Alberto Melloni

UN FUTURO DIMENTICATO?


Il discorso alla luna

In apertura vi mostro alcune sequenze del Concilio Vaticano II.

Roma 11 ottobre 1962: la sera dell’Apertura del Vaticano II. Il Papa ha un tumore, glielo hanno diagnosticato a settembre, in novembre lo ha saputo anche lui. Nonostante questo è riuscito a portare fino in fondo l’idea - che aveva annunciato il 25 gennaio - di fare un Concilio, anche se in un modo molto strano: facendolo preparare tutto alla Curia romana, luogo capitale dell’ostilità al Concilio. Finalmente i Vescovi sono arrivati e nessuno sa bene che cosa succederà.
Ecco le parole di Giovanni XXIII di quella sera:

Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera, osservatela in alto, a guardare questo spettacolo. Noi chiudiamo una grande giornata di pace, di pace. Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volontà. Ripetiamo spesso questo augurio e, quando possiamo dire che veramente il raggio, la dolcezza della pace del Signore ci unisce e ci prende, noi diciamo: "Ecco qui un saggio di quello che dovrebbe essere la vita sempre di tutti i secoli e ed è la vita che ci attende per l’eternità." Dite un poco, se potessi domandare a ciascuno: "Voi da che parte venite?" I figli di Roma, che sono qui specialmente rappresentati, direbbero: "Noi siamo i vostri figlioli più vicini, voi siete il Vescovo di Roma". Ma voi, figlioli di Roma, voi sentite di rappresentare veramente la Roma caput mundi, così come nella provvidenza è stata chiamata ad essere per la diffusione della verità e nella pace cristiana. In queste parole c’è la risposta al vostro omaggio: la mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato Padre per la volontà di nostro Signore, ma tutto insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio. Tutto, tutto! Continuiamo dunque a volerci bene così, a volerci bene così. Guardandoci così nell’incontro: a cogliere quello che ci unisce e a lasciare da parte quello che c’è, qualche cosa, che ci può tenere un po’ in difficoltà.. Fratres sumus! La luce che risplende sopra di noi, che è nei nostri cuori, che è nelle nostre coscienze, è la vera luce di Cristo, il quale veramente può dominare con la grazia sua tutte le altre. Questa mattina è stato uno spettacolo che neppure la Basilica di San Pietro, nei suoi quattro secoli di storia, ha mai potuto contemplare. Apparteniamo quindi ad un’epoca nella quale siamo sensibili alle voci dall’alto e vogliamo essere fedeli e stare secondo l’intento che il Cristo benedetto ci ha fatto.
Finisco dandovi la benedizione. Accanto a me amo invitare la Madonna santa e benedetta, di cui oggi ricordiamo il grande mistero. Ho sentito qualcuno di voi che ha ricordato Efeso e le lampade accese intorno alla Basilica di là, che io ho veduto con i miei occhi, non a quei tempi si capisce, ma recentemente e che ricorda la proclamazione del dogma della divina Maternità di Maria. Ebbene, invocando lei, alzando tutti insieme lo sguardo verso Gesù benedetto e Figliolo suo, ripensando a quello che è con voi, a quello che è nelle vostre famiglie di gioia, di pace e anche un poco di tribolazione e di tristezza, la grande benedizione accoglietela di buon animo. Questa sera lo spettacolo offertomi è tale da restare ancora nella mia memoria, come resterà nella vostra. Facciamo onore alle impressioni di questa sera e siano sempre i nostri sentimenti come ora li esprimiamo davanti al cielo e davanti alla terra: fede, speranza e carità, amore di Dio, amore di fratelli e poi tutti insieme aiutati così nella santa pace del Signore alle opere del bene. Tornando a casa troverete i bambini, date una carezza ai vostri bambini e dite "Questa è la carezza del Papa", troverete qualche lacrima da asciugare, dite una parola buona: il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e della amarezza e poi tutti insieme ci animiamo cantando, sospirando, piangendo, ma sempre, sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, per continuare a riprendere il nostro cammino. Così dunque vogliate attendere alla benedizione che vi do e anche alla buona notte che mi permetto di augurarvi, con la preghiera, però che non si cominci solamente… oggi noi iniziamo un anno, una anno chissà, continuiamolo bene. Il Concilio comincia e non si sa quando finirà, se potesse finire prima di Natale, ma forse non riusciremo a dire tutto, ad intenderci su tutto bene, ci vorrà un altro ritrovo, ma se ritrovarci così serve ad allietare le nostre anime, le nostre famiglie, Roma, e il mondo tutto intero, vengano pure questi giorni, li aspettiamo in benedizione. Dunque rispondete alle mie parole, alla mia benedizione …

