IL QUINTO EVANGELI0

MONS. RENATO CORTI
vescovo di Novara


Parola di Dio e costruzione della Chiesa
La biblioteca del Vescovo del IV secolo
Come era inteso l’accostamento della Parola di Dio
Che cosa capiva la gente?
Alcune attenzioni di metodo
L’ultimo successore di sant’Ambrogio e la Parola di Dio
Il quinto Evangelio
I quattro Vangeli
La necessità del quinto Vangelo
Il rischio di un quinto Vangelo
Conclusione


Ho accettato volentieri di partecipare a uno di questi vostri incontri quaresimali. L’invito di don Mirko mi ha fatto ripensare a esperienze vissute insieme tanti anni fa, soprattutto a livello giovanile, nella Parrocchia di Desio, dove egli era coadiutore. E poiché questa serata è l’ultima tra quelle programmate in preparazione alla celebrazione della Pasqua, vi auguro di poter ricavare grande frutto da tutto quanto vi è stato donato fin qui.
Il tema proposto si riconnette con diverse delle riflessioni precedenti, dedicate a illustrare momenti e personaggi della vita evangelica, come Maria di Magdala o il buon ladrone, o come la notte drammatica di Gesù nel giardino degli ulivi. In un certo senso, quanto io dirò può usufruire di quanto è già stato suggerito. Il titolo di questa relazione investe infatti ilVangelo nel suo insieme, facendo riferimento a quinto evangelio.

A proposito del titolo, vorrei notare che ha un suo fascino e un suo mistero; nel medesimo tempo mi sento di mettere in guardia dal rischio di farne un gioco di parole. Non ce lo possiamo permettere. Viviamo tempi duri (anche se belli), nei quali la fede è messa a prova. Per i cristiani il confronto con il Vangelo resta quindi un evento delicato e dal quale lasciarsi realmente mettere in gioco, non accontentandosi di nessun formalismo.
Vorrei sviluppare la riflessione in due parti. La prima consiste nel metterci a confronto con una grande testimonianza che ci faccia capire quale rapporto vi possa essere tra Parola di Dio e costruzione di una comunità cristiana (e la testimonianza è quella di sant’Ambrogio).
Nella seconda parte indicherò tre sentieri di cammino spirituale che mi sembra suggerito dal titolo Il quinto evangelio.


Parola di Dio e costruzione della Chiesa

Quanto ora dirò mi viene suggerito dall’anno centenario della morte di sant’Ambrogio. In questa Quaresima ho voluto lasciarmi ispirare da questo Santo nello sviluppo dei Ritiri Spirituali che sto proponendo ai Sacerdoti della Diocesi di Novara. Credo utile dirne qualcosa anche a voi, limitandomi a far emergere ciò che egli ha da proporci sul tema specifico che ho già indicato.


La biblioteca del Vescovo del IV secolo
Dobbiamo riconoscere che, nel IV secolo, coloro che conducevano la comunità cristiana con la responsabilità di Vescovi intendevano il loro ministero anzitutto e sempre come annuncio del Regno di Dio a tutti i loro uditori. Pensando ad Eusebio, Ambrogio, Agostino, Gaudenzio, e ad altri, mi viene da pensare che la loro biblioteca di Vescovi doveva mettere in primo piano i rotoli delle Sacre Scritture perché di esse sempre intendevano parlare quando aprivano bocca. Al cuore della missione educativa e pastorale stava il nutrimento garantito ai fedeli con la predicazione delle Scritture (cfr. C. Pasini, l.c., p. 186).


Come era inteso l’accostamento della Parola di Dio
L’accostamento della Parola di Dio era inteso in un modo che non era né superficiale, né semplicemente informativo: era destinato a far entrare fin nel profondo della vita delle persone la Parola di Dio. Per questo motivo la comunicazione della Parola tendeva a favorire, negli ascoltatori (come già, prima, in colui che l’annunciava) una ruminatio, così che quel nutrimento necessario e ricchissimo venisse realmente assimilato con pazienza e costanza attraverso una lenta e distesa meditazione. «E’ necessario ‑ diceva Ambrogio - triturare e rendere farinose le parole delle Scritture celesti, impegnandoci con tutto l’animo e con tutto il cuore, affinché la linfa del cibo spirituale si diffonda in tutte le vene dell’anima» (Caino e Abele, II, 22, SAEMO 2/I, pp. 282 s).


