Paolo Giuntella

SENZA IL CONCILIO FORSE
NON SAREI NEPPURE PIÙ CATTOLICO


Senza il Concilio Vaticano II forse non oggi non sarei cattolico. L’ho detto e ripetuto spesso negli anni, ma soprattutto l’ho scritto e ripetuto nei mesi del 40° compleanno del Concilio. Ho sempre detto, o scritto forse perché naturalmente le vie del Signore sono infinite e tanto più, per quanto uno possa avere una testa narrativa, è difficile immaginare a ritroso delle scelte frutto di un condizionale, anzi di un congiuntivo che regge un condizionale: "Se non ci fosse stato il Concilio sicuramente oggi non sarei cattolico". Non lo so e naturalmente non posso dirlo. Ma questa è la mia netta sensazione di oggi. E perciò lo dico, senza enfasi celebrativa. Perché noi siamo poco avvezzi a ricordare come era la Chiesa prima del Concilio. Spiritualità intimiste, trionfalismo ormai perdente e sopravvissuto a sé stesso, nostalgie del potere temporale, doppia morale, primato della facciata pubblica rispetto all’autenticità e alla coerenza, liturgia in latino cioè in una lingua sconosciuta per il novanta per cento dei cattolici di tutto il mondo, e dunque ritualità che finivano per diventare – anche al di là delle migliori intenzioni e della fede più convinta e genuina – per la maggioranza dei "fedeli" riti avvolti dall’incanto o dal tormento, velati di una sorta di magia, spesso vissuti dalla gente semplice ma anche dalle buone signore della borghesia o dell’aristocrazia più bigotta, con superstizione, o tradizioni popolari.
E’ vero che c’erano stati negli ultimi secoli anche pontefici squisitamente religiosi o pastori e persino riformatori, ma il conflitto irrisolto e perdente con la Modernità, la nostalgia – anche nei migliori – dell’ordine sociale cristiano perduto, delle gerarchie perdute della cristianità, lo sfaldarsi della morale comune che, in molti paesi europei, coincideva con la morale formale, con i costumi esteriori cristiani, condizionavano la vita dei cattolici, soprattutto giovani. Certo, c’erano stati anzitutto i santi, e spesso santi rivoluzionari o poveri alla Benedetto Giuseppe Labre (in totale direzione alternativa alla corte pontificia romana e alle corti di re cattolici o agli stili di vita di ricchi aristocratici e borghesi proprietari agrari "cattolici").
C’erano stati teologi e intellettuali (per tutti un nome, John Henry Newman). C’erano stati profeti sociali e avanguardie politiche, "les abbés democrates", i laici cattolici pionieri democratici, i cattolici liberali e cristiano-sociali. E poi era arrivato l’insegnamento sociale della Chiesa dalla "Rerum Novarum" in poi e un intenso movimento di rinnovamento degli studi biblici, di intellettuali, di grandi convertiti, da Oxford ai francesi, da Chesterton a Jacques Maritain. E ancora: il grande rinnovamento teologico degli anni ’50, la "Nouvelle Théologie francese, la spiritualità dell’imitazione del Gesù povero di Charles de Foucauld e dei suoi eredi spirituali, i piccoli fratelli e le piccole sorelle. C’erano i preti alla don Mazzolari e don Milani, alla papa Giovanni, certo, e i parroci come quello dell’Albero degli zoccoli, il film di Olmi.
Ma la prima immagine della Chiesa che aveva un bambino degli anni ’50 ed un adolescente dei ’60, era quella del monsignore romano, vestito di rosso con scarpe con fibbia d’argento e gran cappello, che l’8 dicembre arrivava in piazza di Spagna per portare i fiori alla colonna dell’Immacolata scendendo da una lunga Mercedes nera, con l’autista in livrea che gli apriva lo sportello. E come dimenticare le strazianti messe cantate delle 11.00 e la messa dei signori, dei ricchi borghesi, delle contesse impellicciate e ingioiellate, delle 12? E per di più in quegli anni, vale la pena ricordarlo, la maggioranza degli italiani era proletaria, contadini ed operai, e gli analfabeti superavano il 50 per cento. Per tutti loro, come per la massa dei diseredati analfabeti del Congo o del Salvador, delle Filippine e del Nord Est del Brasile, la messa era in latino. La Bibbia era quasi proibita, comunque ritenuta in grave sospetto, un libro "sconsigliato" come i film di Alberto Sordi, anche se poi al catechismo ti facevano studiare personaggi ed episodi dell’Antico Testamento e del Nuovo. Nella mia parrocchia, nel giorno del tesseramento dell’Azione Cattolica, i bambini iscritti stavano in prima fila e facevano per primi la comunione ricevendo un’immaginetta regalo. E a me tutto questo faceva una grande rabbia e, più ancora – papà che mi proibiva di iscrivermi e protestava con il parroco dicendo che nella Chiesa non ci sono figli di serie A e di serie B, e che, anzi, Gesù aveva proprio predicato la cacciata dei figli dell’oca bianca in ultima fila e aveva chiamato in prima fila poveri, barboni, prostitute e i famosi pubblicani che io, poi, non capivo bene che cosa fossero. Pensavo che fossero come quelli che venivano a leggere le bollette del gas.
E tutti i libri di teologia e spiritualità che leggeva papà, e che ordinava nella libreria francese di Roma, erano "proibiti", non tradotti in italiano. Ed io, che ero l’unico a subire un po’ di fascino governativo ed ortodosso perché ero l’unico della famiglia ad ascoltare la radio, e dunque l’unico ad assorbire anche l’informazione ufficiale, ero preoccupato da questa attività semiclandestina di letture eretiche di papà e di incontri segreti dopo cena nella nostra camera da pranzo. In realtà poi, gran parte degli autori dei libri proibiti degli scaffali della libreria di papà sarebbero diventati cardinali: Journet, Danielou, De Lubac, von Balthasar, Congar. E un altro mito di papà, Giorgio La Pira, era il bersaglio preferito dei giornali più venduti a Roma e di un giornale cattolico che arrivò a definire Aldo Moro un "Rospo" schifoso e ributtante, in un editoriale del 1962 quando si stava preparando il primo governo di centro sinistra.
Si pregava per la conversione dei "perfidi ebrei" (anche se proprio Giovanni XXIII avrebbe ottenuto la rinuncia a quella orribile preghiera della liturgia del Venerdì Santo) ed era proibito anche solo entrare nelle Chiese protestanti. Ed io, che avevo un papà innamorato degli ebrei e persino degli zingari per via del campo di concentramento nazista e che era pacifista e favorevole all’obiezione di coscienza, ero sempre tentato di andare a vedere che cosa c’era dentro la Chiesa valdese di piazza Cavour. Sentivo il fascino di quella chiesa cristiana eppure proibita, e insieme l’orgoglio ma anche il timore, di un padre che frequentava ebrei, protestanti e zingari…E poi l’"Osservatore Romano" che arrivò a censurare il Papa, l’omelia di Giovanni XXIII in una parrocchia romana…