Ci tenevo a farvi riascoltare questo spezzone della sera dell’apertura del Concilio, anche se credo che tutti quanti lo ricordino.. È uno dei frammenti più celebri della storia dell’allora giovane Televisione italiana. Ma soprattutto è un discorso importante perché fissa alcuni punti molto significativi per capire che cosa è stato il Vaticano II, almeno nell’intenzione di Giovanni XXIII che l’ha voluto e l’ha convocato. A fare un Concilio ci avevano già pensato in parecchi: di per sé il Vaticano I era rimasto incompiuto, ma la decisione di papa Giovanni è stata senz’altro una sorpresa per molti.

I diversi atteggiamenti verso il Concilio

Avete sentito alcune espressioni particolari del papa.
Una prima espressione: Giovanni XXIII definisce la giornata dell’apertura del Concilio come una giornata di pace. Non ho qui modo di dilungarmi, ma si potrebbe ricavere molto dall’idea che sottostà a tale definizione..
Una seconda espressione che sarebbe da sottolineare molto è quella di un Papa che dice che la sua persona "conta niente". Non era capitato di frequente nella storia del papato che un Papa dicesse così, e per Roncalli non era un modo di dire. Essa serviva ad introdurre l’affermazione – tutta liturgica – che salda e unisce paternità e fraternità..
Ma non è su questo che ci fermiamo: e tanto meno sui lati caldi e colorati di quel momento che – pur frammento – ci porterebbero in una direzione reale e realmente sbagliata nella lettura del Vaticano II.
Il rischio è quello di fare del Vaticano II un pezzo di antiquariato, come un vecchio disco in vinile, caro a quasi tutti, eccetto ai più giovani di questa sala, perché ricorda un momento della giovinezza, il mito dei 20 anni, la rivoluzione perduta, una serie di nostalgie, più o meno commoventi, più o meno tenere, ma quasi tutte irrilevanti rispetto a quello che il Concilio Vaticano II è stato.
Il Vaticano II viene ricordato miticamente anche da una serie di persone che hanno verso il Concilio un atteggiamento ugualmente emotivo, ugualmente emozionato, ma in un senso diverso. Il Vaticano II per loro è stato l’inizio della fine, l’Apocalisse che è arrivata, il momento in cui è incominciata tutta una serie di guai (i preti hanno smesso la veste, non si dice più la messa in latino, si suonano le chitarre che fanno un orribile rumore) oppure la primavera mancata, la rivoluzione sconfitta, il bel tempo delle utopie.
Sono due atteggiamenti colmi di emotività, di spessore tutt’altro che banale. Due modi equivalenti, simmetrici, mi verrebbe da dire, per non capire che cos’è un Concilio e che cosa è stato quel Concilio.

