PRIGIONIERI DELLA SPERANZA
DON FRANCO GIULIO BRAMBILLA
teologo
INCONTRARE IL SIGNORE RISORTO
La cornice: sul cammino, in fuga da
Gerusalemme
La presenza assente: la meraviglia
incredula
La ripresa memoriale: la libertà
credente dinanzi alla dedizione incondizionata
La dimora: gli si aprirono gli occhi e lo
riconobbero
Il ritorno testimoniale: la comunità
segno reale per ogni uomo
INCONTRARE IL SIGNORE RISORTO
L’episodio dei due discepoli di Emmaus (Luca
24, 13-35) presenta un’icona che tutta la tradizione
considera come un testo emblematico per illustrare
l’«incontro con il Signore Gesù».
In questo brano non è solo delineata la fede pasquale
(«Veramente il Signore è risorto!»), ma anche
le condizioni per accedervi: non solo per i primi credenti, ma
anche per tutte le successive generazioni cristiane, quindi anche
per noi oggi. Il «riconoscimento» di Gesù
risorto avviene nella memoria della vicenda Gesù
(«Non ci ardeva forse il cuore ... ») e nel gesto
dello spezzare del pane («Allora si aprirono i loro occhi
... »). In esso si descrive l’incontro pasquale dei
discepoli («li trovarono riuniti») che rende
possibile il nostro attuale incontro con Lui (« ... e lo
riconobbero»).
E’ possibile rintracciare nell’itinerario percorso
dai discepoli di Emmaus un canovaccio in cinque tappe, che
descrivono la struttura e il movimento dell’incontro con il
Risorto.
Ogni tappa si articola in tre momenti tra loro profondamente
intrecciati:
a) si descrive la configurazione esteriore, che
consente di
b) accedere alla condizione interiore, la quale a sua volta
c) dischiude la comprensione di un aspetto dell’incontro
con il Risorto.
Ogni tappa trapassa nell’altra, fornendo come una sorta di
filo rosso che guida lungo il tragitto i discepoli di allora e di
oggi.
Prima tappa - La cornice:
sul cammino, in fuga da Gerusalemme
L’episodio prende avvio delineando la
situazione dei discepoli, di allora e di oggi. Sembra che
l’attenzione dell’evangelista abbia di mira
già le domande della seconda generazione cristiana, con il
problema che essa ha di «accedere» all’evento
pasquale, cioè di incontrare il Signore risorto. In certa
misura ogni successiva generazione è nella stessa
condizione della seconda generazione cristiana: lì quindi
si delinea anche la nostra condizione attuale. Il discepolo di
«seconda mano» (Kierkegaard) si chiede: come la
Pasqua di Gesù mi raggiunge nel mio tempo? come io posso
accedervi sapendo che sono collocato in un’altra epoca?
come posso diventare contemporaneo del Risorto?
La cornice dell’episodio mette in luce tale situazione: ne
descrive la condizione esteriore come indizio con cui accedere
alla situazione interiore: qui emerge la domanda sulla
realtà dell’accaduto, una domanda ancora aperta e
incerta nella definitiva decifrazione del senso
dell’evento.
La condizione spaziale
L’episodio si apre con la metafora del cammino, che
ritorna all’inizio, al centro e alla fine del racconto (vv.
13. 32. 35). I discepoli sono in cammino, un cammino che si
presenta come partenza da Gerusalemme, come movimento centrifugo
rispetto al luogo dell’evento pasquale. I discepoli sono
«viandanti» («due di loro erano in
cammino» [Poreuómenoi], v. 13), che si allontanano
da Gerusalemme. Il loro numero fa venire alla mente i settantadue
discepoli inviati a due a due, nel discorso missionario di Luca:
«Dopo questi fatti il Signore designò altri
settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a
sé in ogni città e luogo dove stava per
recarsi» (Luca 10, 1). Il contesto è quello
della missione universale (settantadue sono le nazioni della
tavola dei popoli di Genesi 10): qui, però, il
cammino non è vissuto come «invio in ogni
città e luogo», bensì come fuga, come
iniziativa a prescindere dalla parola del Signore che invia, come
tentativo maldestro di allontanamento dal luogo da cui prende
avvio la missione (Atti 1, 8). La metafora del cammino,
tanto cara a Luca, dev’essere illuminata
dall’incontro con Gesù, dalla assiduità alla
sua parola che accompagna («mentre conversava lungo la
via» [en têi odôì ],v. 32),
dall’incontro con il Risorto, come un evento che sempre di
nuovo accade e di cui si può/deve raccontare
(«riferirono ciò che era accaduto lungo la
via» [en têi odôì ], v. 35). Il cammino
passa dalla sua ambiguità iniziale - come fuga delusa e
iniziativa precipitosa per risolvere la tragedia del fallimento
della croce («in quello stesso giorno», v. 13) - ad
indicare la via, sulla quale non ci si distacca dal
«conversare di Gesù» e sulla quale
«accade» sempre di nuovo l’incontro pasquale.
