IL QUINTO EVANGELI0
MONS. RENATO CORTI
vescovo di Novara
Parola di Dio e costruzione della Chiesa
La biblioteca del Vescovo del IV secolo
Come era inteso l’accostamento della Parola di
Dio
Che cosa capiva la gente?
Alcune attenzioni di metodo
L’ultimo successore di sant’Ambrogio e la
Parola di Dio
Il quinto Evangelio
I quattro Vangeli
La necessità del quinto Vangelo
Il rischio di un quinto Vangelo
Conclusione
Ho accettato volentieri di partecipare a uno di
questi vostri incontri quaresimali. L’invito di don Mirko
mi ha fatto ripensare a esperienze vissute insieme tanti anni fa,
soprattutto a livello giovanile, nella Parrocchia di Desio, dove
egli era coadiutore. E poiché questa serata è
l’ultima tra quelle programmate in preparazione alla
celebrazione della Pasqua, vi auguro di poter ricavare grande
frutto da tutto quanto vi è stato donato fin qui.
Il tema proposto si riconnette con diverse delle riflessioni
precedenti, dedicate a illustrare momenti e personaggi della vita
evangelica, come Maria di Magdala o il buon ladrone, o come la
notte drammatica di Gesù nel giardino degli ulivi. In un
certo senso, quanto io dirò può usufruire di quanto
è già stato suggerito. Il titolo di questa
relazione investe infatti ilVangelo nel suo insieme, facendo
riferimento a quinto evangelio.
A proposito del titolo, vorrei notare che ha un suo fascino e un
suo mistero; nel medesimo tempo mi sento di mettere in guardia
dal rischio di farne un gioco di parole. Non ce lo possiamo
permettere. Viviamo tempi duri (anche se belli), nei quali la
fede è messa a prova. Per i cristiani il confronto con il
Vangelo resta quindi un evento delicato e dal quale lasciarsi
realmente mettere in gioco, non accontentandosi di nessun
formalismo.
Vorrei sviluppare la riflessione in due parti. La prima consiste
nel metterci a confronto con una grande testimonianza che ci
faccia capire quale rapporto vi possa essere tra Parola di Dio e
costruzione di una comunità cristiana (e la testimonianza
è quella di sant’Ambrogio).
Nella seconda parte indicherò tre sentieri di cammino
spirituale che mi sembra suggerito dal titolo Il quinto
evangelio.
Parola di Dio e costruzione della Chiesa
Quanto ora dirò mi viene suggerito
dall’anno centenario della morte di sant’Ambrogio. In
questa Quaresima ho voluto lasciarmi ispirare da questo Santo
nello sviluppo dei Ritiri Spirituali che sto proponendo ai
Sacerdoti della Diocesi di Novara. Credo utile dirne qualcosa
anche a voi, limitandomi a far emergere ciò che egli ha da
proporci sul tema specifico che ho già indicato.
La biblioteca del Vescovo del IV secolo
Dobbiamo riconoscere che, nel IV secolo, coloro che conducevano
la comunità cristiana con la responsabilità di
Vescovi intendevano il loro ministero anzitutto e sempre come
annuncio del Regno di Dio a tutti i loro uditori. Pensando ad
Eusebio, Ambrogio, Agostino, Gaudenzio, e ad altri, mi viene da
pensare che la loro biblioteca di Vescovi doveva mettere in primo
piano i rotoli delle Sacre Scritture perché di esse sempre
intendevano parlare quando aprivano bocca. Al cuore della
missione educativa e pastorale stava il nutrimento garantito ai
fedeli con la predicazione delle Scritture (cfr. C. Pasini, l.c.,
p. 186).
Come era inteso l’accostamento della Parola di
Dio
L’accostamento della Parola di Dio era inteso in un modo
che non era né superficiale, né semplicemente
informativo: era destinato a far entrare fin nel profondo della
vita delle persone la Parola di Dio. Per questo motivo la
comunicazione della Parola tendeva a favorire, negli ascoltatori
(come già, prima, in colui che l’annunciava) una
ruminatio, così che quel nutrimento necessario e
ricchissimo venisse realmente assimilato con pazienza e costanza
attraverso una lenta e distesa meditazione. «E’
necessario ‑ diceva Ambrogio - triturare e rendere farinose
le parole delle Scritture celesti, impegnandoci con tutto
l’animo e con tutto il cuore, affinché la linfa del
cibo spirituale si diffonda in tutte le vene
dell’anima» (Caino e Abele, II, 22, SAEMO 2/I,
pp. 282 s).