I Concili: una storia di diversità

Una delle cose importanti da capire è che i Concili nella loro larghezza, vastità, complessità sono un elemento della vita della Chiesa nel quale si manifestano soprattutto delle grandi diversità. Da questo punto di vista, per una mentalità cattolica educata e normale, sono un po’ sorprendenti. In ogni mentalità cattolica ed anche educata c’è l’idea che il Magistero come organo dell’autorità e del potere sia una specie di semiretta continua che non conosce né flessioni, né impennate, che sa sempre dire la cosa giusta che deve essere detta in quel momento e che appartiene al patrimonio della Tradizione. Nella storia dei Concili, invece, vale il principio rovesciato. I Concili sono una storia di grazia e dunque di diversità.. Ci sono Concili banali, ci sono Concili sbagliati, ci sono Concili inutili, ci sono Concili che non sono serviti assolutamente a niente rispetto ai problemi con cui si misuravano e ci sono Concili senza i quali noi non saremmo più in grado di dire chi e che cosa siamo. Un esempio per tutti, il più facile che si possa immaginare: il Concilio di Nicea e il concilio di Costantinopoli nel IV secolo. Per noi è diventato praticamente impossibile riuscire ad esprimere il modo in cui crediamo senza il Credo di Nicea e Costantinopoli. Lo crediamo e lo abbiamo creduto talmente fortemente che abbiamo tradotto il Concilio di Nicea e Costantinopoli in swahaili, in cinese, in tutte le lingue del mondo, con l’idea che quelle categorie, assolutamente ineloquenti fuori dalla cultura del Mediterraneo, siano una realtà senza la quale comunque non si riesce quasi più ad essere cristiani, con l’idea che non siano un di più rispetto al Vangelo, ma piuttosto una lente con la quale misurarsi.

In una breve intervista alla Rai che fa parte della mostra sul Vaticano II, a padre Yves Marie Congar, illustre teologo domenicano che insegnava all’Università di Strasburgo, molto noto per i suoi studi sulla Chiesa e sulla teologia dei laici, era stato chiesto di approfondire il significato del raffronto tra i primi quattro Concili e i primi quattro Vangeli. Ecco la sua risposta:

Questo paragone dei primi quattro Concili con i quattro Vangeli è molto poetico, molto espressivo, ma non ha evidentemente un valore dogmatico. Tutti sanno che in effetti i Vangeli sono veramente ispirati, mentre i Concili sono semplicemente assistiti dallo Spirito Santo, così le parole molto belle e celebri di San Gregorio Magno non mirano a mettere i Concili e i Vangeli esattamente sullo stesso piano. Ciò ha un significato, io credo, profondo e cioè non si possono mettere tutti i Concili assolutamente sullo stesso piano. È evidente che questi primi quattro Concili, che sono come le assise della dogmatica cristiana, sono più importanti di taluni Concili medioevali, che sono tanto Concili politici quanto Concili religiosi. In realtà allora è stato gettato il fondamento della fede nella Santa Trinità e nell’Incarnazione. È così vero che la Chiesa non ha mai sentito il bisogno di aggiungere al credo dei Concili di Nicea e di Costantinopoli delle precisazioni concernenti, ad esempio, l’Eucaristia o il primato papale e ciò perché questo simbolo è completo. Questo può avere un grande interesse quando si pensa alla riunione con gli ortodossi orientali, che come sapete, sono attaccati in modo estremamente grande ai primi sette Concili ecumenici .