La via di Gesù è la sua parola, è la sua
Pasqua, che non si può oltrepassare: da essa bisogna
partire, in essa è necessario rimanere, ad essa occorre
introdurre ogni generazione cristiana.
La situazione spirituale
L’esteriore configurazione dell’episodio
è l’indizio per comprendere la situazione spirituale
dei discepoli. La loro condizione spirituale è ben
descritta dalla figura del volto, dall’interruzione del
cammino («si fermarono col volto triste», v. 17) e
dall’incapacità a riconoscere il Signore («i
loro occhi erano incapaci di riconoscerLo», v. 16).
L’incapacità a riconoscere il Risorto è
l’inizio della fede pasquale, è la contestazione di
ogni pretesa che pensi di riconoscerlo a partire dal già
noto, dagli schemi, pur inevitabili, che ci consegna
l’esperienza umana e la tradizione religiosa.
L’attesa e la speranza che presta credito al bisogno di una
vita che si prolunghi al di là della morte, che conferisca
significato ad ogni al di qua vissuto nella dedizione per
l’uomo, si arrestano di fronte alla possibilità di
produrre dal basso il suo darsi-a-vedere. L’andare-a-vedere
il Risorto è certo un’attesa e una
possibilità iscritta nel cuore dell’uomo, ma
l’effettivo verder-Lo appare un oltrepassamento di quelle
speranze che il cuore dell’uomo porta con sé. Per
questo la sapiente mano dell’evangelista delinea con pochi
tocchi d’acquerello la situazione spirituale del discepolo,
in assenza dell’iniziativa del Risorto: l’occhio
è la luce del volto e il varco per lo slancio del cuore.
Il discepolo non può partire da solo non lo può
fare lasciandosi alle spalle l’evento pasquale, rinchiuso
in una pura memoria cronachistica: ad esso deve sempre ritornare
come al momento sorgivo.
La domanda sull’evento
Alla fuga-allontanamento esterno e alla sosta delusa sul
cammino corrisponde il conversare reciproco («e
conversavano tra loro su tutto quanto era accaduto», v.
14): si tratta di un parlare (omileîn) l’uno
all’altro e di un cercare insieme (suzeteîn)
che intende riempire il vuoto lasciato dalla morte di
Gesù. La parola scambiata e la comune ricerca non riesce
però a sostituire la presenza del Signore: è il
tentativo maldestro di riempire con i gesti che ci fanno umani
(la parola e la ricerca) l’interminabile vuoto della Parola
che è venuta a cercare l’uomo (Luca 19, 10).
Siamo qui di fronte ad un sapere che ignora, che si dilunga
«su tutto», ma non conosce la parola decisiva.
Anzi saprà contare per filo e per segno tutta quanta la
vicenda terrena del profeta di Nazaret, senza la chiave che ne
dischiuda la memoria viva e attualizzante. E’ un sapere
petulante e smarrito ad un tempo, che provoca il viandante
straniero, pretendendo di insegnargli tutto ciò che
riguarda l’accaduto («tu solo [non sai] ciò
che vi è accaduto», v. 18). Nel contrasto obiettivo
tra il sapere dei discepoli che ignora e l’ignoranza del
forestiero che rivela, si dischiude la dinamica
dell’incontro con il Risorto, si apre sempre di nuovo la
possibilità di verder-Lo. La debolezza di questo sapere,
sostenuto invano dalla reciproca conversazione e dal cercare
comune, che sa di non conoscere la cosa essenziale, è la
ferita che si porta dentro ogni uomo, è la nostalgia che
dischiude all’incontro.
Seconda tappa - La presenza assente:
la meraviglia incredula
A questo punto l’episodio viene toccato dalla
presenza del personaggio centrale del racconto. Anche qui la
condizione esteriore è il varco per comprendere la
dinamica interna di questa seconda tappa del cammino incontro al
Risorto, e per aprire il desiderio allo stupore.
