PRIGIONIERI DELLA SPERANZA

DON FRANCO GIULIO BRAMBILLA
teologo


INCONTRARE IL SIGNORE RISORTO
La cornice: sul cammino, in fuga da Gerusalemme
La presenza assente: la meraviglia incredula
La ripresa memoriale: la libertà credente dinanzi alla dedizione incondizionata
La dimora: gli si aprirono gli occhi e lo riconobbero
Il ritorno testimoniale: la comunità segno reale per ogni uomo


INCONTRARE IL SIGNORE RISORTO

L’episodio dei due discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35) presenta un’icona che tutta la tradizione considera come un testo emblematico per illustrare l’«incontro con il Signore Gesù».
In questo brano non è solo delineata la fede pasquale («Veramente il Signore è risorto!»), ma anche le condizioni per accedervi: non solo per i primi credenti, ma anche per tutte le successive generazioni cristiane, quindi anche per noi oggi. Il «riconoscimento» di Gesù risorto avviene nella memoria della vicenda Gesù («Non ci ardeva forse il cuore ... ») e nel gesto dello spezzare del pane («Allora si aprirono i loro occhi ... »). In esso si descrive l’incontro pasquale dei discepoli («li trovarono riuniti») che rende possibile il nostro attuale incontro con Lui (« ... e lo riconobbero»).
E’ possibile rintracciare nell’itinerario percorso dai discepoli di Emmaus un canovaccio in cinque tappe, che descrivono la struttura e il movimento dell’incontro con il Risorto.
Ogni tappa si articola in tre momenti tra loro profondamente intrecciati:

a) si descrive la configurazione esteriore, che consente di
b) accedere alla condizione interiore, la quale a sua volta
c) dischiude la comprensione di un aspetto dell’incontro con il Risorto.

Ogni tappa trapassa nell’altra, fornendo come una sorta di filo rosso che guida lungo il tragitto i discepoli di allora e di oggi.

Prima tappa - La cornice:
sul cammino, in fuga da Gerusalemme

L’episodio prende avvio delineando la situazione dei discepoli, di allora e di oggi. Sembra che l’attenzione dell’evangelista abbia di mira già le domande della seconda generazione cristiana, con il problema che essa ha di «accedere» all’evento pasquale, cioè di incontrare il Signore risorto. In certa misura ogni successiva generazione è nella stessa condizione della seconda generazione cristiana: lì quindi si delinea anche la nostra condizione attuale. Il discepolo di «seconda mano» (Kierkegaard) si chiede: come la Pasqua di Gesù mi raggiunge nel mio tempo? come io posso accedervi sapendo che sono collocato in un’altra epoca? come posso diventare contemporaneo del Risorto?
La cornice dell’episodio mette in luce tale situazione: ne descrive la condizione esteriore come indizio con cui accedere alla situazione interiore: qui emerge la domanda sulla realtà dell’accaduto, una domanda ancora aperta e incerta nella definitiva decifrazione del senso dell’evento.

La condizione spaziale
L’episodio si apre con la metafora del cammino, che ritorna all’inizio, al centro e alla fine del racconto (vv. 13. 32. 35). I discepoli sono in cammino, un cammino che si presenta come partenza da Gerusalemme, come movimento centrifugo rispetto al luogo dell’evento pasquale. I discepoli sono «viandanti» («due di loro erano in cammino» [Poreuómenoi], v. 13), che si allontanano da Gerusalemme. Il loro numero fa venire alla mente i settantadue discepoli inviati a due a due, nel discorso missionario di Luca: «Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Luca 10, 1). Il contesto è quello della missione universale (settantadue sono le nazioni della tavola dei popoli di Genesi 10): qui, però, il cammino non è vissuto come «invio in ogni città e luogo», bensì come fuga, come iniziativa a prescindere dalla parola del Signore che invia, come tentativo maldestro di allontanamento dal luogo da cui prende avvio la missione (Atti 1, 8). La metafora del cammino, tanto cara a Luca, dev’essere illuminata dall’incontro con Gesù, dalla assiduità alla sua parola che accompagna («mentre conversava lungo la via» [en têi odôì ],v. 32), dall’incontro con il Risorto, come un evento che sempre di nuovo accade e di cui si può/deve raccontare («riferirono ciò che era accaduto lungo la via» [en têi odôì ], v. 35). Il cammino passa dalla sua ambiguità iniziale - come fuga delusa e iniziativa precipitosa per risolvere la tragedia del fallimento della croce («in quello stesso giorno», v. 13) - ad indicare la via, sulla quale non ci si distacca dal «conversare di Gesù» e sulla quale «accade» sempre di nuovo l’incontro pasquale. La via di Gesù è la sua parola, è la sua Pasqua, che non si può oltrepassare: da essa bisogna partire, in essa è necessario rimanere, ad essa occorre introdurre ogni generazione cristiana.