Che cosa capiva la gente?
Qualcuno si è domandato che cosa poteva capire la gente
di allora di una predicazione tutta ispirata alla Scrittura. E la
risposta sembra che possa essere la seguente: certo, occorreva a
questi nostri padri nella fede una grande capacità di
adattamento all’uditorio; occorreva anche una buona
disposizione, da parte dei fedeli nei confronti di colui che
parlava. E però la comunicazione orale, fatta con
intelligenza e cuore verso persone realmente amate conduceva,
piano piano, anche la gente semplice a rendersi familiare il
testo biblico e perciò a comprendere molto di più
di quanto, a prima vista, la preparazione culturale potesse far
supporre. Ambrogio parlava al popolo, non a una élite e
«proprio la predicazione domenicale, di settimana in
settimana, a poco a poco creava nei fedeli quella conoscenza e
cultura biblica e cristiana che rendeva familiari e comprensibili
le allusioni e le connessioni che innervavano il discorso»
(C. Pasini, l.c., p. 192).
A questo proposito, si può evocare un caso emblematico:
quello di una donna del popolo, diventata alunna attenta del
Vescovo e cresciuta, proprio attraverso il suo aiuto e il suo
insegnamento, nella fede e nella maturità cristiana. Mi
riferisco a Monica, madre di Agostino, il quale era allora a
Milano come professore di retorica e non era ancora cristiano.
E’ lo stesso Agostino a parlarne nelle Confessioni:
«Già mi aveva raggiunto mia madre, che, forte della
sua pietà, mi inseguì per terra e per mare. Ella
moltiplicava le preghiere e le lacrime perché tu, o
Signore, affrettassi il tuo aiuto: con più zelo accorreva
alla chiesa, dove pendeva dalle labbra di Ambrogio, dalla fonte
dell’acqua zampillante verso la vita eterna. Amava essa
quell’uomo, come un angelo di Dio, perché sapeva che
per opera sua in quel frattempo ero arrivato a quello stato
fluttuante del dubbio, attraverso il quale sarei passato dalla
malattia alla guarigione. Per quest’uomo nutriva essa il
più grande affetto, in vista della mia salvezza, e ne era
ricambiata da lui per la sua vita religiosissima, per il suo
spirito fervente nelle buone opere, per la sua frequenza alla
chiesa: talché, quando egli mi vedeva, usciva spesso nelle
lodi di lei, congratulandosi con me che avessi una tal madre,
ignorando qual figlio essa avesse» (Confessioni, VI
1‑2).
Alcune attenzioni di metodo
E’ peraltro possibile rintracciare in Ambrogio delle
osservazioni di metodo circa la comunicazione della fede con
la parola e il suggerimento di attenzioni specifiche da avere, a
seconda che ci si rivolga a chi è ancora pagano, a chi
è ebreo e a chi deve essere istruito come catecumeno.
Ambrogio che era un fine parlatore e che rifletteva sul suo
lavoro, ricorda in una pagina della Esposizione sul Vangelo
secondo Luca, che quando qualcuno è chiamato a passare
dal paganesimo alla Chiesa dobbiamo graduare la concatenazione
degli insegnamenti, in modo tale da mostrare che «vi
è un solo Dio creatore del mondo e di tutte le cose, nel
quale viviamo e ci muoviamo» (e cita Paolo
all’areopago di Atene). Se invece si tratta di un ebreo che
si accosta al Cristianesimo, bisogna fare come gli apostoli, i
quali «dicevano loro che Gesù è il Cristo, a
noi promesso dagli oracoli dei profeti; ma non lo chiamavano
subito il Figlio di Dio, bensì l’uomo aspettato del
quale è stato detto nelle profezie. Così dunque
ricorri anche tu all’autorità della Parola di Dio
per le verità che si fa fatica a credere». E se,
infine, «deve essere istruito un catecumeno, che ormai
aspira ai sacramenti dei fedeli, bisogna dire che vi è un
solo Dio, dal quale tutto proviene e un solo Signore Gesù
Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e che il
Padre e il Figlio sono di un’unica sostanza; e che egli
è il Verbo eterno di Dio..., per poi dare la lieta notizia
che è stato crocifisso. Le altre croci non servono a
nulla, soltanto mi giova, e veramente mi giova, la croce di
Cristo, per la quale il mondo è stato crocifisso per me
come io per il mondo» (Espos. sul Vangelo di Luca, VI,
104‑107; SAEMO, 12, pp. 87‑93).