Che cosa capiva la gente?
Qualcuno si è domandato che cosa poteva capire la gente di allora di una predicazione tutta ispirata alla Scrittura. E la risposta sembra che possa essere la seguente: certo, occorreva a questi nostri padri nella fede una grande capacità di adattamento all’uditorio; occorreva anche una buona disposizione, da parte dei fedeli nei confronti di colui che parlava. E però la comunicazione orale, fatta con intelligenza e cuore verso persone realmente amate conduceva, piano piano, anche la gente semplice a rendersi familiare il testo biblico e perciò a comprendere molto di più di quanto, a prima vista, la preparazione culturale potesse far supporre. Ambrogio parlava al popolo, non a una élite e «proprio la predicazione domenicale, di settimana in settimana, a poco a poco creava nei fedeli quella conoscenza e cultura biblica e cristiana che rendeva familiari e comprensibili le allusioni e le connessioni che innervavano il discorso» (C. Pasini, l.c., p. 192).
A questo proposito, si può evocare un caso emblematico: quello di una donna del popolo, diventata alunna attenta del Vescovo e cresciuta, proprio attraverso il suo aiuto e il suo insegnamento, nella fede e nella maturità cristiana. Mi riferisco a Monica, madre di Agostino, il quale era allora a Milano come professore di retorica e non era ancora cristiano. E’ lo stesso Agostino a parlarne nelle Confessioni: «Già mi aveva raggiunto mia madre, che, forte della sua pietà, mi inseguì per terra e per mare. Ella moltiplicava le preghiere e le lacrime perché tu, o Signore, affrettassi il tuo aiuto: con più zelo accorreva alla chiesa, dove pendeva dalle labbra di Ambrogio, dalla fonte dell’acqua zampillante verso la vita eterna. Amava essa quell’uomo, come un angelo di Dio, perché sapeva che per opera sua in quel frattempo ero arrivato a quello stato fluttuante del dubbio, attraverso il quale sarei passato dalla malattia alla guarigione. Per quest’uomo nutriva essa il più grande affetto, in vista della mia salvezza, e ne era ricambiata da lui per la sua vita religiosissima, per il suo spirito fervente nelle buone opere, per la sua frequenza alla chiesa: talché, quando egli mi vedeva, usciva spesso nelle lodi di lei, congratulandosi con me che avessi una tal madre, ignorando qual figlio essa avesse» (Confessioni, VI 1‑2).


Alcune attenzioni di metodo
E’ peraltro possibile rintracciare in Ambrogio delle osservazioni di metodo circa la comunica­zione della fede con la parola e il suggerimento di attenzioni specifiche da avere, a seconda che ci si rivolga a chi è ancora pagano, a chi è ebreo e a chi deve essere istruito come catecumeno. Ambrogio che era un fine parlatore e che rifletteva sul suo lavoro, ricorda in una pagina della Esposizione sul Vangelo secondo Luca, che quando qualcuno è chiamato a passare dal paganesimo alla Chiesa dobbiamo graduare la concatenazione degli insegnamenti, in modo tale da mostrare che «vi è un solo Dio creatore del mondo e di tutte le cose, nel quale viviamo e ci muoviamo» (e cita Paolo all’areopago di Atene). Se invece si tratta di un ebreo che si accosta al Cristianesimo, bisogna fare come gli apostoli, i quali «dicevano loro che Gesù è il Cristo, a noi promesso dagli oracoli dei profeti; ma non lo chiamavano subito il Figlio di Dio, bensì l’uomo aspettato del quale è stato detto nelle profezie. Così dunque ricorri anche tu all’autorità della Parola di Dio per le verità che si fa fatica a credere». E se, infine, «deve essere istruito un catecumeno, che ormai aspira ai sacramenti dei fedeli, bisogna dire che vi è un solo Dio, dal quale tutto proviene e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e che il Padre e il Figlio sono di un’unica sostanza; e che egli è il Verbo eterno di Dio..., per poi dare la lieta notizia che è stato crocifisso. Le altre croci non servono a nulla, soltanto mi giova, e veramente mi giova, la croce di Cristo, per la quale il mondo è stato crocifisso per me come io per il mondo» (Espos. sul Vangelo di Luca, VI, 104‑107; SAEMO, 12, pp. 87‑93).