La situazione spirituale
L’esteriore configurazione dell’episodio è l’indizio per comprendere la situazione spirituale dei discepoli. La loro condizione spirituale è ben descritta dalla figura del volto, dall’interruzione del cammino («si fermarono col volto triste», v. 17) e dall’incapacità a riconoscere il Signore («i loro occhi erano incapaci di riconoscerLo», v. 16). L’incapacità a riconoscere il Risorto è l’inizio della fede pasquale, è la contestazione di ogni pretesa che pensi di riconoscerlo a partire dal già noto, dagli schemi, pur inevitabili, che ci consegna l’esperienza umana e la tradizione religiosa. L’attesa e la speranza che presta credito al bisogno di una vita che si prolunghi al di là della morte, che conferisca significato ad ogni al di qua vissuto nella dedizione per l’uomo, si arrestano di fronte alla possibilità di produrre dal basso il suo darsi-a-vedere. L’andare-a-vedere il Risorto è certo un’attesa e una possibilità iscritta nel cuore dell’uomo, ma l’effettivo verder-Lo appare un oltrepassamento di quelle speranze che il cuore dell’uomo porta con sé. Per questo la sapiente mano dell’evangelista delinea con pochi tocchi d’acquerello la situazione spirituale del discepolo, in assenza dell’iniziativa del Risorto: l’occhio è la luce del volto e il varco per lo slancio del cuore. Il discepolo non può partire da solo non lo può fare lasciandosi alle spalle l’evento pasquale, rinchiuso in una pura memoria cronachistica: ad esso deve sempre ritornare come al momento sorgivo.
 
La domanda sull’evento
Alla fuga-allontanamento esterno e alla sosta delusa sul cammino corrisponde il conversare reciproco («e conversavano tra loro su tutto quanto era accaduto», v. 14): si tratta di un parlare (omileîn) l’uno all’altro e di un cercare insieme (suzeteîn) che intende riempire il vuoto lasciato dalla morte di Gesù. La parola scambiata e la comune ricerca non riesce però a sostituire la presenza del Signore: è il tentativo maldestro di riempire con i gesti che ci fanno umani (la parola e la ricerca) l’interminabile vuoto della Parola che è venuta a cercare l’uomo (Luca 19, 10). Siamo qui di fronte ad un sapere che ignora, che si dilunga «su tutto», ma non conosce la parola decisiva.
Anzi saprà contare per filo e per segno tutta quanta la vicenda terrena del profeta di Nazaret, senza la chiave che ne dischiuda la memoria viva e attualizzante. E’ un sapere petulante e smarrito ad un tempo, che provoca il viandante straniero, pretendendo di insegnargli tutto ciò che riguarda l’accaduto («tu solo [non sai] ciò che vi è accaduto», v. 18). Nel contrasto obiettivo tra il sapere dei discepoli che ignora e l’ignoranza del forestiero che rivela, si dischiude la dinamica dell’incontro con il Risorto, si apre sempre di nuovo la possibilità di verder-Lo. La debolezza di questo sapere, sostenuto invano dalla reciproca conversazione e dal cercare comune, che sa di non conoscere la cosa essenziale, è la ferita che si porta dentro ogni uomo, è la nostalgia che dischiude all’incontro.

Seconda tappa - La presenza assente:
la meraviglia incredula

A questo punto l’episodio viene toccato dalla presenza del personaggio centrale del racconto. Anche qui la condizione esteriore è il varco per comprendere la dinamica interna di questa seconda tappa del cammino incontro al Risorto, e per aprire il desiderio allo stupore.