La vicinanza proveniente
Nel groviglio del desiderio che sa e cerca, ma non trova, si
fa presente il Risorto. Questo secondo momento è tutto
giocato nell’intreccio tra il lettore e il discepolo. Da un
lato il narratore fornisce subito una notizia che avvantaggia il
lettore: «Gesù in persona si accostò»
(v. 15b). Il lettore di ogni tempo che sperimenta la distanza e
avanza la domanda sul «come» incontrare il Risorto
è messo fin dall’inizio in condizione di conoscere
che nello straniero viandante, Gesù in persona si
dà a vedere: il suo svantaggio cronologico (la distanza
temporale) è colmato dal sapere credente (egli sa che
è Gesù in persona). Dall’altro lato, il
discepolo (i due viandanti) sono avvantaggiati dalla presenza di
Gesù, che si accompagna a loro. Il vantaggio del discepolo
(«[Gesù] camminava con loro» v. 15b) è
presentato come grazia, come dono che viene dall’esterno e
che in prima battuta non è colto dal loro vedere e dal
loro comprendere: il vantaggio spaziale del discepolo (la
compagnia di Gesù) deve superare lo svantaggio di un
vedere che non crede e di un camminare che non riconosce (lo
svantaggio del non sapere credente). L’effetto di questo
secondo momento è così sorprendente: i personaggi
dell’episodio sono figura di identificazione per il
lettore, il quale sa più di loro ma non può
accostarsi se non attraverso il loro cammino; i discepoli di
Emmaus non sanno che è Gesù, ma lo potranno
incontrare solo camminando con Lui, nell’ascolto della
«parola della croce» e nello «spezzare del
pane». La luce della Pasqua non esonera il lettore dal
cammino del discepolo; il cammino del discepolo è figura
una volta per tutte della fede pasquale di tutti.
La distanza inconsapevole
Il lettore ora sta a guardare, anzi deve identificarsi con il
cammino del discepolo. Il suo esito sicuro, che gli farà
incontrare «Gesù in persona», non gli fa
saltare il discepolato della croce anticipando a buon prezzo una
sorta di cristologia «gloriosa». Le tappe
dell’itinerario della mente e del cuore dei discepoli (di
Emmaus) restano iscritte a caratteri di fuoco anche per il
lettore/credente di ogni generazione. Per questo sta a vedere col
fiato sospeso: egli sa di più e può di meno del
discepolo; tuttavia cammina accanto a chi sa di meno, ma gli
sembra più avvantaggiato dalla presenza di Gesù. E
così impara che la «distanza inconsapevole»
è il luogo dove si dischiude il futuro del desiderio. In
primo luogo, i discepoli sperimentano l’alterità del
protagonista («tu solo sei straniero in Gerusalemme»,
v. 18): è un dato letterario assai ricorrente nei racconti
pasquali, che Gesù si presenti come
«forestiero», «straniero» alla coscienza
dei discepoli, cioè di coloro che non solo l’hanno
conosciuto, ma che sono stati a lungo segnati dalla figura
dell’incontro con Lui. E’ un elemento sconvolgente
per ogni mentalità empirista e razionalista, che voglia
mettere al riparo qualcosa di certo prima e a prescindere dal
movimento dell’affidarsi al Signore risorto, che intenda
separare la scorza dell’evento dall’intenzione del
suo farsi vicino e del suo accompagnarsi a noi, che pretenda di
dividere il fatto dal suo significato, la storia dalla sua
verità. Dall’inizio alla fine i testi pasquali
mettono in luce l’indisponibilità del «farsi
vedere» di Gesù (« ... erano incapaci di
riconoscerlo», v. 24): ma non è
un’indisponibilità che trasforma la distanza in
separazione, bensì che interpreta la distanza come un
accompagnarsi che si fa parola illuminante e dimora che genera
comunione. Allora l’estraneità di Gesù, il
suo essere forestiero per i discepoli è il modo con cui la
prossimità di Gesù si fa percepibile non per un
sapere che vuol possedere, calcolare, com-prendere, ma per un
sapere che si affida, che lascia essere, che in-tende, in una
parola per un sapere credente.