L’ultimo successore di sant’Ambrogio e la Parola di Dio
E’ interessante constatare che quando, sedici secoli dopo, il successore di Ambrogio intraprende il ministero episcopale a Milano, colpisce l’opinione pubblica ecclesiale, e non, mettendo in atto ‑ come prima iniziativa ‑ la predicazione in Duomo della Parola di Dio, specialmente ai giovani, con la lectio divina (o Scuola della Parola) e che, dopo oltre quindici anni, questa esperienza continua a caratterizzare il suo ministero episcopale.

Il quinto Evangelio

Tutto quanto ho detto a proposito di sant’Ambrogio può guidare la nostra riflessione sul «quinto evangelio». Vorrei dare spazio soprattutto a tre risonanze che un simile titolo trova dentro di me.


I quattro Vangeli
A questo titolo reagisco, anzitutto, cosi: abbiamo quattro Vangeli e sarebbe bene che ci dedicassimo a conoscerli un po’ seriamente. Arrivare alla fine della vita, da parte di un cristiano (anche di un prete), potendo dire: «Almeno i Vangeli li conosco», sarebbe un grande risultato. La nostra ignoranza può essere molto grande e lasciarci nella più assoluta genericità anche a proposito di testi fondamentali della tradizione cristiana.

Mi permetto, stasera, di dare brevemente la parola ai quattro evangelisti:
Marco ‑ Marco ti dice: guarda quanto è breve il mio Vangelo. Parte direttamente dalla vita pubblica di Gesù. Ho proprio voluto dire solo l’essenziale rivolgendomi a chi, provenendo dal paganesimo non aveva radici nella storia del popolo ebreo.
Osserva come, questo piccolo Vangelo, non è forse molto aggraziato nella sua struttura: ha un corpicino sul quale vi è un gran testone. Gli ultimi giorni di vita di Gesù, la sua passione e morte occupano «sproporzionatamente» circa un terzo dell’intero Vangelo (cfr. Marco 11‑16;cfr. B. Rigaux, Témoinage de l’évangile de Marc, p. 22). Volevo dire con questo che nulla vi è di più importante per capire chi è Gesù quanto di mettersi di fronte al mistero della sua passione e morte. Lì si rivela Gesù, lì si rivela Dio, lì noi siamo rivelati a noi stessi.
E osserva che, esattamente a metà del mio Vangelo, vi è una domanda: quella posta da Gesù ai discepoli: «Voi chi dite che io sia?» (cfr. Marco 8,27‑30) In quella domanda si riassume tutto il mio Vangelo perché con il mio Vangelo a una cosa sola tendo: condurre all’atto di fede in Gesù.
Se oggi ci sono ancora molti pagani, il mio piccolo Vangelo è di attualità. Ha aiutato a credere gente che viveva nell’antica Roma; può aiutare a credere anche i pagani di oggi.
Luca ‑ Ti direi di non lasciarti sfuggire il fatto che la mia testimonianza a Gesù è già percepibile in una pagina apparentemente arida, quasi come un elenco telefonico: quella della genealogia del Signore Gesù Cristo (cfr. Luca 3,23‑38).
Osserva dove faccio culminare quella genealogia: con Adamo, e cioè col primo uomo, partendo da Gesù, che è il nuovo Adamo.
Con ciò volevo testimoniare che Gesù non è semplicemente qualcuno che interessa i destini di un popolo particolare, come quello ebreo; è invece colui nel quale tutti i popoli di ogni parte della terra e di ogni tempo nella storia possono riconoscere la presenza di Dio che salva e recupera la vita dell’uomo dal vuoto e dal nulla, dalla relatività e dal divenire.
E ti direi di osservare bene anche un capitolo che si trova nel bel mezzo del mio Vangelo: il capitolo 15.
Vi sono raccontate diverse parabole (la pecora perduta, la dramma smarrita, il figliol prodigo) ed esse sono fondamentali: esprimono infatti con grande eloquenza che, appunto, in Gesù si manifesta la misericordia di Dio Padre, capace e desideroso di avvolgere con il suo amore e la sua misericordia la vita di ogni uomo.
Se oggi vuoi dare visibilità alla testimonianza espressa dal mio Vangelo, devi essere molto attento agli orizzonti del tuo essere cristiano: non devi esser piccino, non devi essere chiuso, non devi pensare il cristianesimo come ad una setta elitaria o ad un piccolo gruppetto che sta bene con se stesso.

