa di Lisieux.
Pur trovandosi in una condizione tenebrosa che non sembra lasciare speranze di salvezza, vorrebbe avere accanto Dio per poterlo aiutare affidando questa sua stupenda intenzione a parole di straordinaria bellezza:

Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. (…)
Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. (…)
Partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. (…)
A volte le persone sono per me come case con la porta aperta. (…) Ti prometto, ti prometto che cercherò sempre di trovarti una casa, un ricovero. In fondo è una buffa immagine: io mi metto in cammino e cerco un tetto per te. Ci sono così tante case vuote, te le offro come all’ospite più importante.

Attraverso queste parole il volto del Padre rivela tutta l’umiltà, la vulnerabilità, l’ampiezza del suo amore.
Il Padre va aiutato perché trovi una dimora non soltanto in noi, ma anche nel cuore di altre persone che in qualche modo è possibile avvicinare.
Perché Dio è Padre nostro, Padre di tutti.
Etty Hillesum, che dal fondo oscuro della sua terribile condizione potrebbe appellarsi a Dio unicamente per strappare il miracolo della sua personale salvezza, ha il coraggio di allargare la propria attenzione in nome di una solidarietà e di una fraternità che solo dalla paternità di Dio possono attingere piena ispirazione e dedizione.
 

Il Padre, immagine di un mistero inesauribile

C’è da chiedersi a questo punto se il Padre ritrovato abbia rivelato completamente il suo volto.
È possibile che si possa oramai parlare del Padre come se tutti i lineamenti evocati da questa parola fossero trasparenti al nostro sguardo e alla nostra passione di conoscere?
Per quanto grande sia la conoscenza che si ha di Dio e la famigliarità con la sua presenza amante, rimane pur vero che la profondità dal suo mistero è tale da suggerire sempre un senso di umile adorazione e di inesausta ricerca.
Gregorio di Nissa arrivava ad affermare:
 
Il Nome di Dio non è oggetto di conoscenza, è oggetto di stupore.

 
Si potrebbe aggiungere: "di stupore anche doloroso".
Per questo Elie Wiesel e altri pensatori ebrei amano dire che il Dio biblico non sta nella risposta ma nella domanda.
Esiste cioè in Dio una verità segreta che non può essere accostata se non attraverso l’interrogazione e l’invocazione.
A sentirsi smarrita non è soltanto la conoscenza che si ha di Dio, ma anche, di riflesso, la parola.
Tutte le parole con cui ci si rivolge a Dio, anche quelle dettate dalla tradizione e suggerite dal vangelo, soffrono di una radicale inadeguatezza nei confronti di ciò che è indicibile e irrappresentabile.
Si sarebbe tentati di dire – e forse si è nel giusto – che solo il silenzio sia la risposta più rispettosa del mistero e la via per una conoscenza meno superficiale.
È quello che Elena Bono ci suggerisce in una sua lirica dove fortemente marcato è il senso della trascendenza di Dio per cui non resta che adorare, senza parole, in armonia con lo stupore cosmico di tutte le cose:

Solo il silenzio Ti adora
nella misura della tua grandezza.
Il silenzio del mare, della notte,
lo stupore dei fiori, delle rocce.
Il silenzio di questo cuore umano
che ascolta smarrito
Il battito del tuo cuore di Dio.

C’è però la possibilità di uscire, almeno in qualche misura, da questo smarrimento conoscitivo e comunicativo se ci si lascia guidare alla casa del Padre da colui che ha detto. "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo" (Gv 16, 28).
Dio rimane sempre l’Inaffrontabile, l’Inconoscibile, ma quando si rivela con il nome di Padre, è soltanto il figlio Gesù che può mettere in rapporto con la forza evocativa di questo nome.
Eugène Ionesco, in quella parte ultima del suo Diario che ha intitolato La ricerca intermittente, riconosce in diversi passi che Gesù è il cammino che permette di avvicinarsi al Dio inaccessibile.

Dio inaccessibile. Ma, attraverso Gesù, accessibile. Per questo Lui, l’indicibile, si è fatto Gesù, si è dato un nome: GESÙ.

E Gesù è anche colui che, illuminando l’immagine di Dio della calda luce della paternità, aiuta ad abbandonare ogni paura che possa ancora bloccare l’esperienza di un rapporto filiale e di un fiducioso abbandono.
È ancora Ionesco che ci parla di una paura superata sentendosi, con Gesù, figlio di Dio:

Io temo Dio. Riesco ad amarlo meglio attraverso il figlio: è un amico. È mio fratello: non siamo tutti figli di Dio, la Vergine non è nostra madre? Siamo i figli di Dio.

La vera conoscenza del Padre è dunque un segreto di coloro che dimostrano, pur in mezzo a molteplici difficoltà, di poter affidare la propria esistenza a un amore più grande di qualsiasi amore umano e di vivere nello stupore di sentirsi sempre amati come figli.
Di questa certezza si è nutrita, dopo aver superato un combattimento angoscioso con un Dio immenso e oscuro, la grande mistica della poesia francese del ‘900, Marie Noël, la quale nel suo Diario segreto ha lasciato questa luminosa e ardente testimonianza:

Nella notte più nera, nella tremenda voragine in cui Dio si inabissa, in cui la fede crolla come un castello di nuvole, in cui non c’è più traccia della speranza sulla terra né in cielo…
Nella notte, Signore, Tu mi sarai fedele.
Nella morte in cui tutto scompare, nella morte in cui l’anima non ha più spazio né tempo, nel nulla in cui non troverò più me stessa né alcun altro uomo…
Nella notte, Signore, Tu mi sarai fedele.
Nel tuo buio in cui mi inabisserò, in cui di me resterà solo ciò che fu Te, in cui Tu solo sarai il solo essere che rimarrà di me….
Nella notte, Signore, Tu mi sarai fedele:
Tu solo che sei
eternamente
Te.

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