RESISTENZA E RESA
Mario Antonelli
La
protesta ateistica
La rassegnazione "religiosa"
Il presupposto e le sue conseguenze
La giustizia di Dio e il peccato dell'uomo
La resistenza e la resa di Gesù
Resistenza e resa: dentro il travaglio della
tribolazione che la vita riserva, resistenza e resa creano come
un campo di tensione. Ci appaiono spesso come due atteggiamenti
contrapposti. Forse perché abbiamo smarrito la
consuetudine a contemplare Gesù e, in lui, l'intrecciarsi
di queste due attitudini, meglio, di questi due aspetti
dell'unico atteggiamento di Gesù. Ecco allora che anche
per il cristiano si prospetta il rischio di scegliere ora la
resistenza ora la resa, l'arrendevolezza; così la
sofferenza non viene vissuta "secondo il pensiero di Cristo", ma
secondo una resistenza che diventa protesta persino ateistica,
secondo una resa che diventa rassegnazione che si presume
"religiosa".
In quella accattivante rivisitazione che M. Pomilio ci ha offerto
del dramma intrecciatosi nel cuore di Manzoni in occasione della
morte della prima moglie, è dato di ascoltare parole che
singolarmente combinano domande ed intuizioni circa il senso
cristiano della sofferenza: come le parole della madre, donna
Giulia, al termine della sua lunga confidenza:
Così invece, con l'animo appannato
(Alessandro è ormai stanco, dice sua madre, stanco e
fiaccato, e il suo viso rende l'immagine d'un cuore vilipeso),
è costretto a passare per tutta una gamma di congetture
moralmente terribili e speculativamente disperanti, che rischiano
di spingerlo fino a luoghi dai quali non si può tornare.
"Perchè, amica mia," conclude donna Giulia [...] fin
quando ci si ostina a voler mescolare Colui che è
lassù al nostro miserabile stato, cos'altro ci attende se
non di pensare o ai soprusi del cielo o a una sua
impossibilità? Cos'altro, dico, rimane alle nostre povere
menti se non, ahimè, di dover scegliere tra una di queste
due eresie: che è Dio a volere il dolore dell'uomo, o il
dolore dell'uomo è lo scacco di Dio?1.
Che la storia presenti senza sosta volti che, nella
loro sofferta sfigurazione, rendono l'immagine di cuori vilipesi,
è cosa che nessuno vorrà negare; che si tenti
spesso di rimuovere lo scandalo dei mille gemiti di sofferenza
quasi per coprire elegantemente le proprie obiettive
complicità nel produrre dolore, è cosa che ognuno
che abbia una qualche sincerità deve ammettere. L'impatto,
invero inevitabile, con il soffrire di ogni tipo suscita reazioni
che oscillano tra l'invocazione supplice e l'insulto a Dio, tra
la rassegnazione "religiosa" e la protesta ateistica, tra la
condivisione compassionevole e l'emarginazione anestetizzante
della sofferenza propria e altrui: fino agli estremi
rappresentati ora dall'esaltazione elogiativa della sofferenza,
ora dal fattivo desiderio di anticipare quella morte di cui la
sofferenza resta l'anticipazione più clamorosa.
E' pur vero che, a fronte di tali esperienze, il pensiero
credente non sembra immune da una certa sottomissione alla moda
del tempo: impegnato talvolta a rincorrere la retorica di
espressioni ammiccanti ed emotivamente dense, trascura di
rigorizzare la ricerca teologica, rischiando così di
assecondare la protesta ateistica e/o la rassegnazione
"religiosa". Proprio riguardo alla sofferenza il cristiano non
può diffondersi a parlare del "silenzio di Dio" senza
illustrare questa espressione attraverso la memoria di quel
silenzio di Gesù crocifisso che è semplicemente la
parola di Dio. Un discorso teologico sulla sofferenza, pur nel
suo carattere introduttivo, deve incrociare questi atteggiamenti,
tentando di rinvenirne i presupposti fondamentali; su questa
premessa sarà possibile approntare uno schizzo del
significato cristiano della sofferenza.
La protesta ateistica
La protesta contro la sofferenza ha esplicitato da
sempre le sue domande: la testimonianza biblica come qualche
sussulto della tragedia classica ne danno prova e disegnano
l'inarcarsi di un uomo che, nella prosternazione, si avventura in
temerarie interrogazioni. Tuttavia non è superfluo
rammentare il dramma della coscienza moderna che, in ragione di
una sofferenza macroscopicamente "ingiusta", si avvia più
o meno comodamente a negare Dio. La solidarietà tra le
domande "Perché la sofferenza?" e "Dove è Dio?" si
radicalizza fino a prospettare lo spazio dell'ateismo.