La peculiarità del Concilio Vaticano II

Padre Congar, per chi non lo sapesse, è un uomo che ha avuto una vicenda molto complicata e dolorosa col Sant’Uffizio.. Quando arriva il Vaticano II egli usciva da una decina di anni di condanne severissime: gli era stato proibito di insegnare, di scrivere articoli, di corrispondere. Congar – che alla fine della vita Wojtyla fece cardinale – sosteneva questo aspetto della differenza dei concili nel luglio del 1962, pochi mesi prima che il Concilio Vaticano II incominciasse, in un momento in cui si stava chiudendo la fase preparatoria che aveva lasciato tutti, Congar fra questi, piuttosto sconcertati. Il Papa aveva fatto preparare il Concilio alla Curia romana, quindi aveva fatto sì che arrivassero fin quasi davanti all’assemblea conciliare una enorme massa di documenti che non avevano un granché a che fare con quelle che erano state le intenzioni che egli aveva fissato e predisposto per il Vaticano II. Congar però, intelligentemente, intuisce che il problema del Vaticano II è il tipo di posto che vuole avere per il futuro della Chiesa. Se vuol essere un piccolo Concilio di seconda categoria si può fare una cosa molto semplice: si può prendere il materiale preparato dalla Curia ed approvarlo. Sarebbe venuto fuori il Vaticano II che noi oggi, forse per fortuna, non abbiamo: una piccola Enciclopedia delle condanne, dal comunismo al darwinismo con chi sa quali effetti. Oppure il Concilio avrebbe potuto prendere tutto un altro andamento e occuparsi invece di quello che era la percezione con la quale Roncalli lo aveva convocato e cioè l’idea che la Chiesa avesse bisogno di riflettere coralmente sulla sua fedeltà al Vangelo. Fedeltà al Vangelo che era necessario ripensare, pensare in termini nuovi, proprio per essere fedeli ad un contenuto che non accetta semplicemente di essere trasmesso come una mappa del tesoro che indica dove il talento del vero è seppellito, ma come un talento che deve essere fatto fruttare nel tempo e nella storia.
Ciò che Congar diceva dell’importanza del Vaticano II è il vero punto che ancora oggi, 40 anni dopo il Concilio, rimane aperto. Anche se il Concilio è stato qualche cosa di molto diverso da quello che la preparazione sembrava volerlo fare diventare, ancora oggi c’è il tentativo o il desiderio o la volontà di riuscire a fare del Vaticano II qualche cosa di molto piccolo, un Concilio come tanti, con tante affermazioni che ormai sono invecchiate, sono diventate un po’ meno eloquenti, un po’ meno significative.
Minimizzare il Vaticano II e farne un Concilio qualunque, riportarlo alla sfera dell’autorità, farne una operazione come tante non è una operazione criminosa o peccaminosa in quanto tale. È però una operazione che vorrebbe dire che, da qui in avanti, il Vaticano II non ha più niente da dire alla generazione attuale. E questo è ciò contro cui i Padri del Vaticano II hanno sempre combattuto.
Il discorso della sera dell’apertura del Concilio, il discorso della luna di Roncalli, lo diceva già nella sua fase finale, quando diceva "forse non discuteremo tutto entro Natale, però se ci sarà da discutere qualche cosa d’altro, aspettiamo questi giorni con fiducia". Con l’idea che l’espressione conciliare, l’esperienza conciliare dei vescovi che si incontrano e che trovano insieme un modo di ri-enunciare la fede e l’esperienza della fede, è l’essenziale. E’ questo che fa del Vaticano II un Concilio grande.

L’esperienza e la dimensione della comunione

Di questo era convinto non solo papa Giovanni, ma anche l’ultimo papa del Concilio, Giovanni Paolo II (Joseph Ratzinger è stato un teologo non un vescovo del Vaticano II). Diceva Wojtyla nel suo testamento, che secondo lui il Vaticano II costituiva "la grazia" della sua vita di vescovo, la grazia del XX secolo, una grazia che avrebbe parlato anche alle generazioni future.
Perché i Padri del Concilio erano convinti che il Concilio avesse qualche cosa da dire alle generazioni future? Si erano forse illusi? Si erano fatti incantare dalla Gaudet, l’allocuzione di inizio dei lavori in cui papa Giovanni aveva disegnato un concilio di rinnovamento?
Credo che fosse la percezione che nell’esperienza stessa del Concilio era stato possibile a loro vivere una dimensione della Chiesa senza la quale la Chiesa non sarebbe stata in grado di attraversare questo tempo: l’esperienza della comunione.
Nell’800 la risposta alla stessa domanda c’era, ma era diversa la risposta. La convinzione dell’800 era che la Chiesa non avrebbe potuto attraversare questo tempo senza l’autorità. Questa era, come dire, l’anima di Pio IX. Per noi oggi sarebbe facile ironizzare su questa fiducia nell’autorità, ma allora era veramente una convinzione profonda del cuore, dell’esperienza di fede e dell’esperienza della storia.
I Padri del Vaticano II scoprono che c’è un’altra dimensione essenziale che è quella della comunione: questa è una delle cose che ci sta ancora davanti.