L’ultimo successore di sant’Ambrogio e la
Parola di Dio
E’ interessante constatare che quando, sedici secoli dopo,
il successore di Ambrogio intraprende il ministero episcopale a
Milano, colpisce l’opinione pubblica ecclesiale, e non,
mettendo in atto ‑ come prima iniziativa ‑ la
predicazione in Duomo della Parola di Dio, specialmente ai
giovani, con la lectio divina (o Scuola della Parola) e
che, dopo oltre quindici anni, questa esperienza continua a
caratterizzare il suo ministero episcopale.
Il quinto Evangelio
Tutto quanto ho detto a proposito di
sant’Ambrogio può guidare la nostra riflessione sul
«quinto evangelio». Vorrei dare spazio soprattutto a
tre risonanze che un simile titolo trova dentro di me.
I quattro Vangeli
A questo titolo reagisco, anzitutto, cosi: abbiamo quattro
Vangeli e sarebbe bene che ci dedicassimo a conoscerli un
po’ seriamente. Arrivare alla fine della vita, da parte di
un cristiano (anche di un prete), potendo dire: «Almeno i
Vangeli li conosco», sarebbe un grande risultato. La nostra
ignoranza può essere molto grande e lasciarci nella
più assoluta genericità anche a proposito di testi
fondamentali della tradizione cristiana.
Mi permetto, stasera, di dare brevemente la parola ai quattro
evangelisti:
Marco ‑ Marco ti dice: guarda quanto è breve
il mio Vangelo. Parte direttamente dalla vita pubblica di
Gesù. Ho proprio voluto dire solo l’essenziale
rivolgendomi a chi, provenendo dal paganesimo non aveva radici
nella storia del popolo ebreo.
Osserva come, questo piccolo Vangelo, non è forse molto
aggraziato nella sua struttura: ha un corpicino sul quale vi
è un gran testone. Gli ultimi giorni di vita di
Gesù, la sua passione e morte occupano
«sproporzionatamente» circa un terzo
dell’intero Vangelo (cfr. Marco 11‑16;cfr. B.
Rigaux, Témoinage de l’évangile de
Marc, p. 22). Volevo dire con questo che nulla vi è di
più importante per capire chi è Gesù quanto
di mettersi di fronte al mistero della sua passione e morte.
Lì si rivela Gesù, lì si rivela Dio,
lì noi siamo rivelati a noi stessi.
E osserva che, esattamente a metà del mio Vangelo, vi
è una domanda: quella posta da Gesù ai discepoli:
«Voi chi dite che io sia?» (cfr. Marco
8,27‑30) In quella domanda si riassume tutto il mio Vangelo
perché con il mio Vangelo a una cosa sola tendo: condurre
all’atto di fede in Gesù.
Se oggi ci sono ancora molti pagani, il mio piccolo Vangelo
è di attualità. Ha aiutato a credere gente che
viveva nell’antica Roma; può aiutare a credere anche
i pagani di oggi.
Luca ‑ Ti direi di non lasciarti sfuggire il fatto
che la mia testimonianza a Gesù è già
percepibile in una pagina apparentemente arida, quasi come un
elenco telefonico: quella della genealogia del Signore
Gesù Cristo (cfr. Luca 3,23‑38).
Osserva dove faccio culminare quella genealogia: con Adamo, e
cioè col primo uomo, partendo da Gesù, che è
il nuovo Adamo.
Con ciò volevo testimoniare che Gesù non è
semplicemente qualcuno che interessa i destini di un popolo
particolare, come quello ebreo; è invece colui nel quale
tutti i popoli di ogni parte della terra e di ogni tempo nella
storia possono riconoscere la presenza di Dio che salva e
recupera la vita dell’uomo dal vuoto e dal nulla, dalla
relatività e dal divenire.
E ti direi di osservare bene anche un capitolo che si trova nel
bel mezzo del mio Vangelo: il capitolo 15.