Matteo ‑ Matteo ti dice: osserva anche il mio Vangelo che, come quello di Luca, comprende una genealogia. Anzi, essa ne costituisce la prima pagina (cfr. Matteo 1, 1‑17).

Ma nota che è originale rispetto a quella di Luca: la mia incomincia da Abramo e da Davide. Che è come dire: colui del quale da qui in avanti si parlerà ha a che fare con la storia del popolo ebreo anzi, della storia di quel popolo Gesù è il vertice.

E osserva che il mio Vangelo, mentre è quello che parla più ampiamente dell’antico popolo scelto da Dio, è anche quello che parla di più del nuovo popolo di Dio, che si chiama la Chiesa.
Ho voluto ordinare le molte parole di Gesù attorno a cinque grandi discorsi: quello della montagna (Matteo 5‑7), quello della missione (Matteo 10), quello delle parabole (Matteo 13), quello ecclesiale (Matteo 18), quello escatologico (Matteo 25) per dire che l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù ha creato una comunità, ha intessuto una fraternità, ha fatto emergere un nuovo popolo, la Chiesa.

E osserva ancora come il racconto del mio Vangelo si conclude (cfr. Matteo 28,16‑20).

Do spazio alle parole con le quali Gesù ha chiesto a noi, suoi discepoli, di andare in tutto il mondo e di annunciare il Vangelo a tutte le nazioni perché, in realtà, tutto il mondo ha un’unica vocazione: diventare, di qui all’escatologia, la Chiesa di Gesù.
E’ quello che noi apostoli abbiamo cominciato subito a fare, praticando a Gerusalemme, poi in Giudea, in Samaria, poi più lontano, fino a Roma.
Se vuoi che la mia testimonianza abiti in te e in te si manifesti, due cose dovresti decidere stasera.
La prima riguarda la missione.
Ti aggiungo che, se vuoi accogliere la testimonianza che io ti do, mentre devi dire di si a Dio e a Gesù Cristo, devi anche sentirti chiamato a inserirti in una comunità concreta di fratelli che hanno aderito, con te o prima di te, a Gesù come Maestro e Signore.
Tutto il mio Vangelo è come una lunga catechesi che ti vuole aiutare ad approfondire il senso di appartenenza del discepolo di Cristo e del battezzato alla Chiesa.
Non essere perciò facile nell’accettare ciò che talvolta si dice: «Cristo sì, Chiesa no». Il mio Vangelo, mentre conduce alla fede nel Signore Gesù, ti conduce a scoprire che proprio Gesù ha voluto la Chiesa, ha voluto Pietro, ha inviato i suoi discepoli, ha detto loro: «Io sarò con voi fin alla fine del mondo» (Matteo 28,20).

Giovanni ‑ Se vuoi accogliere la mia testimonianza, ricorda almeno tre parole.