La meraviglia incredula
La direzione del cammino è dunque già tracciata, i
suoi passi sono impercettibili, ma reali. Il primo passo è
ancora negativo, e descrive la conversione dello sguardo che lo
fa passare dalla meraviglia allo stupore. Si tratta di riscattare
il cuore da una meraviglia incredula che si affida alle tracce
della storia per aprirla allo stupore che vede la storia come il
possibile luogo della verità di Dio: la vita non è
solo il luogo dell’opacità e dell’agire degli
uomini, ma è la vicenda della libertà che si sa
posta e collocata in piedi dal venire di Dio. Per questo il
racconto fa ascoltare al lettore la cronaca della vicenda di
Gesù, messa sulla bocca dei discepoli, di quelli che lo
hanno conosciuto, toccato, ascoltato, ma che non l’hanno
ancora contemplato come la Parola che è e dà la
vita (1 Giovanni 1,1). Gli risposero: «tutto ciò che
riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta
potente…» (v.18): e segue un vangelo in miniatura,
un racconto rapidissirno, incalzante, che però non
è un annuncio «buono», ma è una cronaca
senza memoria… . E’ il sommario del vangelo di Luca,
è il suo scheletro dei fatti nudi e crudi separati dalla
loro verità. Vi si aggiunge persino una notizia che
raggiunge i discepoli e li tocca dopo e al di là della
morte di Gesù: «alcune donne, delle nostre, son
venute a dirci ... » (v. 22); una notizia senza
«buon» annuncio, puntigliosamente verificata da
coloro che sono stati mandati per gli accertamenti del caso:
«alcuni dei nostri sono andati al sepolcro» (v. 24),
hanno visto i segni senza fede, ma tutto si chiude su questa
meraviglia incredula, sospesa, ma che si conclude con una
lapidaria affermazione: «ma Lui non l'hanno visto!»
(v. 24b). E’ la pietra sepolcrale di ogni tentativo che
pretende di ricostruire una storia separata dalla fede!
La sapiente pedagogia del venire di Dio nella storia degli uomini
dissemina il cammino dei segni dell'assenza: «alcuni dei
nostri sono andati al sepolcro, e hanno trovato come avevan detto
le donne» (v. 24): sono segni che vengono riferiti con
distacco, quasi con sorvegliato sospetto. Le donne dicono di
«aver anche avuto visioni di angeli, i quali affermano che
egli è vivo!» (v. 23). La prima volta che compare
l'espressione: «egli è vivo!» sembra venire
come da una regione lontana, da un sapere estraneo, assai dubbio
per il nostro comprendere che vuole tutto misurare, segno di una
presenza inoggettivabile, che non si può afferrare. La
libertà è così collocata nel suo Sabato
santo: giorno del silenzio di Dio e della nostra
incredulità, giorno della discontinuità tra l'agire
degli uomini e l'intervento di Dio. Perché non si pensi
che «il terzo giorno» stia semplicemente nella linea
degli accadimenti storici, sia quel «vissero felici e
contenti» che conclude tutte le storie a puntate. Il Sabato
santo - l'unico giorno dell'anno liturgico in cui il segno della
Chiesa è l'assenza di ogni segno - situa la libertà
nel tempo del silenzio, vuoto e lacerante da un lato, pieno e
invocante dall'altro. E’ il silenzio di Dio, che contiene
la promessa della risurrezione e la rinascita della
libertà nella fede pasquale. Tutte e due insieme.
Terza tappa - La ripresa memoriale:
la libertà credente dinanzi alla dedizione
incondizionata
Il varco è aperto, la storia della fede dei
discepoli è al suo punto di svolta. Sta cercando la
direzione del cammino. Attende un'indicazione per ritrovare la
rotta, è disponibile all'ascolto che risuoni nella notte
di quel Sabato interminabile. Riprende il racconto di Luca per
quel lector in evangelio che è ancora in vantaggio:
egli sa che quella cronaca muta è stata narrata dinanzi a
«Gesù in persona». I discepoli non lo sanno,
per loro il Signore è ancora straniero. Per il lettore
è un momento emozionante: egli sa che Gesù cammina
con loro [e con noi] » e partecipa alla nostalgia dei
discepoli per la presenza assente. Vuole che parli, ma non
può che ascoltare.
La ri-conversione della fede prepasquale
La nuova sezione dell'episodio si apre immediatamente con un
rimprovero e con un'interrogazione. Il rimprovero interpreta la
ricerca dei discepoli, la loro memoria senza fede, come
un'ottusità della mente e un ritardo del cuore
(«ottusi e tardi di cuore nel credere!», v. 25). Il
rimprovero di Gesù ha come l'effetto di un brusco
risveglio, di una voce fuori campo che risuona sulla scena di una
storia, che ha chiuso i conti con la Parola che si è fatta
storia. La mente si chiude e il cuore s'attarda, il sapere e il
volere divergono, e non ritrovano più la loro originaria
unità nel credere, nel sapere che si affida e nel
decidersi che comprende. La parola dei profeti («tutto
ciò che hanno detto i profeti», v. 25b),
abbondantemente disseminata sulle strade della storia singolare
di Israele, è stata dimenticata. In realtà è
la mente e il cuore che si sono fatti remoti ad essa, che l'hanno
trasformata in tranquillo possesso, che hanno costruito una
maschera di Dio. Per questo la fede prepasquale dei discepoli ha
da essere «ri-convertita» e «ri-presa»:
Gesù in persona, Gesù risorto è l'esegeta
delle Scritture in riferimento alla sua vicenda
(«spiegò loro in tutte le Scritture ciò che
si riferiva a Lui», v. 27). Si stabilisce qui il circolo
virtuoso perché avvenga la piena comprensione dell'agire
di Dio, della storia di Gesù e dell'accoglienza dei
discepoli: è la memoria Iesu. Il lettore vede in
atto il processo del venire alla fede pasquale, e lo coglie in
rapporto all'accompagnamento di Gesù. Egli è
l'ultimo e definitivo angelus interpres (che mantiene gli
altri annunciatori - gli angeli pasquali - come segni della
sovrabbondante gratuità divina), perché è la
Parola fatta cammino umano, perché è il Regno in
atto. Agire di Dio, storia di Gesù, fede dei discepoli
sono dunque da ora e per sempre raccolti e interpretati dalla sua
presenza rischiarante: egli è l'esegeta umano del Dio
invisibile. E la storia che «incomincia da Mosè,
attraverso tutti i profeti per arrivare sino a Lui»
dev'essere sempre ripercorsa, deve sempre ricominciare da capo.