Vi sono raccontate diverse parabole (la pecora perduta, la
dramma smarrita, il figliol prodigo) ed esse sono fondamentali:
esprimono infatti con grande eloquenza che, appunto, in
Gesù si manifesta la misericordia di Dio Padre, capace e
desideroso di avvolgere con il suo amore e la sua misericordia la
vita di ogni uomo.
Se oggi vuoi dare visibilità alla testimonianza espressa
dal mio Vangelo, devi essere molto attento agli orizzonti del tuo
essere cristiano: non devi esser piccino, non devi essere chiuso,
non devi pensare il cristianesimo come ad una setta elitaria o ad
un piccolo gruppetto che sta bene con se stesso.
Matteo ‑ Matteo ti dice: osserva anche il mio
Vangelo che, come quello di Luca, comprende una genealogia. Anzi,
essa ne costituisce la prima pagina (cfr. Matteo 1,
1‑17).
Ma nota che è originale rispetto a quella di Luca: la mia
incomincia da Abramo e da Davide. Che è come dire: colui
del quale da qui in avanti si parlerà ha a che fare con la
storia del popolo ebreo anzi, della storia di quel popolo
Gesù è il vertice.
E osserva che il mio Vangelo, mentre è quello che parla
più ampiamente dell’antico popolo scelto da Dio,
è anche quello che parla di più del nuovo popolo di
Dio, che si chiama la Chiesa.
Ho voluto ordinare le molte parole di Gesù attorno a
cinque grandi discorsi: quello della montagna (Matteo
5‑7), quello della missione (Matteo 10), quello
delle parabole (Matteo 13), quello ecclesiale
(Matteo 18), quello escatologico (Matteo 25) per
dire che l’annuncio del Regno di Dio da parte di
Gesù ha creato una comunità, ha intessuto una
fraternità, ha fatto emergere un nuovo popolo, la
Chiesa.
E osserva ancora come il racconto del mio Vangelo si conclude
(cfr. Matteo 28,16‑20).
Do spazio alle parole con le quali Gesù ha chiesto a noi,
suoi discepoli, di andare in tutto il mondo e di annunciare il
Vangelo a tutte le nazioni perché, in realtà, tutto
il mondo ha un’unica vocazione: diventare, di qui
all’escatologia, la Chiesa di Gesù.
E’ quello che noi apostoli abbiamo cominciato subito a
fare, praticando a Gerusalemme, poi in Giudea, in Samaria, poi
più lontano, fino a Roma.
Se vuoi che la mia testimonianza abiti in te e in te si
manifesti, due cose dovresti decidere stasera.
La prima riguarda la missione.
Ti aggiungo che, se vuoi accogliere la testimonianza che io ti
do, mentre devi dire di si a Dio e a Gesù Cristo, devi
anche sentirti chiamato a inserirti in una comunità
concreta di fratelli che hanno aderito, con te o prima di te, a
Gesù come Maestro e Signore.
Tutto il mio Vangelo è come una lunga catechesi che ti
vuole aiutare ad approfondire il senso di appartenenza del
discepolo di Cristo e del battezzato alla Chiesa.
Non essere perciò facile nell’accettare ciò
che talvolta si dice: «Cristo sì, Chiesa no».
Il mio Vangelo, mentre conduce alla fede nel Signore Gesù,
ti conduce a scoprire che proprio Gesù ha voluto la
Chiesa, ha voluto Pietro, ha inviato i suoi discepoli, ha detto
loro: «Io sarò con voi fin alla fine del
mondo» (Matteo 28,20).
Giovanni ‑ Se vuoi accogliere la mia testimonianza,
ricorda almeno tre parole.
La prima sembrerebbe la più lontana da testi così
spirituali come i Vangeli: «carne» (in greco: sarx).
Se vuoi dare testimonianza cristiana devi testimoniare
precisamente questo: che Dio si è fatto uomo, ha preso
carne di uomo, ha dimorato in quell’uomo che si chiama
Gesù di Nazaret. Se dunque qualcuno ti dice che il
Cristianesimo (o il Vangelo) contiene delle belle idee, tu devi
dire che il Cristianesimo e il Vangelo non sono belle idee, ma il
farsi carne umana di Dio. Il Cristianesimo è concreto,
storico, umano; fin lì è arrivato Dio. Non
lasciarlo più indietro o all’esterno; sarebbe
eresia. E all’uomo di oggi mancherebbe proprio ciò
di cui ha bisogno.