La prima sembrerebbe la più lontana da testi così spirituali come i Vangeli: «carne» (in greco: sarx). Se vuoi dare testimonianza cristiana devi testimoniare precisamente questo: che Dio si è fatto uomo, ha preso carne di uomo, ha dimorato in quell’uomo che si chiama Gesù di Nazaret. Se dunque qualcuno ti dice che il Cristianesimo (o il Vangelo) contiene delle belle idee, tu devi dire che il Cristianesimo e il Vangelo non sono belle idee, ma il farsi carne umana di Dio. Il Cristianesimo è concreto, storico, umano; fin lì è arrivato Dio. Non lasciarlo più indietro o all’esterno; sarebbe eresia. E all’uomo di oggi mancherebbe proprio ciò di cui ha bisogno.
La seconda parola sembra più abbordabile anche se è sempre equivocabile: «amore».
Se vuoi accogliere la mia testimonianza devi predicare, in parole e in opere, qual è l’unico e vero Dio: è colui che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Giovanni 3,14). Predicare il Vangelo e dare testimonianza evangelica è sempre rivelare questo Dio. In tempo di Bosnia e di altri orrori, non c’è bisogno urgente che i cristiani manifestino con forza questo Dio?
La terza parola è già affiorata. E’ la parola «mondo». Io l’adopero talvolta non per indicare il creato, e dunque ciò che è uscito dalla mano di Dio ed è di per sé buono, ma in un senso negativo: identifico, con questo termine, le forze che combattono Dio, che negano Gesù, che vogliono il male dell’uomo.
Se vuoi accogliere la mia testimonianza, cammina avendo coscienza che, lungo la storia umana, Cristo è combattuto e negato, tutta l’opera di Cristo in favore dell’uorno è combattuta e negata. Non devi perciò avere paura della battaglia, delle prove, delle tentazioni, delle sofferenze; non devi pretendere che tutto proceda senza intoppi e senza insidie. Tu ricorderai piuttosto che «tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede» (1 Giovanni 5, 4).



La necessità del quinto Vangelo
Da quanto ho detto fin qui risulta con evidenza che sono i quattro Vangeli a esigerne un quinto. E ci viene anche detto chiaramente in che cosa consiste.
Già la prima Comunità cristiana lo ha scritto, con la vita di tutti i giorni, e qualcosa ci viene raccontato, a tal riguardo, negli Atti degli Apostoli. Il compito di scriverlo tocca ad ogni generazione di cristiani, anche alla nostra. Il quinto Vangelo è la nostra vita di uomini e di donne che, nel secolo ventesimo, cercano di testimoniare Colui che hanno incontrato e nel quale hanno creduto.

Leggo nel romanzo di M. Pomilio, Il quinto evangelio, nel capitolo La mappa del cielo, la citazione dagli Emolumenta fidei di Giustino di Poitiers (VIII sec.): «Si dice che all’interno dei quattro Vangeli noti è come se ce ne fosse uno ancora sconosciuto. Ma ogni volta che la fede accenna a rifiorire, è segno che qualcuno ha intravisto quel Vangelo» (p. 86).
Trovo significativo questo testo perché dà evidenza al fatto che il quinto Vangelo non è un altro rispetto ai quattro che abbiamo ricevuto, ma è la percezione e l’assimilazione di ciò che sta nascosto proprio in quei quattro.
E interessante anche quanto viene tratto dal Fabulario di Gerardo da Siena (XV sec.): «Rideva un pagano dei cristiani perché osservano un sol libro. Ma un santo vescovo, che l’avea udito, gli contò questa novelletta: “Una volta un dottore incontrò il Cristo Gesù: Signore, io so bene che tu fosti il Messia e quel che pronunziasti è pieno di sapienza. Ma come può essere che un sol libro basti in eterno a tanta gente? Gli rispose Gesù: Egli è vero quel che dici. Ma tu non sai che il popol mio lo riscrive ogni di”» (p. 87).

E pure bella questa Preghiera al crocifisso di anonimo fiammingo del XV secolo (pp. 87‑88):

Cristo non ha più mani,
ha soltanto le nostre mani,
per fare oggi le sue opere.
Cristo non ha più piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per andare oggi agli uomini.
Cristo non ha più voce,
ha soltanto la nostra voce
per parlare oggi di sé.
Cristo non ha più forze,
ha soltanto le nostre forze
per guidare gli uomini a sé.
Cristo non ha più Vangelo
che essi leggano ancora.
Ma ciò che facciamo in parole e opere
è l’evangelo che si sta scrivendo.