La vicinanza proveniente
Nel groviglio del desiderio che sa e cerca, ma non trova, si fa presente il Risorto. Questo secondo momento è tutto giocato nell’intreccio tra il lettore e il discepolo. Da un lato il narratore fornisce subito una notizia che avvantaggia il lettore: «Gesù in persona si accostò» (v. 15b). Il lettore di ogni tempo che sperimenta la distanza e avanza la domanda sul «come» incontrare il Risorto è messo fin dall’inizio in condizione di conoscere che nello straniero viandante, Gesù in persona si dà a vedere: il suo svantaggio cronologico (la distanza temporale) è colmato dal sapere credente (egli sa che è Gesù in persona). Dall’altro lato, il discepolo (i due viandanti) sono avvantaggiati dalla presenza di Gesù, che si accompagna a loro. Il vantaggio del discepolo («[Gesù] camminava con loro» v. 15b) è presentato come grazia, come dono che viene dall’esterno e che in prima battuta non è colto dal loro vedere e dal loro comprendere: il vantaggio spaziale del discepolo (la compagnia di Gesù) deve superare lo svantaggio di un vedere che non crede e di un camminare che non riconosce (lo svantaggio del non sapere credente). L’effetto di questo secondo momento è così sorprendente: i personaggi dell’episodio sono figura di identificazione per il lettore, il quale sa più di loro ma non può accostarsi se non attraverso il loro cammino; i discepoli di Emmaus non sanno che è Gesù, ma lo potranno incontrare solo camminando con Lui, nell’ascolto della «parola della croce» e nello «spezzare del pane». La luce della Pasqua non esonera il lettore dal cammino del discepolo; il cammino del discepolo è figura una volta per tutte della fede pasquale di tutti.

La distanza inconsapevole
Il lettore ora sta a guardare, anzi deve identificarsi con il cammino del discepolo. Il suo esito sicuro, che gli farà incontrare «Gesù in persona», non gli fa saltare il discepolato della croce anticipando a buon prezzo una sorta di cristologia «gloriosa». Le tappe dell’itinerario della mente e del cuore dei discepoli (di Emmaus) restano iscritte a caratteri di fuoco anche per il lettore/credente di ogni generazione. Per questo sta a vedere col fiato sospeso: egli sa di più e può di meno del discepolo; tuttavia cammina accanto a chi sa di meno, ma gli sembra più avvantaggiato dalla presenza di Gesù. E così impara che la «distanza inconsapevole» è il luogo dove si dischiude il futuro del desiderio. In primo luogo, i discepoli sperimentano l’alterità del protagonista («tu solo sei straniero in Gerusalemme», v. 18): è un dato letterario assai ricorrente nei racconti pasquali, che Gesù si presenti come «forestiero», «straniero» alla coscienza dei discepoli, cioè di coloro che non solo l’hanno conosciuto, ma che sono stati a lungo segnati dalla figura dell’incontro con Lui. E’ un elemento sconvolgente per ogni mentalità empirista e razionalista, che voglia mettere al riparo qualcosa di certo prima e a prescindere dal movimento dell’affidarsi al Signore risorto, che intenda separare la scorza dell’evento dall’intenzione del suo farsi vicino e del suo accompagnarsi a noi, che pretenda di dividere il fatto dal suo significato, la storia dalla sua verità. Dall’inizio alla fine i testi pasquali mettono in luce l’indisponibilità del «farsi vedere» di Gesù (« ... erano incapaci di riconoscerlo», v. 24): ma non è un’indisponibilità che trasforma la distanza in separazione, bensì che interpreta la distanza come un accompagnarsi che si fa parola illuminante e dimora che genera comunione. Allora l’estraneità di Gesù, il suo essere forestiero per i discepoli è il modo con cui la prossimità di Gesù si fa percepibile non per un sapere che vuol possedere, calcolare, com-prendere, ma per un sapere che si affida, che lascia essere, che in-tende, in una parola per un sapere credente.