La drammaticità di questa protesta ateistica che cresce
esponenzialmente in rapporto all'accadere clamoroso della
sofferenza è singolarmente evocata nel racconto della
"notte" dell'Olocausto, consegnatoci da E. Wiesel:
Mai dimenticherò quella notte, la prima
notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e
per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai
dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo
visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre
la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che
mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. Mai
dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e
la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi
condannato a vivere quanto Dio stesso.
Mai. [...] Oggi non imploravo più. Non ero
più capace di gemere. Mi sentivo, al contrario, molto
forte. Ero io l'accusatore, e l'accusato, Dio. I miei occhi si
erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza
Dio, senza uomini; senza amore né pietà. Non ero
nient'altro che cenere, ma mi sentivo più forte di
quell'Onnipotente al quale avevo legato la mia vita così a
lungo2.
La forma "grave" della sofferenza appare
problematica; tanto problematica da rendere ingiustificabile la
simultanea affermazione di Dio. Innesta, tale problematica
sofferenza, la problematizzazione di Dio e del suo comportarsi
per il bene dell'uomo. Se poi si va ad attingere acriticamente o
inconsciamente a quella serie di attributi che dicevano
tradizionalmente la perfezione di Dio (la sua onnipotenza, la sua
onniscienza, la sua bontà provvidente...), sembra essere
gioco-forza concludere ad una ingiustizia palese di Dio nel suo
agire. Per alcuni questa percezione dà luogo ad una supina
accettazione del "male" e del "cattivo agire" di Dio, quasi in un
rapporto solo nominalmente religioso, in quanto configurato come
soggiogamento ad una minacciosa onnipotenza ed alla sua
capricciosa ed imperscrutabile arbitrarietà; per altri
invece lo stridore tra l'ingiustizia divina e la tradizionale
affermazione di Dio e della sua perfezione produce la negazione
di Dio quale fondamento trascendente della storia.
Si potrebbe riconoscere la coerenza di tale esito ateistico
rispetto alle sue premesse: eppure dobbiamo ancora evidenziare
quel tacito presupposto che comanda questa protesta e la sua
argomentazione e, insieme, ne scopre l'intrinseca debolezza.
La rassegnazione "religiosa"
Pare quindi che per chi non intenda concludere alla
negazione di Dio si prospetti come unica sensata soluzione del
dilemma quella di dimorare in una rassegnazione che si pretende
essere conforme alla volontà di Dio e/o al Vangelo.
Ciò che sorregge la rassegnazione "religiosa" è la
convergenza, più o meno esplicita, di due dinamiche. Si
ascrive il dato problematico della sofferenza a Dio, alla sua
responsabilità, quasi attribuendo a lui quell'«agire» che
produce il soffrire umano; insieme, non si deduce da simile
attribuzione una giustizia divina scriteriata e stravagante, per
certi versi fatalistica, ma si fa rientrare quell'agire di Dio
dentro l'orizzonte della sua onnipotenza che è
contrassegnato dalla bontà e dalla misericordia.
Tant'è che ci si abitua a considerare il soffrire umano
come prodotto dell'agire stesso di Dio; a questo agire ed al suo
effetto bisogna rassegnarsi e per essi bisogna essere grati.
Perfino vanno desiderati in quanto avvengono in vista di una
giusta conduzione della storia, entro un piano provvidenziale che
prevede provvidenzialmente appunto, il "dono" di qualche
sofferenza in ordine alla conversione, alla purificazione dal
peccato. Che, se poi capita di dover spiegare qualche sofferenza
"innocente", si dirà che essa serve a compensare la
sofferenza prodotta dalla malvagità umana.
Se non ci spinge fino all'elogio della sofferenza quale dono
provvidenziale di Dio, talvolta almeno si avverte sottilmente
nella "buona dose" di soffrire quel castigo purificante che la
giustizia onnipotente non può non seminare in modo
insindacabile, or qui or là, in una esistenza umana
complessivamente ribelle. La sofferenza viene giustificata come
opera giusta del Dio buono nei confronti dell'umanità
cattiva:
La "giustificazione" filosofica e teologica di Dio,
nella forma ormai classica della "teodicea", si assume appunto
l'onere di giustificare Dio in rapporto alla sofferenza. Ma
meglio si direbbe, in rapporto agli esiti culturali di tale
operazione, di giustificare la sofferenza in rapporto a Dio. Un
esito paradossale della teodicea in effetti sembra essere proprio
questo: lo sforzo di garantire la qualità morale
dell'essere e dell'agire di Dio, a fronte della protesta elevata
sulla base dell'umano soffrire, ha condotto ad una ambigua
giustificazione della sofferenza medesima, ovvero ad una sua
organica integrazione nel quadro dell'esistente in quanto sia
"calcolabile" come vantaggiosa3 .