Il lettore è invitato a riavvolgere il suo rotolo e a
ritornare indietro, incominciando dall'inizio, ora che è
arrivato alla fine, ora che è accompagnato da colui che
è il fine (télos), perché nel segno
scritto ritrova la mappa con le indicazioni, la via con i
segnali, i dubbi, le domande, le deviazioni, le ferite e le
riprese, con la guida per non perdersi.
La forma della dedizione incondizionata
Accanto al rimprovero, la domanda: «non "bisognava"
che il Cristo patisse, per entrare nella sua gloria?» (v.
26a). Mai domanda retorica fu così urgente! E’
Gesù che formula la domanda circa la
«necessità» della sua morte. E’
l'interrogativo che attraversa ogni generazione cristiana,
dinanzi al quale anche il lettore sussulta, come colpito a segno
dalla domanda che lo ha visto ammutolire dinanzi alla morte di
croce. A questo punto lettore e discepolo sono alla pari: e se
v'è ancora un leggero vantaggio per il lettore che conosce
l'identità di Colui che pone la domanda, per entrambi
questo interrogativo suscita la questione decisiva.
Occorre riconoscere che il Risorto è il Crocefisso, ma non
si può comprenderlo che affidandosi alla parola di
Gesù che ne stabilisce l'identità. Qui la fede
è sottoposta effettivamente al suo punto di massima
tensione perché è messa a confronto, anzi molto
più deve accogliere la verità del volto di Dio che
Gesù comunica nella sua morte di croce. Egli deve
distaccarsi dalla sua immagine di un Dio costruito a misura, come
il Dio potente che fa scendere dalla croce il suo messia, che
baratta la sfida dell'uomo, il suo rifiuto di Dio, per
risparmiare il Figlio suo. Gesù risorto, l'angelo
interprete, ci dice che la sua morte di croce - nella quale egli
è reietto in nome di una falsa immagine di Dio - esprime
la sua «dedizione incondizionata» alla causa di Dio
intento all'uomo, alla figura delI'Abbà, proprio nel
momento e nell'evento che costituisce il luogo del suo più
radicale rifiuto. Di Dio, di questo Dio intento alla salvezza
dell'uomo, completamente rivolto a lui, perché il suo
desiderio sia riscattato dalla pretesa arrogante di
«conoscere il bene e il male», di decidere della
qualità buona e felice della sua esistenza, senza prestar
credito alla promessa che si annuncia per lui, Gesù
è il testimone fedele.
Egli ci invita a contemplare le piaghe del Crocefisso nel
Risorto, a riconoscere, nella sua dedizione senza condizioni al
volto di Dio che egli annuncia e rende presente nel suo agire, la
figura insuperabile della carità di Dio. E' questa la
«necessità» del dover patire di Gesù,
per entrare nella gloria: non è una scelta tra la vita e
la morte, tra la gioia e la sofferenza, non è un patire
momentaneo per una gloria eterna, non è la logica solo
naturale del morire per rinascere. Questa è la croce di
Gesù: il messaggero è rifiutato perché sia
respinto anche il suo messaggio. Questo appare sul proscenio
della storia, questo credono di inscenare gli uomini: ma
lì si gioca il dramma per il quale l'inviato si carica
anche di questo (decisivo) rifiuto, perché tale immagine
(ma si tratta della prossimità stessa di Dio!) è
troppo importante per far ritrovare i contorni all'immagine
dell'uomo ancora in cerca di volto.