La meraviglia incredula
La direzione del cammino è dunque già tracciata, i suoi passi sono impercettibili, ma reali. Il primo passo è ancora negativo, e descrive la conversione dello sguardo che lo fa passare dalla meraviglia allo stupore. Si tratta di riscattare il cuore da una meraviglia incredula che si affida alle tracce della storia per aprirla allo stupore che vede la storia come il possibile luogo della verità di Dio: la vita non è solo il luogo dell’opacità e dell’agire degli uomini, ma è la vicenda della libertà che si sa posta e collocata in piedi dal venire di Dio. Per questo il racconto fa ascoltare al lettore la cronaca della vicenda di Gesù, messa sulla bocca dei discepoli, di quelli che lo hanno conosciuto, toccato, ascoltato, ma che non l’hanno ancora contemplato come la Parola che è e dà la vita (1 Giovanni 1,1). Gli risposero: «tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente…» (v.18): e segue un vangelo in miniatura, un racconto rapidissirno, incalzante, che però non è un annuncio «buono», ma è una cronaca senza memoria… . E’ il sommario del vangelo di Luca, è il suo scheletro dei fatti nudi e crudi separati dalla loro verità. Vi si aggiunge persino una notizia che raggiunge i discepoli e li tocca dopo e al di là della morte di Gesù: «alcune donne, delle nostre, son venute a dirci ... » (v. 22); una notizia senza «buon» annuncio, puntigliosamente verificata da coloro che sono stati mandati per gli accertamenti del caso: «alcuni dei nostri sono andati al sepolcro» (v. 24), hanno visto i segni senza fede, ma tutto si chiude su questa meraviglia incredula, sospesa, ma che si conclude con una lapidaria affermazione: «ma Lui non l'hanno visto!» (v. 24b). E’ la pietra sepolcrale di ogni tentativo che pretende di ricostruire una storia separata dalla fede!
La sapiente pedagogia del venire di Dio nella storia degli uomini dissemina il cammino dei segni dell'assenza: «alcuni dei nostri sono andati al sepolcro, e hanno trovato come avevan detto le donne» (v. 24): sono segni che vengono riferiti con distacco, quasi con sorvegliato sospetto. Le donne dicono di «aver anche avuto visioni di angeli, i quali affermano che egli è vivo!» (v. 23). La prima volta che compare l'espressione: «egli è vivo!» sembra venire come da una regione lontana, da un sapere estraneo, assai dubbio per il nostro comprendere che vuole tutto misurare, segno di una presenza inoggettivabile, che non si può afferrare. La libertà è così collocata nel suo Sabato santo: giorno del silenzio di Dio e della nostra incredulità, giorno della discontinuità tra l'agire degli uomini e l'intervento di Dio. Perché non si pensi che «il terzo giorno» stia semplicemente nella linea degli accadimenti storici, sia quel «vissero felici e contenti» che conclude tutte le storie a puntate. Il Sabato santo - l'unico giorno dell'anno liturgico in cui il segno della Chiesa è l'assenza di ogni segno - situa la libertà nel tempo del silenzio, vuoto e lacerante da un lato, pieno e invocante dall'altro. E’ il silenzio di Dio, che contiene la promessa della risurrezione e la rinascita della libertà nella fede pasquale. Tutte e due insieme.

Terza tappa - La ripresa memoriale:
la libertà credente dinanzi alla dedizione incondizionata

Il varco è aperto, la storia della fede dei discepoli è al suo punto di svolta. Sta cercando la direzione del cammino. Attende un'indicazione per ritrovare la rotta, è disponibile all'ascolto che risuoni nella notte di quel Sabato interminabile. Riprende il racconto di Luca per quel lector in evangelio che è ancora in vantaggio: egli sa che quella cronaca muta è stata narrata dinanzi a «Gesù in persona». I discepoli non lo sanno, per loro il Signore è ancora straniero. Per il lettore è un momento emozionante: egli sa che Gesù cammina con loro [e con noi] » e partecipa alla nostalgia dei discepoli per la presenza assente. Vuole che parli, ma non può che ascoltare.