Il post Concilio

Che cosa è successo in questi 40anni? In poche righe si possono solo enunciare dei titoli e non mi sottrarrò dal farlo.
Da un lato c’è stata una prima fase del post Concilio che, grosso modo, va fino al ’68, una fase di indubbio e violento entusiasmo, un entusiasmo anche iconoclasta in molte circostanze e che, con il senno di poi, può apparire un po’ esagerato. E’ stato il primo modo in cui il Concilio è stato vissuto, come un grande "rompete le righe" nel quale ciascuno poteva ridisegnare la propria funzione, il proprio posto e la propria vicenda.
Poi c’è stata una seconda fase che ha visto uscire i commentari del Concilio e che è stata la fase delle discussioni, delle lacerazioni, la parte del conflitto attorno al Concilio, una parte in cui tutti hanno sofferto: quelli che domandavano cose che non si potevano avere, quelli che condannavano cose che si potevano chiedere, quelli che non capivano che cosa stavano chiedendo e che cosa stavano condannando. Una fase di effervescenza non breve e non piccola che per alcuni è stata non un transito, ma uno shock.
Leggete la biografia di Ratzinger fino al ‘77 e troverete una larga parte in cui un teologo di grande autorevolezza e di grande intelligenza ha vissuto dolorosissimamente questo momento che lui chiama "della confusione". Fase che è un po’ finita, probabilmente, con l’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, col tentativo del Sinodo del 1985 di ritrovare un punto di equilibrio per non lasciare il Vaticano II al puro gioco dei sentimenti e delle recriminazioni.
Eppure, dopo il 1985, si è vissuta una fase di nominalismo conciliare nella quale del Concilio Vaticano II, che è l’esperienza che abbiamo più vicina, quasi tutti parlano quasi bene (il che secondo un famoso ammonimento di Gesù nel Vangelo, non è la migliore cosa che possa capitare). Perché tutti ne parlano quasi bene per inchiodarlo al passato, farne un monumento muto, lasciarlo al regno delle nostalgie. Mentre questo nominalismo conciliare e questa riduzione sentimentale prendevano piede, ci si è anche resi conto che quella convinzione così profonda, quella espressa bene dal testamento di Wojtila, aveva bisogno di essere ricapita.
E questo è il punto in cui ci troviamo noi oggi.

L’oggi e alcune domande "spregiudicate"

Da questo punto di osservazione possiamo porci domande un po’ spregiudicate.
- Ci serve il Vaticano II? Caso mai si potrebbe fare il Vaticano III, se proprio si volesse fare qualche cosa di aggiornato o di un po’allettante …
- Che cosa ci può essere in quella montagna di testi degli anni ‘60 che serva per l’oggi?
- Perché mai dovremmo interessarci al Vaticano II?
Sono delle domande con cui bisogna misurarsi onestamente tenendo conto del peso storico e teologico di quel dato di comunione che evocavo poco fa.
Il Vaticano II non è eludibile perché è la sorgente di una esperienza di comunione e di una nostalgia di comunione senza la quale essere cristiani di questo nostro tempo non è più possibile. Si può essere pentecostali, ma non cristiani; si può aderire ad una religione terapeutica dell’emotività, quella che sana le ferite, quella che sostituisce a basso costo la psicoterapia, ma non si può essere cristiani, senza i capisaldi del Concilio stanno ancora oggi nell’agenda delle chiese.
Minimizzare il Vaticano II vuol dire minimizzare punti essenziali per fare una esperienza spirituale cristiana che sia degna di questo nome, che recepisca l’esigenza della comunione come esigenza non negoziabile, non rinunziabile, che recepisca l’esigenza di rimettere l’Eucaristia, e il Vangelo - che vuol dire Gesù in buona sostanza - al centro della vita cristiana insieme all’esigenza della pace e della povertà.