Ora, lo si voglia o no, il Concilio fu veramente una rivoluzione copernicana, come disse il teologo – un altro super proibito amatissimo da papà – Marie-Dominique Chenu. Fu per noi, per me, come se la Chiesa, dei monsignori di curia, la Chiesa delle Mercedes, la Chiesa delle zitelle bigotte e delle signore impellicciate che pensavano di risolvere il problema dei poveri e della giustizia sociale con qualche elemosina e consideravano La Pira un pericoloso comunista, questa Chiesa spalancasse le finestre per far uscire l’aria viziata e le porte per far entrare tutti "i sospetti".. Pulizie pasquali e rinnovamento delle tinture delle pareti, dei mobili, della cucina della Casa di sempre. Per molti di noi allora giovani, ma anche per molti adulti, per gli intellettuali cristiani, ma anche per persone molto semplici, queste pulizie, questo ammodernamento delle mobilia, cioè essenzialmente la riconciliazione con il mondo moderno, con l’umanità contemporanea e le sue culture, non più considerate perdute e nemiche, sono state una tappa fondamentale. Per noi, che vivemmo in particolare a Roma quella stupenda, esuberante atmosfera, questa invasione di vescovi e teologi da tutto il mondo – la scoperta di tanti vescovi e cardinali poveri che affittavano piccole cinquecento Fiat per arrivare in 4 ai lavori in Vaticano – e tutta la serie di incontri, conferenze, opportunità, scoperte, fu davvero una primavera. Non tutti avevano, i miei amici, alle spalle una famiglia vaccinata: a casa mia entravano solo riviste cattoliche francesi, papà seguiva il Concilio su Le Monde, io che all’inizio ero più moderato su La Croix, solo più tardi ci abbonammo all’Avvenire d’Italia di Raniero La Valle. Ricordo con precisione un episodio, come fosse ieri, quando andammo ad ascoltare il cardinal Suenens, arcivescovo di Bruxelles. Un mio amico disse al padre che andava al cinema. Perché se il padre fosse venuto a sapere che era andato a sentire il cardinale progressista, lo avrebbe chiuso in casa. In genere un ragazzo – e né il padre né tanto meno lui, il mio amico, erano bigotti – magari a quindici anni diceva che andava a sentire un cardinale e poi andava al cinema o diceva che andava in parrocchia e poi usciva con gli amici e le mitiche, allora per noi catto-imbranati, ragazze. Mai il contrario eppure, questo lo ricordo per raccontare il clima di allora, dire una bugia per andare a sentire un cardinale! Ma senza volerlo il buon cardinal Suenens ci ripagò quando, nella sala affollatissima, cominciò a parlare degli schemi preparatori, da cui sarebbero scaturite le costituzioni conciliari. Parlava un perfetto italiano ma con marcata inflessione francese. Così cominciò a parlare di "Scemi del Concilio", pronunciando la parola schemi appunto alla francese. Resisti la prima volta, resisti la seconda, alla terza non ce la facemmo più ed esplodemmo in una fragorosa, e contagiosa, sonora risata. E dovemmo dare, naturalmente una divertente spiegazione al cardinale…
Per noi fu quella la scoperta di una teologia più vicina alle nostre esigenze, alle nostre sensibilità, alla nostra cultura studentesca per quanto appena ginnasiale e liceale, al nostro bisogno di coniugare fede e cultura, fede e intelligenza e poi, progressivamente fede e storia, fede e politica, ma oltre i tradizionali labirinti della scolastica e del collateralismo obbligatorio con il partito ufficiale d’ispirazione cristiana. Scoprivamo la Chiesa dei poveri, o almeno che la povertà non era soltanto un voto per religiosi o una specializzazione dei francescani, ma uno stile di vita per tutti i cristiani, laici, padri di famiglia, intellettuali o professionisti che fossero. Scoprivamo il terzo e quarto mondo, il drammatico fossato che divideva ricchi e poveri del pianeta, ed una spiritualità dell’essenziale (Charles de Foucauld) ed inesplorata foresta di cultura teologica e politica e di impegno.