La ri-conversione della fede prepasquale
La nuova sezione dell'episodio si apre immediatamente con un rimprovero e con un'interrogazione. Il rimprovero interpreta la ricerca dei discepoli, la loro memoria senza fede, come un'ottusità della mente e un ritardo del cuore («ottusi e tardi di cuore nel credere!», v. 25). Il rimprovero di Gesù ha come l'effetto di un brusco risveglio, di una voce fuori campo che risuona sulla scena di una storia, che ha chiuso i conti con la Parola che si è fatta storia. La mente si chiude e il cuore s'attarda, il sapere e il volere divergono, e non ritrovano più la loro originaria unità nel credere, nel sapere che si affida e nel decidersi che comprende. La parola dei profeti («tutto ciò che hanno detto i profeti», v. 25b), abbondantemente disseminata sulle strade della storia singolare di Israele, è stata dimenticata. In realtà è la mente e il cuore che si sono fatti remoti ad essa, che l'hanno trasformata in tranquillo possesso, che hanno costruito una maschera di Dio. Per questo la fede prepasquale dei discepoli ha da essere «ri-convertita» e «ri-presa»: Gesù in persona, Gesù risorto è l'esegeta delle Scritture in riferimento alla sua vicenda («spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a Lui», v. 27). Si stabilisce qui il circolo virtuoso perché avvenga la piena comprensione dell'agire di Dio, della storia di Gesù e dell'accoglienza dei discepoli: è la memoria Iesu. Il lettore vede in atto il processo del venire alla fede pasquale, e lo coglie in rapporto all'accompagnamento di Gesù. Egli è l'ultimo e definitivo angelus interpres (che mantiene gli altri annunciatori - gli angeli pasquali - come segni della sovrabbondante gratuità divina), perché è la Parola fatta cammino umano, perché è il Regno in atto. Agire di Dio, storia di Gesù, fede dei discepoli sono dunque da ora e per sempre raccolti e interpretati dalla sua presenza rischiarante: egli è l'esegeta umano del Dio invisibile. E la storia che «incomincia da Mosè, attraverso tutti i profeti per arrivare sino a Lui» dev'essere sempre ripercorsa, deve sempre ricominciare da capo. Il lettore è invitato a riavvolgere il suo rotolo e a ritornare indietro, incominciando dall'inizio, ora che è arrivato alla fine, ora che è accompagnato da colui che è il fine (télos), perché nel segno scritto ritrova la mappa con le indicazioni, la via con i segnali, i dubbi, le domande, le deviazioni, le ferite e le riprese, con la guida per non perdersi.

La forma della dedizione incondizionata
Accanto al rimprovero, la domanda: «non "bisognava" che il Cristo patisse, per entrare nella sua gloria?» (v. 26a). Mai domanda retorica fu così urgente! E’ Gesù che formula la domanda circa la «necessità» della sua morte. E’ l'interrogativo che attraversa ogni generazione cristiana, dinanzi al quale anche il lettore sussulta, come colpito a segno dalla domanda che lo ha visto ammutolire dinanzi alla morte di croce. A questo punto lettore e discepolo sono alla pari: e se v'è ancora un leggero vantaggio per il lettore che conosce l'identità di Colui che pone la domanda, per entrambi questo interrogativo suscita la questione decisiva.

Occorre riconoscere che il Risorto è il Crocefisso, ma non si può comprenderlo che affidandosi alla parola di Gesù che ne stabilisce l'identità. Qui la fede è sottoposta effettivamente al suo punto di massima tensione perché è messa a confronto, anzi molto più deve accogliere la verità del volto di Dio che Gesù comunica nella sua morte di croce. Egli deve distaccarsi dalla sua immagine di un Dio costruito a misura, come il Dio potente che fa scendere dalla croce il suo messia, che baratta la sfida dell'uomo, il suo rifiuto di Dio, per risparmiare il Figlio suo. Gesù risorto, l'angelo interprete, ci dice che la sua morte di croce - nella quale egli è reietto in nome di una falsa immagine di Dio - esprime la sua «dedizione incondizionata» alla causa di Dio intento all'uomo, alla figura delI'Abbà, proprio nel momento e nell'evento che costituisce il luogo del suo più radicale rifiuto. Di Dio, di questo Dio intento alla salvezza dell'uomo, completamente rivolto a lui, perché il suo desiderio sia riscattato dalla pretesa arrogante di «conoscere il bene e il male», di decidere della qualità buona e felice della sua esistenza, senza prestar credito alla promessa che si annuncia per lui, Gesù è il testimone fedele.
Egli ci invita a contemplare le piaghe del Crocefisso nel Risorto, a riconoscere, nella sua dedizione senza condizioni al volto di Dio che egli annuncia e rende presente nel suo agire, la figura insuperabile della carità di Dio. E' questa la «necessità» del dover patire di Gesù, per entrare nella gloria: non è una scelta tra la vita e la morte, tra la gioia e la sofferenza, non è un patire momentaneo per una gloria eterna, non è la logica solo naturale del morire per rinascere. Questa è la croce di Gesù: il messaggero è rifiutato perché sia respinto anche il suo messaggio. Questo appare sul proscenio della storia, questo credono di inscenare gli uomini: ma lì si gioca il dramma per il quale l'inviato si carica anche di questo (decisivo) rifiuto, perché tale immagine (ma si tratta della prossimità stessa di Dio!) è troppo importante per far ritrovare i contorni all'immagine dell'uomo ancora in cerca di volto.
Gesù si carica del rifiuto degli uomini, perché tale rifiuto non mette in angolo Dio, ma anzi ne rivela/comunica il suo volto insuperabile. Egli si colloca «al nostro posto», non per esonerarci dal «nostro posto», egli ci rappresenta perché si possa far trovare al nostro desiderio il suo «presente», il suo «proprio posto», abitato dalla promessa del compimento. Questa è la «necessità» della morte di croce, non una meccanica legge che si imporrebbe anche a Dio e al suo Cristo, ma l'insondabile gratuità dell'amore che si dilata per far spazio all'uomo, per creare i tratti della sua libertà credente, e per ricrearli quando egli si rinchiude nell'onnipotenza del suo io.