Gesù si carica del rifiuto degli uomini, perché
tale rifiuto non mette in angolo Dio, ma anzi ne rivela/comunica
il suo volto insuperabile. Egli si colloca «al nostro
posto», non per esonerarci dal «nostro posto»,
egli ci rappresenta perché si possa far trovare al nostro
desiderio il suo «presente», il suo «proprio
posto», abitato dalla promessa del compimento. Questa
è la «necessità» della morte di croce,
non una meccanica legge che si imporrebbe anche a Dio e al suo
Cristo, ma l'insondabile gratuità dell'amore che si dilata
per far spazio all'uomo, per creare i tratti della sua
libertà credente, e per ricrearli quando egli si rinchiude
nell'onnipotenza del suo io.
La figura della fede testimoniale
Ormai la svolta è compiuta, la riconversione della
fede prepasquale, cioè della precedente identificazione
del messaggio e della persona di Gesù, sottoposta alla
crisi della croce, è avvenuta. La fede pasquale dei
discepoli/lettori non solo è assicurata dalla attuale
presenza di Gesù, che riprende sempre da capo il dover
capire la necessità del morire di Gesù, ma ne
costituisce anche le condizioni di accesso per i discepoli (e per
il lettore di ogni tempo). Di ciò si dirà poco
più avanti. Ora è importante anticipare, quanto
viene detto a proposito di Gesù, compagno e interprete - e
viene detto appunto con la forma di un verbo iterativo - dopo il
suo ri-conoscimento. Ciò non può essere espresso
che dopo l'«incontro» con Gesù risorto - il
punto di vista dei discepoli che non riconoscono è
mantenuto fino allo spezzare del pane - ma una volta avvenuto
esso viene narrato come un «ardere del cuore» e un
«attestarsi reciproco». «Non ci ardeva forse il
cuore nel petto» (v. 32b): ecco la libertà
ritrovata, ecco il desiderio orientato, strappato dall'ipertrofia
del proprio io. Anzi è una libertà già
diventata racconto, storia, testimonianza. Dal cuore
«tardo» al cuore «ardente», fino al cuore
che «attesta» e «racconta» («ed
essi si dicevano l'un l'altro», v.32). La dinamica della
fede che testimonia, che avendo trovato il «suo
posto», sa «far posto» agli altri, trasmette
senza tradire, si trasmette senza requisire, si fa carico della
fede altrui, per riportare al centro dell’incondizionata
verità di Gesù.
Quarta tappa - La dimora:
gli si aprirono gli occhi e lo riconobbero
A questo punto il lettore si aspetta che Gesù
in persona si riveli. Egli si è immerso nella
conversazione di Gesù con i discepoli, si è
lasciato scaldare il cuore e illuminare la mente dalla sua parola
e attende che il rivelarsi di Gesù ai discepoli colmi
quella distanza che lo separa dal testimone della prima ora. Ma
la scena sembra mutare...
I cammini divergenti
«Quando furono vicini al villaggio, dove erano
diretti» (v. 28a). Anche dal punto di vista narrativo il
racconto sembra raggiungere la meta del viaggio di fuga -
probabilmente la casa e il lavoro usato dei due discepoli, che
s'erano lasciati affascinare dalla grande illusione del maestro
di Nazaret. La parola di Gesù ha forse insinuato una
fessura nella loro delusione. Ma ciò non è bastato.
Il contatto con Gesù sembra destinato ad essere un
incontro senza storia misterioso fin che si vuole, uno di quei
contatti «estranei» che restano come una labile
traccia sul fondo della memoria. Il personaggio, ancora
misterioso per i discepoli, «fece come se dovesse andare
più lontano» (v. 28 b). Gesù sembra partire
per un lungo viaggio. E’ questo un modo di dire che ricorre
spesso nel vangelo: il padrone si assenta per un lungo viaggio,
il signore della vigna ritorna solo alla fine della giornata, il
buon samaritano salderà il conto «al suo
ritorno». E' come se si aprisse uno spazio per introdurre
il «nostro posto». Gesù se ne va, ma per
ritornare, perché tutti coloro che vengono dopo trovino lo
spazio per incontrarlo. Anche la determinazione di tempo va nella
stessa direzione. A noi può apparire un tempo
interminabile, ma ormai è il tramonto del giorno, il tempo
che s'è fatto breve. Viene ad espressione la coscienza dei
primi credenti che dopo la Pasqua il tempo si è contratto.
E’ il tempo di un'assenza che muta la qualità della
storia della Chiesa, è il tempo dell'attesa ardente per il
ritorno dello sposo: «perché si fa sera e il giorno
già volge al declino» (v. 29b). Tramonto del giorno,
sera della storia, che attende l'aurora del giorno senza fine. Il
lettore di ogni tempo vi riconosce senza difficoltà il
proprio posto, collocato tra la Pasqua e il ritorno del
Signore.