La seconda parola sembra più abbordabile anche se
è sempre equivocabile: «amore».
Se vuoi accogliere la mia testimonianza devi predicare, in
parole e in opere, qual è l’unico e vero Dio:
è colui che «ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia,
ma abbia la vita eterna» (Giovanni 3,14). Predicare
il Vangelo e dare testimonianza evangelica è sempre
rivelare questo Dio. In tempo di Bosnia e di altri orrori, non
c’è bisogno urgente che i cristiani manifestino con
forza questo Dio?
La terza parola è già affiorata. E’ la
parola «mondo». Io l’adopero talvolta non per
indicare il creato, e dunque ciò che è uscito dalla
mano di Dio ed è di per sé buono, ma in un senso
negativo: identifico, con questo termine, le forze che combattono
Dio, che negano Gesù, che vogliono il male
dell’uomo.
Se vuoi accogliere la mia testimonianza, cammina avendo
coscienza che, lungo la storia umana, Cristo è combattuto
e negato, tutta l’opera di Cristo in favore
dell’uorno è combattuta e negata. Non devi
perciò avere paura della battaglia, delle prove, delle
tentazioni, delle sofferenze; non devi pretendere che tutto
proceda senza intoppi e senza insidie. Tu ricorderai piuttosto
che «tutto ciò che è nato da Dio vince il
mondo; e questa è la vittoria che vince il mondo: la
nostra fede» (1 Giovanni 5, 4).
La necessità del quinto Vangelo
Da quanto ho detto fin qui risulta con evidenza che sono i
quattro Vangeli a esigerne un quinto. E ci viene anche detto
chiaramente in che cosa consiste.
Già la prima Comunità cristiana lo ha scritto, con
la vita di tutti i giorni, e qualcosa ci viene raccontato, a tal
riguardo, negli Atti degli Apostoli. Il compito di
scriverlo tocca ad ogni generazione di cristiani, anche alla
nostra. Il quinto Vangelo è la nostra vita di uomini e di
donne che, nel secolo ventesimo, cercano di testimoniare Colui
che hanno incontrato e nel quale hanno creduto.
Leggo nel romanzo di M. Pomilio, Il quinto evangelio, nel
capitolo La mappa del cielo, la citazione dagli
Emolumenta fidei di Giustino di Poitiers (VIII sec.):
«Si dice che all’interno dei quattro Vangeli noti
è come se ce ne fosse uno ancora sconosciuto. Ma ogni
volta che la fede accenna a rifiorire, è segno che
qualcuno ha intravisto quel Vangelo» (p. 86).
Trovo significativo questo testo perché dà
evidenza al fatto che il quinto Vangelo non è un altro
rispetto ai quattro che abbiamo ricevuto, ma è la
percezione e l’assimilazione di ciò che sta nascosto
proprio in quei quattro.
E interessante anche quanto viene tratto dal Fabulario di
Gerardo da Siena (XV sec.): «Rideva un pagano dei cristiani
perché osservano un sol libro. Ma un santo vescovo, che
l’avea udito, gli contò questa novelletta:
“Una volta un dottore incontrò il Cristo
Gesù: Signore, io so bene che tu fosti il Messia e quel
che pronunziasti è pieno di sapienza. Ma come può
essere che un sol libro basti in eterno a tanta gente? Gli
rispose Gesù: Egli è vero quel che dici. Ma tu non
sai che il popol mio lo riscrive ogni di”» (p.
87).
E pure bella questa Preghiera al crocifisso di anonimo
fiammingo del XV secolo (pp. 87‑88):
Cristo non ha più mani,
ha soltanto le nostre mani,
per fare oggi le sue opere.
Cristo non ha più piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per andare oggi agli uomini.
Cristo non ha più voce,
ha soltanto la nostra voce
per parlare oggi di sé.
Cristo non ha più forze,
ha soltanto le nostre forze
per guidare gli uomini a sé.
Cristo non ha più Vangelo
che essi leggano ancora.
Ma ciò che facciamo in parole e opere
è l’evangelo che si sta scrivendo.