La comunione tra le Chiese

Il Vaticano II aveva l’ambizione di essere un Concilio ecumenico e di rappresentare la comunione fra i cristiani delle diverse chiese, anche visivamente segnata dalla presenza dentro l’aula conciliare di osservatori di non cattolici. Noi viviamo oggi in una condizione in cui le chiese si sono trasformate in un modo drammatico nei loro rapporti. I cristiani non si uccidono più, normalmente, e questo è un bene. I cristiani non si odiano più e questo è un bene. Però le chiese cristiane sono diventate come enti che si rispettano, ma niente di più.. Oggi i cristiani sentono la divisione delle chiese perfettamente tollerabile, non come uno scandalo. Oggi se mai il problema è come affrontare le lacerazioni dentro le confessioni, non fra le confessioni.
Il Concilio su questo ci insegna una delle cose di cui non possiamo fare a meno: percepire le realtà che ci stanno intorno (quelle ecclesiali e non) nella loro realtà. C’è stata, forse, negli anni dopo il concilio, un po’ di illusione sul fatto che fosse facilissimo arrivare all’unità delle chiese, accelerata anche da una certa "garibaldineria" nella pratica d’intercomunione; o che l’unità delle chiese potesse essere negoziata politicamente per fare fronte comune contro gli atei o essere più capaci di fare missione, ma il problema della divisione dei cristiani è un problema di rango diverso. Quando l’anima di un cristiano non sa sentire nella sua chiamata evangelica una dimensione di cattolicità che non può e non sa accettare confini, non ha ancora scoperto la cattolicità. Ha ragione padre Radcliffe, il maestro dei domenicani, nel dire che non si è mai cattolici abbastanza, però abbiamo un deficit: non sappiamo più trovare nella nostra esperienza cristiana una ragione di progresso, di dinamismo. È il problema che sta tutto dentro il Vaticano II ed è parte del nostro futuro.

Liturgia e Scrittura

Il Vaticano II si è confrontato con due grandi temi, quello della liturgia e quello della Scrittura, come perni della vita cristiana. Se è vero che dopo il Vaticano II c’è stato un po’ di "garibaldinismo" biblico e liturgico, il problema oggi non è rimoderare eccessi ormai dissolti, ma verificare se l’appartenenza alla Chiesa cattolica è una appartenenza definita dall’ascolto del Vangelo e dalla partecipazione al Sacramento e alla Mensa eucaristica o da altro. E non è un segreto che molto spesso sia definita dall’adesione al movimento, da una certa condivisione di atteggiamenti di tipo etico-civile, dalla convinzione che il cristianesimo abbia una funzione nello sviluppo dell’occidente piuttosto che un altro.. Su tutto questo le chiese oggi, le comunità, le persone si misurano molto violentemente.

L’esigenza della pace

Nel discorso della luna si definisce l’apertura del Concilio come una giornata di pace. Un valore, richiamo che sta là, ma che sta anche davanti a noi, estremamente importante. C’è una questione che è la pace in Concilio e c’è una questione che è la pace nel post concilio, argomento controverso, di lotta politica anche molto forte. Nessuno forse se lo ricorda più, ma un ragazzo cattolico si diede fuoco davanti all’Onu perché il Concilio approvasse il documento sulla pace "Gaudium et Spes". Ci sono state tante esagerazioni, banalizzazioni ed enfatizzazioni, ma la questione della pace continua ad rimanere il punto su cui le chiese si misurano e sono misurate "dall’Agnello" che è voce e carne di tutte le vittime.
Ascoltiamo una intervista del dicembre del 1965, quando mons. Ancel, vescovo francese, ex prete operaio, spiega che cosa è stata la presa di posizione della Gaudium et spes sul tema della pace:

Il problema della pace e della minaccia delle armi nucleari è stato l’ultimo dei grandi temi affrontati nel Concilio. Su questo decisivo problema del nostro tempo, abbiamo interrogato il vescovo francese mons. Ancel, l’unico vescovo che ha fatto l’esperienza dei preti operai e che ha quindi una particolare sensibilità per i problemi e le angosce dell’uomo moderno.
Quale deve essere la posizione della coscienza cristiana dopo il Concilio sul problema della bomba atomica, dell’equilibrio atomico e della pace?
"Quando si parla della bomba atomica sarebbe meglio parlare della guerra totale, cioè di quella guerra che colpisce anche le popolazioni non combattenti, e che può distruggere delle zone immense. Questa guerra totale il Concilio l’ha condannata in modo solenne e già i papi, per esempio papa Giovanni o il papa Paolo VI, l’avevano già condannata. Dunque la coscienza cristiana non può mai ammettere la guerra totale. Poi si parla dell’equilibrio atomico, cioè dell’equilibrio del terrore veramente. Non possiamo noi entrare nell’esame di coscienza che può porsi in quella occasione, né possiamo giudicare la responsabilità dei capi di Stato, ma dobbiamo dire che l’equilibrio del terrore non è un rimedio buono, non è conforme al Vangelo, certamente no. E poi le spese immense che sono necessarie per quell’equilibrio del terrore impediscono l’aiuto alle nazioni povere. Dobbiamo dunque avere un vero amore della pace, la pace non è solamente la paura della guerra, dobbiamo avere un amore di pace universale, totale, dobbiamo amare tutte le nazioni. Quello che dice che ama la pace e che ama tutte le nazioni, ma non ne ama alcune, quello è un falso amatore della pace. Veramente dobbiamo amare tutti gli uomini. E secondo, l’amore alla pace esige che ci sia una rinuncia definitiva alla guerra".

Questa questione è là in fondo e nonostante tutte le cose che ci sono state è ancora davanti a noi e non in modo tanto teorico. Questo è il nodo con il quale i cristiani si misurano oggi ed è la questione con la quale la Chiesa misura tutte le sue inadeguatezze, tutte le sue difficoltà a trovare un linguaggio. Il tema della pace, come giustamente aveva capito il Concilio, mette in gioco l’autenticità evangelica. O si mette in gioco l’autenticità dell’esperienza cristiana, o altrimenti si entra nel gioco delle casistiche, delle negoziazioni, degli scontri, delle trattative che non ha più fine e nel quale si perde il senso che per i cristiani la pace è sempre presupposto della vita comune.

La povertà

Recita così la Lumen Gentium al n.8:

Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza.

Questa è una cosa che sta lontano, dietro di noi, in momenti in cui un ingenuismo pauperista pensava che le diocesi vendessero il loro patrimonio immobiliare. Il Concilio dice che il povero è Gesù e che "prendere la stessa via" (ad eamdem viam ingrediendam) è una vocazione che sta oggi davanti alle chiese. È possibile comunicare il Vangelo senza una certa dose di povertà materiale, dottrinale, di potere? La risposta del Concilio è una comunicazione chiara: no! La nostra esperienza pastorale è giocata molto spesso sulla convinzione contraria: per predicare il Vangelo è necessaria una certa dose di autorevolezza politica, qualche volta una overdose di autorevolezza politica, una discreta disponibilità di risorse, un apparato di culture e filosofie. E su questo il Concilio sfida la Chiesa.