Poi ci fu la grande speranza e la grande euforia per la riforma liturgica e le belle avventure nelle nostre messe dei giovani con omelia dialogata, chitarre anche elettriche, e nuove canzoni – alcune delle quali oggi, quarant’anni dopo resistono ancora sulla breccia ma sono ormai lagne quasi insopportabili – e soprattutto, la Bibbia. Destrutturammo, Costituzioni conciliari alla mano, le associazioni di base, fondammo gruppi biblici a ripetizione molto vissuti, alternando cineforum parrocchiali e doposcuola nelle borgate, scoutismo e sogni di un mondo diverso. Ma non fu tanto questo, che ci fece restare nella Chiesa, quanto la liberazione dai silenzi, dagli incensi, dai passi felpati, dagli eccessi di prudenza, dagli obblighi di riverenza, dalle paure, dalle proibizioni.
Emmanuel Mounier ha parole terribili in molti suoi articoli e nel suo libro straordinario L’Avventura cristiana (L’Affrontement chréthien) contro la falsa "prudenza", contro le virtù deformate, il capovolgimento della gerarchia delle regole dell’«intimidazione morale, del moralismo che mette "la protezione prima dell’amore, una caricatura della Prudenza prima delle virtù teologali. Ama et fac quod vis, non vuol dire riscaldati e fai il pazzo, ma vuol dire che l’assoluta subordinazione di ogni virtù, anche la sacrosanta prudenza, alla Carità, libera uno schiavo e dilata la vita».
Ma soprattutto fu per noi fondamentale la scoperta di una fede adulta possibile, senza rottura con le nostre conquiste culturali, con le esigenze della nostra intelligenza, senza dover rinunciare ad essere contemporanei; e la riappropriazione della Bibbia, della Parola di Dio. Insomma la scoperta delle fonti ed il respiro forte dei maestri, da Emmanuel Mounier a Thomas Merton da De Lubac, Congar, Chenu, a Rahner, da Helder Camara a La Pira. E poi l’incontro con punti di riferimento ecclesiali come il cardinal Pellegrino…