L'invocazione esaudita
Non è però un tempo vuoto. La cornice spaziale
e temporale delinea ancora una volta la condizione spirituale dei
discepoli. E’ il tempo della Chiesa, è il tempo
dell'ospitalità, in cui far spazio alla presenza di
Gesù nel segno della parola che interpreta e del pane che
è offerto. Il racconto raggiunge il culmine: «ma
essi insistettero: "resta con noi"» (v. 29a). I discepoli
(Chiesa) si fermano presso la loro casa, nella quale forse domani
riprenderanno il loro lavoro per tentare di dimenticare
l'avventura trascorsa con il profeta di Nazaret, meteora fra le
molte che ha illuminato con il suo bagliore l'oscurità
della storia. Al viandante straniero - che sembra portare, come
da una regione lontana, parole che interpretano i fatti luttuosi
degli ultimi giorni - vogliono offrire almeno l'ospitalità
per quella sera. L’insistenza tutta orientale a
«restare» è già nel racconto diventata
un'invocazione a «rimanere», è diventata
nostalgia della dimora. L'invocazione nostalgica di Israele di
entrare nella comunione con Dio raggiunge il punto di massima
tensione. E qui avviene la svolta: nel personaggio misterioso,
che proviene da una regione straniera, Dio prende dimora tra gli
uomini: «Egli entrò per dimorare con loro» (v.
29c). L'uomo crede di far spazio a Dio. La sua libertà
deve uscire - sforzo supremo – da se stessa, per ospitare
il suo mistero, ma nel momento decisivo scopre di essere
già sin dall'inizio ospitata dalla compagnia di Dio, dalla
sua volontà di prendere dimora fra gli uomini. Il
desiderio dell'uomo, quando arrischia il cammino
dell'ospitalità al mistero di Dio, scopre di essere sin
dall'origine da lui ospitato, anzi ritrova il luogo -
gratuità originaria - dove potrà incontrare il
Risorto per sempre: «quando fu a tavola con loro, prese
il
pane, disse la benedizione, lo spezzò, lo diede
loro» (v. 30). L'ospitalità si fa
commensalità: i discepoli-chiesa invitano, ma è il
Signore Risorto che presiede alla cena, che è in mezzo a
loro come colui che serve. Nel grembo della Chiesa si rende
presente il gesto pasquale di Gesù, connotato con i verbi
che la tradizione liturgica della Chiesa primitiva ha già
cristallizzato nell'esperienza di commensali con il Risorto.
Incontrare il Risorto significa ospitarlo dentro lo spazio della
propria libertà in cammino.
Per ri-conoscere l'origine
Ora il punto di vista del discepolo e il punto di vista del
lettore sono perfettamente coincidenti: il relativo vantaggio
è azzerato, il diverso svantaggio è colmato.
L'intreccio delle due condizioni spazio-temporali e delle due
situazioni spirituali è perfetto. Con veloci tratti
l'azione si scioglie e le strade si intrecciano. Il discepolo di
prima mano perviene all'incontro con il Signore risorto:
«allora si aprirono i loro occhi e lo ri-conobbero»
(v. 31 a), ma è collocato nella stessa condizione del
lettore di sempre: «ma egli sparì dalla loro
vista» (v. 31 b). Il venire-alla-fede dei discepoli e il
darsi-a-vedere del Risorto ora ha la medesima struttura per il
discepolo originario e per il discepolo di seconda mano:
l'aprirsi degli occhi consente di riconoscerLo, ma egli sparisce
dalla loro vista; non si può riconoscere il Risorto che
nella forma della fede. Il lettore è ora nella stessa
condizione del discepolo originario, anzi può egli stesso
diventare discepolo. La fede del discepolo/lettore si affida ai
segni dell'identità del Crocifisso e del Risorto e
riconosce il «Mio Signore e mio Dio». Riconoscere
l'origine, cioè la potenza salvifica di Dio nel gesto del
povero e indifeso amore di Gesù che si affida in radicale
abbandono al Padre, significa riconoscerLo come Risorto. Per
questo egli sparisce dalla loro vista, non solo perché non
è più visibile nella forma storica, ma molto di
più perché è accessibile soltanto nella
forma della libertà che si affida al movimento della sua
obbedienza filiale. Agli occhi che si aprono egli si sottrae,
perché lo possano riconoscere da ora e per sempre nella
duplice mensa della parola e del pane. Una volta e per tutte
custodito nel povero e indifeso gesto dello spezzare del
pane.