La figura della fede testimoniale
Ormai la svolta è compiuta, la riconversione della fede prepasquale, cioè della precedente identificazione del messaggio e della persona di Gesù, sottoposta alla crisi della croce, è avvenuta. La fede pasquale dei discepoli/lettori non solo è assicurata dalla attuale presenza di Gesù, che riprende sempre da capo il dover capire la necessità del morire di Gesù, ma ne costituisce anche le condizioni di accesso per i discepoli (e per il lettore di ogni tempo). Di ciò si dirà poco più avanti. Ora è importante anticipare, quanto viene detto a proposito di Gesù, compagno e interprete - e viene detto appunto con la forma di un verbo iterativo - dopo il suo ri-conoscimento. Ciò non può essere espresso che dopo l'«incontro» con Gesù risorto - il punto di vista dei discepoli che non riconoscono è mantenuto fino allo spezzare del pane - ma una volta avvenuto esso viene narrato come un «ardere del cuore» e un «attestarsi reciproco». «Non ci ardeva forse il cuore nel petto» (v. 32b): ecco la libertà ritrovata, ecco il desiderio orientato, strappato dall'ipertrofia del proprio io. Anzi è una libertà già diventata racconto, storia, testimonianza. Dal cuore «tardo» al cuore «ardente», fino al cuore che «attesta» e «racconta» («ed essi si dicevano l'un l'altro», v.32). La dinamica della fede che testimonia, che avendo trovato il «suo posto», sa «far posto» agli altri, trasmette senza tradire, si trasmette senza requisire, si fa carico della fede altrui, per riportare al centro dell’incondizionata verità di Gesù.

Quarta tappa - La dimora:
gli si aprirono gli occhi e lo riconobbero

A questo punto il lettore si aspetta che Gesù in persona si riveli. Egli si è immerso nella conversazione di Gesù con i discepoli, si è lasciato scaldare il cuore e illuminare la mente dalla sua parola e attende che il rivelarsi di Gesù ai discepoli colmi quella distanza che lo separa dal testimone della prima ora. Ma la scena sembra mutare...

I cammini divergenti
«Quando furono vicini al villaggio, dove erano diretti» (v. 28a). Anche dal punto di vista narrativo il racconto sembra raggiungere la meta del viaggio di fuga - probabilmente la casa e il lavoro usato dei due discepoli, che s'erano lasciati affascinare dalla grande illusione del maestro di Nazaret. La parola di Gesù ha forse insinuato una fessura nella loro delusione. Ma ciò non è bastato. Il contatto con Gesù sembra destinato ad essere un incontro senza storia misterioso fin che si vuole, uno di quei contatti «estranei» che restano come una labile traccia sul fondo della memoria. Il personaggio, ancora misterioso per i discepoli, «fece come se dovesse andare più lontano» (v. 28 b). Gesù sembra partire per un lungo viaggio. E’ questo un modo di dire che ricorre spesso nel vangelo: il padrone si assenta per un lungo viaggio, il signore della vigna ritorna solo alla fine della giornata, il buon samaritano salderà il conto «al suo ritorno». E' come se si aprisse uno spazio per introdurre il «nostro posto». Gesù se ne va, ma per ritornare, perché tutti coloro che vengono dopo trovino lo spazio per incontrarlo. Anche la determinazione di tempo va nella stessa direzione. A noi può apparire un tempo interminabile, ma ormai è il tramonto del giorno, il tempo che s'è fatto breve. Viene ad espressione la coscienza dei primi credenti che dopo la Pasqua il tempo si è contratto. E’ il tempo di un'assenza che muta la qualità della storia della Chiesa, è il tempo dell'attesa ardente per il ritorno dello sposo: «perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (v. 29b). Tramonto del giorno, sera della storia, che attende l'aurora del giorno senza fine. Il lettore di ogni tempo vi riconosce senza difficoltà il proprio posto, collocato tra la Pasqua e il ritorno del Signore.