Giovanni Bachelet ricorda che io dicevo sempre, con una lieve celia, che noi eravamo "cattolici del consenso", per dire in altre parole che se coltivavamo il dissenso politico e i sogni di una intera generazione, la militanza nonviolenta e pacifista contro la guerra in Vietnam, il sogno di un mondo nuovo, amavamo la Chiesa del Concilio, di Giovanni XXIII, di Paolo VI, della Pacem in terris, della Popolorum Progressio e perciò amavamo, con tutte le esuberanze, le sofferenze, le insofferenze ma anche le speranze di quei giorni che ci apparivano sempre cantati, sempre giorni di svolta, di attesa, di preparazione, di coscientizzazione – come si diceva allora – quasi che nuove terre e cieli nuovi fossero davvero a portata di mano e il famoso fiume di Isaia che evocava La Pira fosse davvero vicino alla foce nel grande fiume dei tempi nuovi.

Costruimmo così, tra illusioni e delusioni, euforie e fondamenta solide, la nostra coscienza laicale che la Lumen Gentium e la Gaudium et spes nutrivano e stimolavano ad altre letture, ad altri impegni. Non crediate che questi fossero nutrimenti o manie di élites o di giovani intellettualini. No. Un nostro coraggioso assistente di gruppo giovanile riuscì a farci studiare il Fenomeno Umano di Teilhard de Chardin (non ancora tradotto in italiano) in gruppo. E c’erano anche studenti di scuole tecniche e persino ragazzi che erano stati costretti ad interrompere gli studi per andare a lavorare. A turno alcuni dei grandi che sapevano il francese studiavano un capitolo e, come si direbbe oggi con vocabolo burocratese orribile, "relazionavano". Cioè spiegavano a tutti il contenuto del capitolo. Capite perché, e grazie a quanti animatori, vice-parroci, assistenti – oltre che a genitori non comuni – ed alle letture che in quel clima di primavera della Chiesa mi furono messe in mano, trasmesse, suggerite, sono rimasto cattolico e grazie a quante persone e testimoni che avevano "preparato" e "sperato" il Concilio, sono rimasto nella Chiesa ed insieme a molti altri coetanei la considero, nonostante tutte le resistenze e le contraddizioni umane, la mia casa.

Alcuni anni fa Ernesto Galli Della Loggia – secondo una tradizione di certi laici non cristiani (non mi piace, come del resto anche a Cacciari, l’espressione non credenti perché nessuno è non credente, mentre l’aggettivo, la qualificazione, di laico spetta anche a me ed io la amo tanto e credo che proprio i laici cristiani siano i maggiori esperti in fatto di clericalismo e dunque i più refrattari e i più combattenti dall’interno della Chiesa) che spesso si impicciano ed in modo conservatore o tradizionalista di cose ecclesiali – scrisse che il Concilio aveva svuotato le chiese. In realtà è vero il contrario. Dobbiamo chiederci quanto sarebbero ancora più vuote le nostre chiese senza la ventata fresca del Concilio, quanti avrebbero abbandonato, quanto più lontana e museale sarebbe stata avvertita dai giovani di allora oggi sessantenni e cinquantenni e ancor peggio dai giovani diciottenni e ventenni di oggi. Si, le chiese sarebbero molto più vuote, di quanto, purtroppo, comunque non lo siano oggi.

Al di là di tutti i meriti della "rivoluzione copernicana" conciliare, la riappropriazione delle Bibbia, la centralità della Parola di Dio, la definizione teologica del popolo di Dio (i laici finalmente tornati come nelle prime comunità cristiane alla stessa dignità sacerdotale pur nella diversità di carisma con i ministri), la riforma liturgica, l’apertura ecumenica alla libertà religiosa, al dialogo con le chiese cristiane sorelle, con l’ebraismo, con le religioni non cristiane, l’apertura del dialogo con il mondo contemporaneo, il ruolo dei laici nell’autonomia della sfera politica e sociale, quel che ha veramente inciso nella nostra vita di laici e nella vita della Chiesa è lo spirito che ha animato il dibattito e la ricerca teologica, il rinnovamento della catechesi, la maturazione della lettura dei segni dei tempi come categoria, come criterio che progressivamente sostituisce la categoria dell’ordine cristiano o della cristianità da ricostruire, il radicale mutamento delle missioni, la ritrovata centralità delle Chiese locali e l’avvio della collegialità. Per noi laici la dignità di popolo di Dio ha significato il tramonto della condizione di "fedeli", dunque di soggetti e protagonisti, come dire, inferiori, nella Chiesa.