Se vogliamo esprimere in concreto il senso di questo
quinto Vangelo potremmo ricordare, soprattutto per voi fedeli
laici, quanto scriveva Paolo VI nella esortazione apostolica
Evangelii Nuntiandi, là dove, a proposito dei
fedeli laici, dice: «Il campo proprio della loro
attività evangelizzatrice è il mondo vasto e
complicato della politica, della realtà sociale,
dell’economia; cosi pure della cultura, delle scienze e
delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della
comunicazione sociale; ed anche delle altre realtà
particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali
l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e
degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza.
Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico,
responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati
in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover
sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta
nascosta e soffocata, tanto più queste realtà,
senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente
umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso
sconosciuta, si troveranno al servizio della edificazione del
regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù
Cristo» (n. 70; cfr. CFL, 23 i).
Sarebbe utile fermarsi su qualche esempio concreto circa il modo
di scrivere il Vangelo oggi.
Cultura ‑ Vi è un primo spazio che chiama in
causa la Chiesa, e soprattutto i fedeli laici, in favore della
persona e della società: quello della cultura.
Il Vangelo va portato dentro a tutto questo, e oggi non è
facile, se si tien conto del volto della cultura moderna che
caratterizza soprattutto l’Occidente. Essa si è
molto sviluppata, ma dissociata dalla fede cristiana.
Perciò i cristiani di oggi, come diceva Paolo VI, si
trovano dentro a quello che si può chiamare il dramma
della nostra epoca: la rottura tra fede e cultura (cfr. EN,
18‑20).
Che fare, dunque, soprattutto da parte dei fedeli laici? Essi
«devono essere presenti all’insegna del coraggio e
della creatività intellettuale, nei posti privilegiati
della cultura, quali sono il mondo della scuola e
dell’università, gli ambienti della ricerca
scientifica e tecnica, i luoghi della creazione artistica e della
riflessione umanistica» (CFL, 44 c).
E poiché i ragionamenti sull’uomo e su Dio non si
fanno solo nella scuola, ma in tutti gli ambiti della vita (per
esempio quello del lavoro), ciascun fedele laico deve attrezzarsi
per potere, in qualche misura, affrontare le domande che la vita
pone e il dialogo con i compagni o i vicini solleva. Un modo per
farlo consiste nell’utilizzare in maniera costante qualche
strumento che sia a portata di mano. Di nuovo la Parrocchia o il
Vicariato sono chiamati in causa.
Nel medesimo tempo i singoli fedeli, soprattutto in termini di
catechesi per gli adulti, sono interpellati perché non
avvenga che la loro inadeguatezza sia conseguenza dell’aver
trascurato gli aiuti «culturali» disponibili (penso
per esempio al quotidiano «Avvenire», al Settimanale
Diocesano, alle proposte dei Centri Culturali cattolici, alle
riviste mensili e ai libri messi a disposizione dalle librerie
cattoliche o dalle biblioteche parrocchiali, ecc.).
Politica ‑ Un secondo spazio per la
responsabilità evangelica dei fedeli laici è
l’ambito sociale e politico. Prenderlo sul serio vuol dire
partecipare «alla molteplice e varia azione economica,
sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a
promuovere organicamente e istituzionalmente il bene
comune» (CFL, 42 b).
A noi è chiesto di guardare avanti e di decidere che cosa
vogliamo fare come cristiani perché la città
dell’uomo ponga veramente la persona umana, con la sua
vocazione e tutta la sua dignità, al centro
dell’attività politica, sociale ed economica.
Una prima risposta riguarda la nostra progettualità
pastorale. La non facile transizione ci chiede di inserire
l’educazione all’impegno sociale e politico nella
nostra «progettualità pastorale»: cosa che
rischia, da molte parti, di essere largamente assente da decenni.
Ci è chiesto coraggio per tornare a «inserire
l’educazione all’impegno sociale e politico nella
catechesi ordinaria dei giovani e degli adulti, avendo come
riferimento la dottrina sociale della Chiesa» (d. c.,
31).
Una seconda risposta consiste nello sforzo dei laici di fare
discernimento e di aiutarsi vicendevolmente a metterlo in
atto.
Ciò significa offrire ai fedeli laici direttamente
impegnati in politica, «luoghi e opportunità di
confronto tra cattolici» (ibid). Anche nella nostra Diocesi
dobbiamo favorire l’esistenza di questi luoghi e di questi
confronti tra fratelli nella fede. lo stesso vorrei dare una mano
con qualche iniziativa concreta nel prossimo futuro.