Il problema della discontinuità

Non vorrei però aver dato l’impressione che discorrere del Vaticano II si riduca a trovare testi o punti che al gusto d’ognuno paiano centrali. Il problema vero è un altro: cioè chiedersi che cosa si fa, come si fa a riscoprire il Vaticano II e a rimetterlo nell’orizzonte del nostro futuro?
Su questo l’esperienza di chi ne ha studiato la storia dice che per farlo bisogna percepire la grandezza del Concilio, bisogna lasciarselo raccontare e raccontarselo, perché quello storico-narrativo è uno degli strumenti più importanti per riuscire a rimemorizzare, a percepire l’importanza, la forza, il punto critico, la svolta.
L’estate scorsa c’è stato un rapido fuoco di paglia, polemico, su chi si sbaglia a leggere la storia del Concilio. Un ecclesiastico romano, mons. Agostino Marchetto, preoccupato da chi afferma che il Vaticano II ha segnato una discontinuità in una storia piatta, ha pubblicato un insolito volume di recensioni per dire che il Vaticano II va letto nella continuità di un magistero interrotto. Si potrebbe discettare a lungo sui termini e sulla sostanza, perché il Vaticano II è certo stato in continuità con la Tradizione, ma per farlo ha dovuto rivedere e abbandonare usanze e mentalità obsolete. Ma si può in prima approssimazione convenire che il problema della discontinuità è cruciale per capire il Concilio. Se ha ragione mons. Marchetto, il Vaticano II è un piccolo Concilio, che non ha fatto altro che ripetere alcune cose che si sapevano già, è un compromesso fra una piccola dose di innovazione tollerabile al corpo immuno-depresso della Chiesa cattolica e una buona dose di irrilevanti discorsi inutili per tenerla in una condizione ragionevole. Mons. Marchetto non condivide l’idea di Giuseppe Alberigo, mia e di tutta una serie molto lunga di altre persone, che pensa di avere colto nel Concilio una "svolta". La piccola polemica si è chiusa in qualche modo il 22 dicembre scorso quando sull’argomento è intervenuto Benedetto XVI, affermando che il Concilio Vaticano II non ha portato una discontinuità, ma ha portato riforma: formula, come tutte, da capire..
Riforma rispetto a che cosa? Svolta rispetto a che cosa? È qui che si gioca il problema del passato e anche un po’ il problema del futuro. La pretesa che il Concilio aveva, che i Padri del Concilio avevano - Giovanni Paolo II ha parlato di "spirito del Concilio" - è quella che il Vaticano II avesse portato una svolta rispetto ad un modo di essere, non rispetto alla verità, ma rispetto al tempo. Per definizione la Chiesa non conosce soluzione di continuità nel crescere, altrimenti perderebbe la fede. Però la Chiesa non vive nel nulla storico senza riferimenti temporali attorno: vive dentro un tempo storico e dentro questo tempo storico che cambia è necessario, perché la fede continui ad essere quello che vuole essere - lieto annuncio, Parola di salvezza, segno del perdono - che questo annuncio venga rimodulato, ripensato, rivissuto.
La svolta sulla quale il Vaticano II si è impegnato, e che secondo me ha prodotto, è esattamente questo: non credere che il problema della verità cristiana vada seppellito come un talento, sperando che la pioggia nichilista, i mali del comunismo, il gelo del consumismo non lo rovinino, ma trafficare questo talento perché renda nella comunione degli uomini e del tempo.
Questo mi sembra ci possa aiutare a capire che cosa fare del Vaticano II: non una lettura corsiva che non serve a niente, ma neanche un cullarsi nell’idea che del Concilio si possa fare del tutto a meno. È un modo, una occasione, una provocazione per misurarsi continuamente con un modo dire la fede senza il quale, e questo va saputo, la nostra fede rischia un intiepidimento, non un rafforzamento.
Il rischio è che accada oggi ciò che è successo 40 anni dopo il Concilio di Calcedonia – il Concilio dell’unione delle nature distinte e non confuse di Gesù Cristo – quando l’imperatore fece un sondaggio fra i vescovi, per sapere quanti di loro credevano secondo la fede di Calcedonia e quanti invece non avevano ancora le idee chiare. Il risultato fu sconcertante e deprimente. Pochissimi vescovi si ricordavano di Calcedonia. Oggi per il Vaticano II è un po’ così: anche chi dice di sapere, chi ne parla bene, chi ne parla male, in realtà ne sa poco.. Ma esattamente come ai tempi di Calcedonia il problema è quello di sapere se noi oggi possiamo avere una autenticità di fede cristiana che prescinda dall’intensità delle domande e dalla profondità delle risposte che il Concilio si è dato. Il problema non è la "par condicio" fra chi ama la Messa in latino e chi ama la Messa in italiano. Il problema è quello di sapere se per i cattolici normali, diciamo così, con un tasso di nostalgia non troppo alto, è possibile vivere una autenticità di fede che prescinda o, addirittura, rifugga dall’intensità delle domande e dalla profondità delle risposte delle Concilio. A me sembra che così non sia e che il Vaticano II sia ancora la cosa che ci pungola e ci serva per riuscire a prendere sul serio il cammino della fede cristiana come un cammino.
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