L'invocazione esaudita
Non è però un tempo vuoto. La cornice spaziale e temporale delinea ancora una volta la condizione spirituale dei discepoli. E’ il tempo della Chiesa, è il tempo dell'ospitalità, in cui far spazio alla presenza di Gesù nel segno della parola che interpreta e del pane che è offerto. Il racconto raggiunge il culmine: «ma essi insistettero: "resta con noi"» (v. 29a). I discepoli (Chiesa) si fermano presso la loro casa, nella quale forse domani riprenderanno il loro lavoro per tentare di dimenticare l'avventura trascorsa con il profeta di Nazaret, meteora fra le molte che ha illuminato con il suo bagliore l'oscurità della storia. Al viandante straniero - che sembra portare, come da una regione lontana, parole che interpretano i fatti luttuosi degli ultimi giorni - vogliono offrire almeno l'ospitalità per quella sera. L’insistenza tutta orientale a «restare» è già nel racconto diventata un'invocazione a «rimanere», è diventata nostalgia della dimora. L'invocazione nostalgica di Israele di entrare nella comunione con Dio raggiunge il punto di massima tensione. E qui avviene la svolta: nel personaggio misterioso, che proviene da una regione straniera, Dio prende dimora tra gli uomini: «Egli entrò per dimorare con loro» (v. 29c). L'uomo crede di far spazio a Dio. La sua libertà deve uscire - sforzo supremo – da se stessa, per ospitare il suo mistero, ma nel momento decisivo scopre di essere già sin dall'inizio ospitata dalla compagnia di Dio, dalla sua volontà di prendere dimora fra gli uomini. Il desiderio dell'uomo, quando arrischia il cammino dell'ospitalità al mistero di Dio, scopre di essere sin dall'origine da lui ospitato, anzi ritrova il luogo - gratuità originaria - dove potrà incontrare il Risorto per sempre: «quando fu a tavola con loro, prese il
pane, disse la benedizione, lo spezzò, lo diede loro» (v. 30). L'ospitalità si fa commensalità: i discepoli-chiesa invitano, ma è il Signore Risorto che presiede alla cena, che è in mezzo a loro come colui che serve. Nel grembo della Chiesa si rende presente il gesto pasquale di Gesù, connotato con i verbi che la tradizione liturgica della Chiesa primitiva ha già cristallizzato nell'esperienza di commensali con il Risorto. Incontrare il Risorto significa ospitarlo dentro lo spazio della propria libertà in cammino.

Per ri-conoscere l'origine
Ora il punto di vista del discepolo e il punto di vista del lettore sono perfettamente coincidenti: il relativo vantaggio è azzerato, il diverso svantaggio è colmato. L'intreccio delle due condizioni spazio-temporali e delle due situazioni spirituali è perfetto. Con veloci tratti l'azione si scioglie e le strade si intrecciano. Il discepolo di prima mano perviene all'incontro con il Signore risorto: «allora si aprirono i loro occhi e lo ri-conobbero» (v. 31 a), ma è collocato nella stessa condizione del lettore di sempre: «ma egli sparì dalla loro vista» (v. 31 b). Il venire-alla-fede dei discepoli e il darsi-a-vedere del Risorto ora ha la medesima struttura per il discepolo originario e per il discepolo di seconda mano: l'aprirsi degli occhi consente di riconoscerLo, ma egli sparisce dalla loro vista; non si può riconoscere il Risorto che nella forma della fede. Il lettore è ora nella stessa condizione del discepolo originario, anzi può egli stesso diventare discepolo. La fede del discepolo/lettore si affida ai segni dell'identità del Crocifisso e del Risorto e riconosce il «Mio Signore e mio Dio». Riconoscere l'origine, cioè la potenza salvifica di Dio nel gesto del povero e indifeso amore di Gesù che si affida in radicale abbandono al Padre, significa riconoscerLo come Risorto. Per questo egli sparisce dalla loro vista, non solo perché non è più visibile nella forma storica, ma molto di più perché è accessibile soltanto nella forma della libertà che si affida al movimento della sua obbedienza filiale. Agli occhi che si aprono egli si sottrae, perché lo possano riconoscere da ora e per sempre nella duplice mensa della parola e del pane. Una volta e per tutte custodito nel povero e indifeso gesto dello spezzare del pane.