E vuol dire, poi, prendere in esame un determinato problema,
chiarirne i termini e chiedersi poi quale giudizio emerge da una
seria meditazione della Parola di Dio, cosi da giungere poi a
individuare qualche valido orientamento operativo (seguendo il
collaudato percorso del «vedere, giudicare e
agire»).
Non dimenticando che, in questi anni, l’urgenza maggiore
per i cristiani che intendono impegnarsi nel socio‑politico
è da riconoscere in un loro profondo rinnovamento
interiore, a livello della coscienza, in particolare a proposito
di virtù cardinali come la fortezza e la giustizia, che
sembrano essere state particolarmente trascurate dai cristiani in
questi ultimi decenni. Quanto alla fortezza, è da
intendere come quella virtù capace di farci
«sostenere non dico la persecuzione violenta, ma appena il
disagio sociale di una certa diversità dall’ambiente
che ci circonda, oppure che ci porti ad affrontare il contrasto o
la disapprovazione sociale o comunitaria, per difendere
esternamente una fede sentita in coscienza come cogente». E
quanto alla giustizia, vi abbiamo «ancor meno insistito in
quanto obbligo di veracità verso il prossimo (e di qui la
tendenza a tante dissimulazioni), soprattutto non abbiamo saputo
raggiungere un senso pieno della giustizia, superando una sua
concezione limitata solo a certi aspetti intersoggettivi e
sapendola estendere ai doveri verso le comunità più
grandi in cui noi siamo inseriti» (G. Dossetti,
a.c., 495 s.).
Il rischio di un quinto Vangelo
Vi è un terzo modo di intendere il riferimento al quinto
Vangelo. E’ un modo notevolmente diverso da quello ora
accennato, e però non contraddittorio. Si tratta del
riferimento al rischio di un quinto Vangelo. Ciò
avverrebbe quando il quinto Vangelo fosse una ritrascrizione dei
primi quattro, soprattutto in alcuni loro passaggi, per rendere
il Vangelo di 2000 anni fa più accettabile alla
mentalità di oggi. Una nuova stesura che, in
realtà, sarebbe la negazione di quanto sta scritto nei
racconti dei quattro evangeli (cfr. G. Biffi, Il quinto
Vangelo).
Noi siamo chiamati a tradurre il Vangelo, non a tradirlo. Ma non
dobbiamo illuderci: le tentazioni di andare per la strada
sbagliata sono sempre possibili, e talvolta sono persino
incombenti. Tutti i discepoli del Signore esperimentano delle
lontananze dal Signore. Diventare discepoli vuol precisamente
dire accorciare tali distanze.
E se vogliamo capire che cosa questo rischio significhi,
possiamo domandarlo al Vangelo stesso.
Porto tre esempi.
Discepoli ‑ Dopo la moltiplicazione dei pani e il
miracolo della tempesta sedata il Vangelo ricorda che gli
Apostoli non avevano capito il gesto di Gesù e che erano
stati turbati dalla sua apparizione, credendolo un fantasma. E
Gesù nota che essi avevano «il cuore indurito»
(Marco 6,52). Vi è dunque una lontananza interiore,
legata alla condizione del cuore dell’uomo. Gesù
stesso dirà un giorno: E’ dall’interno che
nascono le intenzioni cattive» e le azioni cattive
(Marco 7,21‑23)
La nostra lontananza da Gesù è data da questo
impasto di tentazioni e di intenzioni e dalle scelte che creano,
nel nostro cuore e nel nostro vissuto quotidiano, un mondo
distante dal Vangelo. E quando questo avviene, se vogliamo capire
qualcosa di Gesù, dobbiamo mettere in conto di cambiare
qualcosa del nostro cuore, e cioè convertirci.
Scribi e Farisei ‑ Erano uomini colti, e anche di
una certa autorità nella società. Seguivano
Gesù, ma con l’atteggiamento non di chi ascolta per
capire, quanto con quello di chi sa già perfettamente bene
che cosa deve pensare, e osserva ‑ anche Gesù
‑ dall’alto in basso, quasi spiandolo per poi
metterlo in difficoltà.