Se vogliamo esprimere in concreto il senso di questo quinto Vangelo potremmo ricordare, soprattutto per voi fedeli laici, quanto scriveva Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, là dove, a proposito dei fedeli laici, dice: «Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia; cosi pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche delle altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio della edificazione del regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo» (n. 70; cfr. CFL, 23 i).

Sarebbe utile fermarsi su qualche esempio concreto circa il modo di scrivere il Vangelo oggi.


Cultura ‑ Vi è un primo spazio che chiama in causa la Chiesa, e soprattutto i fedeli laici, in favore della persona e della società: quello della cultura.

Il Vangelo va portato dentro a tutto questo, e oggi non è facile, se si tien conto del volto della cultura moderna che caratterizza soprattutto l’Occidente. Essa si è molto sviluppata, ma dissociata dalla fede cristiana. Perciò i cristiani di oggi, come diceva Paolo VI, si trovano dentro a quello che si può chiamare il dramma della nostra epoca: la rottura tra fede e cultura (cfr. EN, 18‑20).
Che fare, dunque, soprattutto da parte dei fedeli laici? Essi «devono essere presenti all’insegna del coraggio e della creatività intellettuale, nei posti privilegiati della cultura, quali sono il mondo della scuola e dell’università, gli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, i luoghi della creazione artistica e della riflessione umanistica» (CFL, 44 c).
E poiché i ragionamenti sull’uomo e su Dio non si fanno solo nella scuola, ma in tutti gli ambiti della vita (per esempio quello del lavoro), ciascun fedele laico deve attrezzarsi per potere, in qualche misura, affrontare le domande che la vita pone e il dialogo con i compagni o i vicini solleva. Un modo per farlo consiste nell’utilizzare in maniera costante qualche strumento che sia a portata di mano. Di nuovo la Parrocchia o il Vicariato sono chiamati in causa.
Nel medesimo tempo i singoli fedeli, soprattutto in termini di catechesi per gli adulti, sono interpellati perché non avvenga che la loro inadeguatezza sia conseguenza dell’aver trascurato gli aiuti «culturali» disponibili (penso per esempio al quotidiano «Avvenire», al Settimanale Diocesano, alle proposte dei Centri Culturali cattolici, alle riviste mensili e ai libri messi a disposizione dalle librerie cattoliche o dalle biblioteche parrocchiali, ecc.).

Politica ‑ Un secondo spazio per la responsabilità evangelica dei fedeli laici è l’ambito sociale e politico. Prenderlo sul serio vuol dire partecipare «alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune» (CFL, 42 b).
A noi è chiesto di guardare avanti e di decidere che cosa vogliamo fare come cristiani perché la città dell’uomo ponga veramente la persona umana, con la sua vocazione e tutta la sua dignità, al centro dell’attività politica, sociale ed economica.
Una prima risposta riguarda la nostra progettualità pastorale. La non facile transizione ci chiede di inserire l’educazione all’impegno sociale e politico nella nostra «progettualità pastorale»: cosa che rischia, da molte parti, di essere largamente assente da decenni. Ci è chiesto coraggio per tornare a «inserire l’educazione all’impegno sociale e politico nella catechesi ordinaria dei giovani e degli adulti, avendo come riferimento la dottrina sociale della Chiesa» (d. c., 31).
Una seconda risposta consiste nello sforzo dei laici di fare discernimento e di aiutarsi vicendevolmente a metterlo in atto.
Ciò significa offrire ai fedeli laici direttamente impegnati in politica, «luoghi e opportunità di confronto tra cattolici» (ibid). Anche nella nostra Diocesi dobbiamo favorire l’esistenza di questi luoghi e di questi confronti tra fratelli nella fede. lo stesso vorrei dare una mano con qualche iniziativa concreta nel prossimo futuro.
E vuol dire, poi, prendere in esame un determinato problema, chiarirne i termini e chiedersi poi quale giudizio emerge da una seria meditazione della Parola di Dio, cosi da giungere poi a individuare qualche valido orientamento operativo (seguendo il collaudato percorso del «vedere, giudicare e agire»).
Non dimenticando che, in questi anni, l’urgenza maggiore per i cristiani che intendono impegnarsi nel socio‑politico è da riconoscere in un loro profondo rinnovamento interiore, a livello della coscienza, in particolare a proposito di virtù cardinali come la fortezza e la giustizia, che sembrano essere state particolarmente trascurate dai cristiani in questi ultimi decenni. Quanto alla fortezza, è da intendere come quella virtù capace di farci «sostenere non dico la persecuzione violenta, ma appena il disagio sociale di una certa diversità dall’ambiente che ci circonda, oppure che ci porti ad affrontare il contrasto o la disapprovazione sociale o comunitaria, per difendere esternamente una fede sentita in coscienza come cogente». E quanto alla giustizia, vi abbiamo «ancor meno insistito in quanto obbligo di veracità verso il prossimo (e di qui la tendenza a tante dissimulazioni), soprattutto non abbiamo saputo raggiungere un senso pieno della giustizia, superando una sua concezione limitata solo a certi aspetti intersoggettivi e sapendola estendere ai doveri verso le comunità più grandi in cui noi siamo inseriti» (G. Dossetti, a.c., 495 s.).