Quinta tappa - Il ritorno testimoniale:
la comunità segno reale per ogni uomo

L'azione ora si snoda con una scioltezza sorprendente. I discepoli si attestano reciprocamente che la parola di Gesù ha loro illuminato la mente e il cuore (cfr. sopra). Lo riconoscono al passato («non ci ardeva il cuore, mentre conversava con noi», v. 32), lo narrano al presente, gioisce con loro il lettore di ogni tempo. Solo dopo l'apertura degli occhi (della fede) nello spezzare del pane, la parola interpretante può essere riconosciuta come una compagnia ermeneutica che non termina. Anzi essa è sorgente di un impulso da cui si sprigiona un'interminabile testimonianza.

La ripresa della missione
Il senso del cammino dei discepoli è ora capovolto: all'inizio il viaggio è in realtà una fuga; alla fine il ritorno è in verità l'avvio della missione. Per questo Luca connota il loro ritorno con i tratti degli evangelizzatori della prima ora: Maria, i pastori, i poveri del vangelo dell'infanzia, i discepoli della Chiesa primitiva («partirono senza indugio», v. 33a). C'è un insopprimibile andare di chi ha riconosciuto e di chi ha trovato, v'è un inarrestabile slancio che proviene dall'aver visto il Risorto. L’evangelizzatore di Luca è uno che ha fretta, che si muove senz'indugio (Luca 10). La premura è segno di una libertà ritrovata, di una scioltezza che ha liberato il proprio desiderio dalle pastoie di una ricerca ripiegata su di sé e l'ha immesso nel mare aperto della testimonianza. Il lettore qui si sente addirittura in vantaggio sui discepoli. Egli sa quanta strada ha già fatto quel messaggio, quante persone ha già coinvolto quella comunione. Egli conosce la lunga nube di testimoni che si sono collocati nella scia di quella missione. Eppure egli sa anche che non è una missione in proprio, non è una parola che è proprietà privata, non è un messaggio geniale di cui si è titolari. Perciò i discepoli «fecero ritorno a Gerusalemme» (v. 33a): la parola trasmessa dev'essere la parola ricevuta, dev'essere continuamente confrontata con le «colonne della Chiesa», può succedere alla Pasqua, solo perché continua a far ritorno a Gerusalemme.

La continuità della tradizione
«Trovarono riuniti gli Undici» (v. 33b): la missione deve ritornare continuamente alla sorgente, anzi propriamente fa accedere tutti gli altri all'origine. Essa prolunga la Pasqua di Gesù per ogni tempo, in quanto fa accedere ogni uomo e donna al mistero di Dio nel gesto della cena pasquale. Perciò i discepoli trovarono anche «gli altri che erano riuniti con loro» (v. 33b). L’evangelizzazione premurosa (antica e nuova) è sempre e solo momento della comunione e la comunione è la legge della missione. Il discepolo del Nuovo Testamento non è un profeta isolato, un inviato in proprio: anche quando è un pioniere lo è come espressione della comunità. La missione è dunque continuità della tradizione. E la tradizione non è solo le «cose trasmesse», ma è anche l'«atto di trasmettere», è tradizione vivente, che i credenti, i contemplativi, gli evangelizzatori, gli uomini e le donne della carità, i missionari, i pastori, i teologi attestano in una corale testimonianza. Occorre trasmettere senza tradire, tradurre senza corrompere, consegnare senza sequestrare.

La confessione della fede pasquale
Pertanto come perla preziosa, nel luogo in cui resta per sempre collocata, nel tempo a cui rimane permanentemente vincolata, nella forma che abbiamo ricevuto e che continuiamo a trasmettere, sulla bocca del ministero che serve alla carità della comunione, alla fine del racconto esplode la fede pasquale nella sua cristallina e insuperabile purezza: «Veramente il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (v. 34). I discepoli hanno incontrato il Risorto, il lettore con loro e come loro si è fatto discepolo, tutti quelli di prima e seconda mano, ieri, oggi e domani, ritornano a dire l'unicità insuperabile della Pasqua di Gesù, la piena testimonianza della sua risurrezione, luogo in cui si è rivelato e donato il volto di Dio e la pienezza dell'immagine dell'uomo, una volta e sempre collegati e collocati nella figura credente della libertà di Gesù. La sua dedizione incondizionata a Dio e a noi, fino alla morte e alla morte di croce.

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