Quinta tappa - Il ritorno testimoniale:
la comunità segno reale per ogni uomo
L'azione ora si snoda con una scioltezza
sorprendente. I discepoli si attestano reciprocamente che la
parola di Gesù ha loro illuminato la mente e il cuore
(cfr. sopra). Lo riconoscono al passato («non ci ardeva il
cuore, mentre conversava con noi», v. 32), lo narrano al
presente, gioisce con loro il lettore di ogni tempo. Solo dopo
l'apertura degli occhi (della fede) nello spezzare del pane, la
parola interpretante può essere riconosciuta come una
compagnia ermeneutica che non termina. Anzi essa è
sorgente di un impulso da cui si sprigiona un'interminabile
testimonianza.
La ripresa della missione
Il senso del cammino dei discepoli è ora capovolto:
all'inizio il viaggio è in realtà una fuga; alla
fine il ritorno è in verità l'avvio della missione.
Per questo Luca connota il loro ritorno con i tratti degli
evangelizzatori della prima ora: Maria, i pastori, i poveri del
vangelo dell'infanzia, i discepoli della Chiesa primitiva
(«partirono senza indugio», v. 33a). C'è un
insopprimibile andare di chi ha riconosciuto e di chi ha trovato,
v'è un inarrestabile slancio che proviene dall'aver visto
il Risorto. L’evangelizzatore di Luca è uno che ha
fretta, che si muove senz'indugio (Luca 10). La premura
è segno di una libertà ritrovata, di una scioltezza
che ha liberato il proprio desiderio dalle pastoie di una ricerca
ripiegata su di sé e l'ha immesso nel mare aperto della
testimonianza. Il lettore qui si sente addirittura in vantaggio
sui discepoli. Egli sa quanta strada ha già fatto quel
messaggio, quante persone ha già coinvolto quella
comunione. Egli conosce la lunga nube di testimoni che si sono
collocati nella scia di quella missione. Eppure egli sa anche che
non è una missione in proprio, non è una parola che
è proprietà privata, non è un messaggio
geniale di cui si è titolari. Perciò i discepoli
«fecero ritorno a Gerusalemme» (v. 33a): la parola
trasmessa dev'essere la parola ricevuta, dev'essere continuamente
confrontata con le «colonne della Chiesa», può
succedere alla Pasqua, solo perché continua a far ritorno
a Gerusalemme.
La continuità della tradizione
«Trovarono riuniti gli Undici» (v. 33b): la
missione deve ritornare continuamente alla sorgente, anzi
propriamente fa accedere tutti gli altri all'origine. Essa
prolunga la Pasqua di Gesù per ogni tempo, in quanto fa
accedere ogni uomo e donna al mistero di Dio nel gesto della cena
pasquale. Perciò i discepoli trovarono anche «gli
altri che erano riuniti con loro» (v. 33b).
L’evangelizzazione premurosa (antica e nuova) è
sempre e solo momento della comunione e la comunione è la
legge della missione. Il discepolo del Nuovo Testamento non
è un profeta isolato, un inviato in proprio: anche quando
è un pioniere lo è come espressione della
comunità. La missione è dunque continuità
della tradizione. E la tradizione non è solo le
«cose trasmesse», ma è anche l'«atto di
trasmettere», è tradizione vivente, che i credenti,
i contemplativi, gli evangelizzatori, gli uomini e le donne della
carità, i missionari, i pastori, i teologi attestano in
una corale testimonianza. Occorre trasmettere senza tradire,
tradurre senza corrompere, consegnare senza sequestrare.
La confessione della fede pasquale
Pertanto come perla preziosa, nel luogo in cui resta per
sempre collocata, nel tempo a cui rimane permanentemente
vincolata, nella forma che abbiamo ricevuto e che continuiamo a
trasmettere, sulla bocca del ministero che serve alla
carità della comunione, alla fine del racconto esplode la
fede pasquale nella sua cristallina e insuperabile purezza:
«Veramente il Signore è risorto ed è apparso
a Simone» (v. 34). I discepoli hanno incontrato il Risorto,
il lettore con loro e come loro si è fatto discepolo,
tutti quelli di prima e seconda mano, ieri, oggi e domani,
ritornano a dire l'unicità insuperabile della Pasqua di
Gesù, la piena testimonianza della sua risurrezione, luogo
in cui si è rivelato e donato il volto di Dio e la
pienezza dell'immagine dell'uomo, una volta e sempre collegati e
collocati nella figura credente della libertà di
Gesù. La sua dedizione incondizionata a Dio e a noi, fino
alla morte e alla morte di croce.

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