Il rischio di un quinto Vangelo
Vi è un terzo modo di intendere il riferimento al quinto Vangelo. E’ un modo notevolmente diverso da quello ora accennato, e però non contraddittorio. Si tratta del riferimento al rischio di un quinto Vangelo. Ciò avverrebbe quando il quinto Vangelo fosse una ritrascrizione dei primi quattro, soprattutto in alcuni loro passaggi, per rendere il Vangelo di 2000 anni fa più accettabile alla mentalità di oggi. Una nuova stesura che, in realtà, sarebbe la negazione di quanto sta scritto nei racconti dei quattro evangeli (cfr. G. Biffi, Il quinto Vangelo).
Noi siamo chiamati a tradurre il Vangelo, non a tradirlo. Ma non dobbiamo illuderci: le tentazioni di andare per la strada sbagliata sono sempre possibili, e talvolta sono persino incombenti. Tutti i discepoli del Signore esperimentano delle lontananze dal Signore. Diventare discepoli vuol precisamente dire accorciare tali distanze.
E se vogliamo capire che cosa questo rischio significhi, possiamo domandarlo al Vangelo stesso.
Porto tre esempi.

Discepoli ‑ Dopo la moltiplicazione dei pani e il miracolo della tempesta sedata il Vangelo ricorda che gli Apostoli non avevano capito il gesto di Gesù e che erano stati turbati dalla sua apparizione, credendolo un fantasma. E Gesù nota che essi avevano «il cuore indurito» (Marco 6,52). Vi è dunque una lontananza interiore, legata alla condizione del cuore dell’uomo. Gesù stesso dirà un giorno: E’ dall’interno che nascono le intenzioni cattive» e le azioni cattive (Marco 7,21‑23)

La nostra lontananza da Gesù è data da questo impasto di tentazioni e di intenzioni e dalle scelte che creano, nel nostro cuore e nel nostro vissuto quotidiano, un mondo distante dal Vangelo. E quando questo avviene, se vogliamo capire qualcosa di Gesù, dobbiamo mettere in conto di cambiare qualcosa del nostro cuore, e cioè convertirci.