Ora, a quarant’anni di distanza, dobbiamo chiederci che ne è del laicato, della sua dignità e del suo sacerdozio, il sacerdozio universale del popolo di Dio? Dobbiamo chiederci se c’è un processo di ri-clericalizzazione della Chiesa visibile qui in terra, ovvero nuove forme di delega da parte dei laici. Un certo nuovo modello di laico "collaboratore" – io aggiungo "domestico" – dei parroci, dei preti, delle diocesi, una sorta di vice-parroco mancato, di replicante, donna od uomo che sia, in vilpelle del parroco, mi da molto fastidio, mi fa venire la pelle d’oca. E mi mette paura. Mi ricorda, lo dico intendiamoci con affetto e con il sorriso sulle labbra, le "vecchie bizzocche" che riempivano di "sch…" le nostre navate, prima, appunto del concilio, e certi cattoliconi dalla sfumatura alta untuosi o eccessivamente umili, un po’ in ginocchio e un po’ santamente dabbene, che passano per i laici impegnati, prima, appunto del Concilio. Certo i tempi sono cambiati, oggi le collaboratrici e i collaboratori domestici dei parroci sono in jeans e magari con cinte chiodate e accurate capigliature ben colorate, con lo zainetto o la borsa, ed un linguaggio più spigliato, ma il risultato non cambia. Ma è indubitabile che il protagonismo, anche allo stato un po’ selvaggio, ma fertile, dei primi decenni post-conciliari, il periodo d’oro dei consigli pastorali elettivi per fare un solo esempio, si è impantanato. E non solo per una ripresa di centralismo, come dire, "clericale".. Anche per una progressiva afonia del laicato.

Voglio parlare con voi con assoluta sincerità in un clima di cristiani adulti. Sembra, a quarant’anni di distanza dal Concilio grazie al quale, e grazie soprattutto al suo spirito, in tanti possiamo dire di essere rimasti cattolici, di essere stati stimolati comprendere con più profondità le verità oltre il tempo e lo spazio dell’esperienza cristiana e dell’esperienza di Dio nella Chiesa, si sia esaurita, almeno nel laicato, proprio quella spinta di rifondazione spirituale e culturale, di tensione intellettuale, di ricerca e creatività che invece aveva preceduto il Concilio. Penso alla fine dell’800, al periodo dei grandi convertiti inglesi, ma anche ai primi anni e quindi agli anni ’30, e poi agli anni ’50 e’60 in Francia. Alla stagione dei grandi scrittori, dei filosofi, degli artisti. Penso ai Chesterton, ai Maritain, Bernanos, Rouault, Mounier, a Mauriac, a poeti come Pierre Emmanuel e Mario Luzi o Betocchi, a musicisti come Olivier Messiaen e Mary Lou Williams, solo per fare alcuni nomi, ma si potrebbe continuare a lungo. Certo ci sono numerosi intellettuali, storici filosofi giuristi economisti, ma è come se mancasse un movimento più ampio, un confronto, una serie di cenacoli, una temperie di riviste, case editrici. Soprattutto voci e personaggi comunicativi, coraggiosi, che sappiano squarciare gli orizzonti verso il futuro, senza rimpianti per il passato ma con radici ben piantate ed in grado di essere interlocutori, di proporre interrogativi e speranze ai lontani, ai non cristiani, di essere catalizzatori di dialogo, di incontro, di confronto. Certo c’è una ricchezza di novità, soprattutto nel volontariato, nella cooperazione internazionale, ci sono missionari laici – spesso sconosciuti come era sconosciuta Annalena Tonelli prima di morire, può essere che questo territorio della testimonianza sia più importante, più decisiva, più a misura evangelica. Ma tuttavia il cristianesimo non può neppure essere ridotto – pur nella misura dei santi, dei testimoni che disposti a dare la vita per gli altri – a volontariato, ai filantropia. Forse sono i ritmi pesanti delle professioni, per vivere, la durezza e il rigore della competenze scientifiche, tecniche, amministrative, giuridiche, il terreno nudo e crudo della laicità, che ci prendono molto tempo. Ma io avverto la necessità di tornare a pensare, di educare le nostre comunità a pensare, a cercare, a sfidare il vuoto di senso e di Dio e questo non può essere delegato ai teologi e neppure agli addetti ai lavori. Né però deve essere questo un territorio troppo affollato di dilettanti o peggio di persone che trascurano le loro professioni, la laicità quotidiana, le responsabilità tecniche e scientifiche, o semplicemente professionali, per dedicarsi ad una generica attività catechetica o formativa. La questione è più profonda. Anche se mi rendo conto che l’età della precarietà – la precarietà è dappertutto diceva con felice sintesi Pierre Bourdieu – e dunque della singolarità, della gratificazione istantanea, della ricerca affannosa di felicità liofilizzate, di storie affettive più che di patti, di stabilità affettive, questa incertezza frammentazione e provvisorietà delle convinzioni, non permette il lusso di pensare, di ricercare, se non nei monasteri.