Potremmo certo rilevare la dissonanza tra la
rassegnazione "religiosa" all'insindacabile giustizia di Dio e
l'annuncio evangelico incentrato nella Pasqua di Gesù; ma,
previamente, urge richiamare, come per la protesta ateistica, il
tacito presupposto che determina l'argomentazione soggiacente ad
una simile giustificazione religiosa del soffrire umano.
Il presupposto e le sue conseguenze
Non resta altro alle nostre povere menti, poco
consuete forse a frequentare il dolore di Gesù, che
scegliere tra queste due eresie? Che è Dio a volere il
dolore dell'uomo o che il dolore dell'uomo rappresenta lo scacco
di Dio?
Tuttavia, donna Giulia, nel romanzo di Pomilio, indicava
sapientemente quel vizio che affliggeva e l'una e l'altra eresia;
ed invitava così le nostre menti, comunque povere, ad
aprirsi intelligentemente al senso cristiano della sofferenza.
Inevitabili le due eresie - il sopruso "tutto sommato" giusto e
provvidenziale del cielo o l'impossibilità del cielo
stesso - "fìn quando ci si ostina a voler mescolare Colui
che è lassù al nostro miserabile stato".
L'ostinazione continua. E' dato di incontrare ancora nella
compagine ecclesiale una facilità preoccupante nel
defìnire avvenimenti tra i più disparati, piacevoli
o meno, quali interventi diretti di Dio nella storia. Abbiamo a
che fare con un'enfasi del miracolistico che tende a leggere
tutto o quasi in termini di volontà di Dio:
Non è necessariamente, simile affermazione
["non cade foglia che Dio non voglia"], segno di grande fede:
può sottendere una tale disattenzione nei confronti
dell'autonomia e della consistenza del creato, da correre
addirittura il rischio dell'idolatria (quegli idoli che si
credeva di onorare sacrificando gli esseri umani) o della
superstizione (che vede divinità o spiriti all'opera
dovunque)4.
L'inflazionata attribuzione alla volontà di
Dio di eventi semplicemente clamorosi o casuali o originali, non
può che favorire la permanente drammatica oscillazione tra
le due eresie. Non solo perché, in questa linea, si
offusca quella fede cristiana che è incardinata
all'intervento di Dio, alla sua volontà il cui nome
è Gesù Cristo e la comunione degli uomini con lui;
ma anche perché il "tutto è voluto da Dio" nasconde
una concezione meccanicistica del rapporto tra l'uomo e Dio, tra
la storia ed il suo fondamento trascendente.
Ci si ostina a voler mescolare Colui che è lassù al
nostro miserabile stato; ci si ostina a trascinare Dio nelle
vicende determinate dalla libertà umana e dalla sua
storia, quindi anche dal suo peccato, dalla sua disattenzione,
dal suo limite; dimenticando, in tal modo, che la provvidenza di
Dio, il suo onnipotente amore si sono espressi nella creazione di
una umanità che vanta una sua propria irriducibile ed
insequestrabile libertà; si è espressa, quella
provvidenza, nella creazione di un "mondo" che procede secondo
leggi determinate e non casuali nè bistrattabili da una
fantasiosa ed incontinente attività divina. Si dimentica
che la cura premurosa da parte di Dio per la "buona riuscita"
della libertà dell'uomo non si svolge,
contradditoriamente, sopprimendo o sostituendosi alla
libertà stessa, ma offrendo quel dono, il Figlio -
Gesù - che liberamente va accolto:
[...] Dio e uomo, esistenza di Dio e consistenza
dell'uomo, prowidenza divina e responsabilità umana non
sono concorrenziali ma crescono insieme5 .
La giustizia di Dio e il peccato dell'uomo
Accennata l'inconsistenza di questo presupposto,
risulta l'intrinseca fragilità delle due "eresie" circa la
sofferenza nel suo rapporto a Dio. Alla facilità con cui
si ascrive a Dio ed alla sua giustizia la responsabilità
del soffrire umano non corrisponde forse un'eguale
facilità nel dimettere le proprie responsabilità e
nel celare la propria ingiustizia?