Scribi e Farisei ‑ Erano uomini colti, e anche di una certa autorità nella società. Seguivano Gesù, ma con l’atteggiamento non di chi ascolta per capire, quanto con quello di chi sa già perfettamente bene che cosa deve pensare, e osserva ‑ anche Gesù ‑ dall’alto in basso, quasi spiandolo per poi metterlo in difficoltà.
Scribi e Farisei erano pronti a giudicare, non a impegnarsi. Non si lasciavano chiamare in causa. Anche oggi si possono vivere atteggiamenti di questo genere. E ciò che avviene a tante persone, nei confronti della Chiesa (e anche di Gesù Cristo e del Vangelo): si mettono alla finestra e stanno a guardare.
Talvolta ciò avviene loro perché indotte da esperienze negative nel rapporto con la Chiesa (e con le persone più vicine alla Chiesa o ufficialmente più rappresentative di essa); a volte avviene anche per il peso di pregiudizi alimentati dall’atmosfera che si respira ogni giorno nei vari ambienti della vita e attraverso i mass‑media, spesso scettici o subdolamente protesi a ridicolizzare scelte religiose ed etiche che si riconnettono all’insegnamento di Gesù.
Non è escluso che anche i cristiani, trovandosi ogni giorno di fronte a un mondo di questo genere, finiscano per far proprio, più o meno consapevolmente, un simile atteggiamento e che, dunque, pur dicendo di aderire al Vangelo, non ne facciano un riferimento vitale e, pur affermando di far parte della Chiesa, ne parlino come se si trattasse di altro rispetto a sé.

I parenti di Gesù ‑ Vi è ancora una risposta che si potrebbe mettere in evidenza, a proposito della «lontananza» dei discepoli da Gesù. Viene offerta, nel Vangelo, da un luogo umano dal quale mai ce lo saremmo aspettato: Il parentado di Gesù. Si racconta che un giorno, mentre Gesù era in una casa ed era attorniato da molta gente, i «suoi, sentito questo, andarono a prenderlo; poiché dicevano: “ E’ fuori di sé! “ » (Marco 3, 21).
A Gesù hanno dato del matto. Qualcuno dei suoi discepoli, non solo di ieri ma anche di oggi, può pensare: «Io sono una persona dabbene, intelligente, ho una professione, occupo dignitosamente un posto nella società. Non vorrei compromettermi con Gesù e con il suo Vangelo e prenderlo sul serio al punto che qualcuno dica, anche a me: “E’ matto! “».
Il risultato è che, in tal modo, mentre diciamo di essere credenti in Gesù e di amarlo, non vogliamo correre troppi rischi a causa sua. Siamo ancora lontani da lui.


Conclusione

La grande testimonianza di una donna di questo secolo: Madeleine Delbrél.
Questa donna si è convertita dall’ateismo e dal nichilismo attorno ai vent’anni e, da lì in avanti, per tutta la sua vita, è stata letteralmente «abbagliata» da Dio.
Poche persone io conosco che abbiano incontrato il Vangelo con tanta intensità.
Conquistata dal Vangelo, questa donna ci dice come prenderlo in mano. Lo fa con parole tutt’altro che ovvie, forse addirittura brutali. Eccole:

«Colui che lascia penetrare in sé una sola parola del Signore e che la lascia compiersi dentro la sua vita, cono­sce il Vangelo più di quegli il cui sforzo resterà meditazione astratta o considerazione storica. Il Vangelo non è fatto per spiriti in cerca di idee. E’ fatto per discepoli che vogliono obbedire.
Non bisogna arrestare questa sorta di caduta della Parola al fondo di noi stessi. Ci è necessario il coraggio passivo di lasciarla agire, in noi. “Che tutto avvenga secondo la tua parola”.

E quando una sola di queste parole avrà rubato noi a noi stessi, allora dovremo saper desiderare di comunicarla a tutti gli altri, anche se quel piccolo libro ci sembrerà immenso e tutt’intera la nostra vita minuscola, stretta ed incapace di sopportarlo.
E’ nella nostra vita, dalla mattina alla sera, che scorre, tra le rive della nostra casa, delle nostre vie, dei nostri incontri, la parola nella quale Dio vuole risiedere.
Essa vuole fecondare, modificare, rinnovare la stretta di mano che avremo da dare, lo sforzo che poniamo nei compiti che ci spettano, il nostro sguardo su coloro che incontriamo, la nostra reazione alla fatica, il nostro sussulto di fronte al dolore, lo schiudersi della nostra gioia.
Vuole stare con se stessa ovunque noi siamo con noi stessi» (Noi delle strade, pp. 76 ss passim).

Buon cammino evangelico a tutti voi.

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