Dovremmo, ripartendo dalla "Gaudium et Spes", con una lettura critica perché questa costituzione era anche il frutto di una età al contrario delle grandi speranze, dell’ottimismo sullo sviluppo, della fede nel progresso inarrestabile dell’umanità, ed insieme dalla "Lumen Gentium" – e tenendo conto anche della differenze, delle arcaicità di linguaggio rispetto al linguaggio dei giovani e dei trenta-quarantenni – tornare a riflettere sia sulle sfide che sulla dignità, lo statuto, dei laici cristiani.
Ci sono poi dei modelli, degli stili di vita, penso ai condomini solidali (come qui a Milano Villapizzone), alle famiglie affidatarie, a delle forme nuove di fraternità che coinvolgono laici e religiosi in forme di vita comune che rispettano l’autonomia delle famiglie, delle professioni; ai missionari laici non consacrati ma in coppia o aperti a prospettive matrimoniali; a quei professionisti, infermieri, medici, avvocati, che dedicato uno spazio non resicato della loro giornata o le vacanze al volontariato professionale; insomma ci sono moli segnali di un nuovo stile di vita cristiano più legato ai tempi nuovi della fede "nuda" senza assicurazioni sociali, cioè con istituzioni sempre più povere, come prevedeva Giuseppe Dossetti. Sappiamo poi che la crisi delle vocazioni religiose, comunque il confronto tra modernità e vita consacrata, affida ai laici ruoli sempre più importanti come animatori liturgici di liturgie domenicali senza preti celebranti, ormai anche in Europa, responsabilità catechistiche, pastorali, di conduzione della parrocchia o della comunità cristiana locale priva di sacerdote e progressivamente, dunque, di forme equilibrate, serene, senza eccessivi trionfali entusiasmi che poi spariscono di fronte alle difficoltà, di vita comunitaria, di legami di fraternità tra laici immersi nella vita reale professionale e famigliare.
La dimensione comunitaria appartiene del resto, come negli Atti degli Apostoli, a tutto il popolo di Dio, non solo ai preti e ai consacrati. Le Beatitudini, come giustamente scrive in un suo bel libro il biblista Gherard Lofhink, sono rivolte a tutti. Ciascuno e chiamato viverle sperimentando ogni giorno livelli più intensi di mediazione del Vangelo nella laicità senza integralismi, fondamentalismi, infantilismi troppo ingenui, ma senza neppure cinismo e doppia morale. E senza tuttavia imporre ad alcuno il nostro stile di vita, la nostra via al cristianesimo, la nostra tessera di appartenenza o di militanza, come la via esclusiva al cristianesimo.
Ed attenzione: non è vero che l’entusiasmo di cosiddetti atei devoti, e di ammiratori del cristianesimo senza Vangelo, cioè brandito come scudo, insieme ai crocifissi nelle scuole, (e non vissuto come Parola e segni di pace, perdono, accoglienza, dialogo, di Resurrezione, parola e simbolo del Dio Amore, della debolezza della Croce) e la politica di compromessi e trattative per ottenere soldi per salvare il salvabile – e qualche scuola cattolica – possano riuscire a posticipare l’appuntamento con la stagione della libertà e purificazione ma anche della povertà. Il processo è inesorabile ed è stato avviato dalla fine del temporalismo, dal recupero della profezia, dal vento nuovo del Concilio. Il cristianesimo non è né una cultura né una civiltà, tanto meno una ideologia. Il cristianesimo è universale, è la sequela del Dio trascendente, del Dio Amore rivelato agli uomini attraverso la sua Parola, il suo Logos crocifisso e risorto. Appartiene a tutti, è padre di tutti, non è confini geopolitici, non è una identità.
L’espressione più alta di identità cristiana – che altro non è che la capacità d’amare – non è forse quella testimoniata da mons. Romero o dai sette benedettini e dal vescovo di Orange Pierre Claverie assassinati in Algeria?
Condivido profondamente quanto ha scritto a conclusione del suo bel libro di meditazioni pasquali sulle Sette ultime parole di Gesù in Croce (in italiano per le Edizioni San Paolo) Timothy Radcliffe, che è stato maestro generale dei domenicani dal 1992 al 2001. "Cristo crocifisso sulla Croce non è un nostro possesso ma è tutta l’umanità crocifissa", senza distinzioni di confessione religiosa, di cultura, di appartenenza etica, geopolitica, storica…Dunque la Croce, simbolo dell’accoglienza e non distintivo o arma identitaria e non solo per dividere buoni e cattivi, non può essere innalzata come vessillo, come bandiera: è presente "per tutti gli uomini che soffrono, poiché non appartiene a nessuna causa umana", dice l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. E proprio come scrisse monsignor Pierre Claverie prima di essere assassinato, "Gesù morì sospeso tra cielo e terra, con le braccia allargate per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e che li pone l’uno contro l’altro e contro Dio stesso. Si collocò sulle linee di separazione sorte da questo peccato".
Ecco il Concilio, grande graduale paziente ma inesorabile ritorno al futuro, al primato del Regno, agli stili di vita degli Atti degli Apostoli e delle prime comunità cristiane, ci fa riscoprire ogni giorno questa linea di confine, queste linee di separazione, che dobbiamo cercare di colmare e cancellare. E tuttavia per fare questo, come il Cristo Parola Crocifissa, anche noi dobbiamo metterci con le nostre tende su questa frontiera. Il Concilio ci ha permesso di riscoprire la spiritualità dell’esodo, la dinamica del provvisorio, una quotidiana tensione escatologica, una libertà di figli di Dio per i quali ogni confine è il frutto del peccato, della finitezza incompiuta della condizione umana. Perché Cristo e la sua Croce, e così dovrebbero essere spiritualmente i suoi discepoli, sono vita per abbattere i confini: scandalo per i gentili e per i pagani, per identitari, fondamentalisti e perbenisti, simbolo e luogo universale di accoglienza, di liberazione, provvisorio permesso di soggiorno per tutti gli uomini in tutte le terre, in vista della città futura.