Scribi e Farisei erano pronti a giudicare, non a impegnarsi. Non
si lasciavano chiamare in causa. Anche oggi si possono vivere
atteggiamenti di questo genere. E ciò che avviene a tante
persone, nei confronti della Chiesa (e anche di Gesù
Cristo e del Vangelo): si mettono alla finestra e stanno a
guardare.
Talvolta ciò avviene loro perché indotte da
esperienze negative nel rapporto con la Chiesa (e con le persone
più vicine alla Chiesa o ufficialmente più
rappresentative di essa); a volte avviene anche per il peso di
pregiudizi alimentati dall’atmosfera che si respira ogni
giorno nei vari ambienti della vita e attraverso i
mass‑media, spesso scettici o subdolamente protesi a
ridicolizzare scelte religiose ed etiche che si riconnettono
all’insegnamento di Gesù.
Non è escluso che anche i cristiani, trovandosi ogni
giorno di fronte a un mondo di questo genere, finiscano per far
proprio, più o meno consapevolmente, un simile
atteggiamento e che, dunque, pur dicendo di aderire al Vangelo,
non ne facciano un riferimento vitale e, pur affermando di far
parte della Chiesa, ne parlino come se si trattasse di altro
rispetto a sé.
I parenti di Gesù ‑ Vi è ancora una
risposta che si potrebbe mettere in evidenza, a proposito della
«lontananza» dei discepoli da Gesù. Viene
offerta, nel Vangelo, da un luogo umano dal quale mai ce lo
saremmo aspettato: Il parentado di Gesù. Si racconta che
un giorno, mentre Gesù era in una casa ed era attorniato
da molta gente, i «suoi, sentito questo, andarono a
prenderlo; poiché dicevano: “ E’ fuori di
sé! “ » (Marco 3, 21).
A Gesù hanno dato del matto. Qualcuno dei suoi discepoli,
non solo di ieri ma anche di oggi, può pensare: «Io
sono una persona dabbene, intelligente, ho una professione,
occupo dignitosamente un posto nella società. Non vorrei
compromettermi con Gesù e con il suo Vangelo e prenderlo
sul serio al punto che qualcuno dica, anche a me: “E’
matto! “».
Il risultato è che, in tal modo, mentre diciamo di essere
credenti in Gesù e di amarlo, non vogliamo correre troppi
rischi a causa sua. Siamo ancora lontani da lui.
Conclusione
La grande testimonianza di una donna di questo
secolo: Madeleine Delbrél.
Questa donna si è convertita dall’ateismo e dal
nichilismo attorno ai vent’anni e, da lì in avanti,
per tutta la sua vita, è stata letteralmente
«abbagliata» da Dio.
Poche persone io conosco che abbiano incontrato il Vangelo con
tanta intensità.
Conquistata dal Vangelo, questa donna ci dice come prenderlo in
mano. Lo fa con parole tutt’altro che ovvie, forse
addirittura brutali. Eccole:
«Colui che lascia penetrare in sé una
sola parola del Signore e che la lascia compiersi dentro la sua
vita, conosce il Vangelo più di quegli il cui sforzo
resterà meditazione astratta o considerazione storica. Il
Vangelo non è fatto per spiriti in cerca di idee. E’
fatto per discepoli che vogliono obbedire.
Non bisogna arrestare questa sorta di caduta della Parola al
fondo di noi stessi. Ci è necessario il coraggio passivo
di lasciarla agire, in noi. “Che tutto avvenga secondo la
tua parola”.
E quando una sola di queste parole avrà rubato noi a noi
stessi, allora dovremo saper desiderare di comunicarla a tutti
gli altri, anche se quel piccolo libro ci sembrerà immenso
e tutt’intera la nostra vita minuscola, stretta ed incapace
di sopportarlo.
E’ nella nostra vita, dalla mattina alla sera, che scorre,
tra le rive della nostra casa, delle nostre vie, dei nostri
incontri, la parola nella quale Dio vuole risiedere.
Essa vuole fecondare, modificare, rinnovare la stretta di mano
che avremo da dare, lo sforzo che poniamo nei compiti che ci
spettano, il nostro sguardo su coloro che incontriamo, la nostra
reazione alla fatica, il nostro sussulto di fronte al dolore, lo
schiudersi della nostra gioia.
Vuole stare con se stessa ovunque noi siamo con noi stessi»
(Noi delle strade, pp. 76 ss passim).
Buon cammino evangelico a tutti voi.

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