Il cristianesimo, nel senso teologico ripetuto da Enzo Bianchi e da Joseph Moingt nel suo bel contributo nel libro affascinante e divulgativo ma colto e intenso La plus belle histoire de Dieu (gli altri due contributi sono di Jean Bottero, già titolare di assiologia alla scuola di Alti studi, e il rabbino e filosofo Marc-Alain Ouaknin Parigi 1997) non è neppure una religione. E’ la liberazione dalla morte, dunque dalle prigionie del limite, della finitezza, per essere redenti dalla condizione finita cioè umana e liberati nella condizione infinita cioè divino-umana. Ecco perché cercare anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia non è compito di preti o consacrati ma vocazione universale di tutto il popolo di Dio a cominciare dai laici.
"Fino all’epoca contemporanea, la chiesa non ha dovuto preoccuparsi più di tanto d’annunciare Dio o l’Esistenza di Dio. Ha sempre vissuto, infatti, in società nelle quali si credeva in Dio, qualunque fosse, E la Chiesa, almeno in parte, si è allineata sulla concezione che questi mondi avevano di Dio. Oggi è radicalmente diverso: molti uomini non credono più in Dio, e la situazione obbliga a ripensare quello che è stato detto", come cioè è stato presentato Dio. Obbliga alla fatica di pensare, di dire, di annunciare Dio, in modo nuovo e di testimoniarlo con comunità e forme nuove. Insomma il nostro tempo, questo tempo nel quale ci è dato vivere e che Dio ha scelto perché noi lo animassimo, e che in nessun modo possiamo maledire, che non è migliore o peggiore di altri, è semplicemente il nostro tempo, la nostra ora, ci propone e ci impone questa sfida.

riga

Homepage Torna all'inizio MELLONI VIGNOLO