Invero, la giustizia di Dio non è il profìlo "duro"
del volto di Dio; non si segnala in un gioco ad intermittenza
insieme alla sua misericordia. La giustizia di Dio consiste nella
fedeltà assoluta di Dio al proprio onnipotente amore; non
già la minacciosa ed inquisitoria presenza di un "dio" che
scimmiotta la giustizia umana ed assume i parametri di questa,
quanto l'infinita ed eterna dedicazione di Dio all'uomo, la sua
fedeltà incondizionatamente stabile alla promessa di
salvezza: questa è la giustizia di Dio. Quanto
antropomorfismo invece in quella "giustizia" di Dio che coincide
con l'invenzione da parte sua di sacche di sofferenza quale
strumentazione didattico-pedagogica per attivare la conversione
da parte dell'uomo!
Il dolore non è frutto della giustizia di Dio: è
piuttosto da mettere in relazione al peccato, all'incuria
dell'uomo, all'ingiustizia che abita i cuori ed il mondo intero:
senza ricadere nell'idea di una antropomorfìca giustizia
divina o di un implacabile fato che collega il dolore del singolo
uomo alla "quantità" del suo peccato.
[...] il dolore deriva dalla libertà
dell'uomo, è legato alla limitatezza/peccaminosità
dell'uomo, non di questo o di quell'uomo, di questo o di quel
popolo. In altre parole, è legato al peccato originale:
che è oggi, per noi, un dato di fatto, antecedente la
libertà dei singoli, "nel contesto" del quale la
libertà dei singoli si esercita6.
La resistenza e la resa di Gesù
Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi
discepoli lo interrogarono: "Rabbì, chi ha peccato, lui o
i suoi genitori, perchè egli nascesse cieco?". Rispose
Gesù: "Nè lui ha peccato nè i suoi genitori,
ma è così perchè si manifestassero in lui le
opere di Dio"7.
L'ingresso nella testimonianza biblica ci porterebbe
lontano: in particolare, l'ascolto della storia di Gesù
richiederebbe ben altra considerazione. Ci limitiamo ad una
semplice provocazione.
Gesù non si sofferma a teorizzare sull'origine del
soffrire dell'uomo, non dedica tempo e non accondiscende ai
tentativi "archeologici" dei discepoli di rinvenire la causa di
quella cecità: piuttosto, perentoriamente, dichiara che
quella cecità non evade dall'orizzonte della gloria di
Dio. Dice che "è così" perché si manifesti
in lui la potenza di Dio. La potenza di Dio, ovvero il suo
permanere fedele nell'amore che salva, non trascura alcuna zona
dell'umano esistere e non abbandona alcun gemito della creatura
sofferente. Nessuna situazione "è così" dolorosa da
restare esclusa dalla misericordiosa e tenace offerta di speranza
che Dio assicura. Tutta la testimonianza di Gesù si dipana
come testimonianza risoluta e senza macchia di questa giustizia
divina: si dà in quella storia il disvelarsi stesso di
questa giustizia. Nessuna ombra di ricatto minaccioso, nessuna
parola terroristica, nessun gesto clamorosamente punitivo in
funzione pedagogica; ma una cristallina ed incondizionata
fedeltà alla sua comunione con il Padre della
misericordia, così cristallina, quella fedeltà, che
non soccombe alla sofferenza, così incondizionata che non
antepone il mantenimento della propria vita fisica alla
testimonianza dell'amore del Padre.
Gesù non ha cercato la sofferenza, non ha cantato nessun
inno elogiativo della morte; ha cantato l'inno sommo ed unico
all'amore di Dio, ha cercato la fedeltà dell'obbedienza al
Padre, in mezzo agli uomini peccatori e per gli uomini peccatori:
per questo la sua fedeltà, ovvero la giustizia divina, ha
assunto il volto della passione. La singolare comunione di
Gesù con il Padre si coniuga in una ferma sopportazione
del dolore sostenuta dalla misteriosa vicinanza di Dio, in
un'appassionata e compromettente lotta contro il dolore e le sue
cause, in una trasformazione del dolore e della sua forza
accecante in esperienza della condivisione e della speranza.
Questa la resistenza di Gesù; questa la resa di
Gesù: germogliano entrambe dalla sua obbedienza filiale al
Padre misericordioso, al "custode di Israele, che non si
addormenta, che non prende sonno, che veglia di giorno e di
notte". Gesù si arrende non al dolore, ma al mistero di
Dio8:
una resa segnata dalla confìdenza, dal suo conoscere il
volto del Padre. E proprio questa resa, in quanto tale,
non suscita rassegnazione, dimissione rinunciataria, ma si svolge
come resistenza, dedizione perseverante nel riscattare ogni uomo
da ogni schiavitù del male, "pazienza" nel dolore, buona
disposizione di sé nel pregare, nell'attendere una
liberazione, capacità di perdonare i veri fautori del
soffrire, gli uomini, non Dio...
Questi saranno anche i contorni della resa del cristiano a Dio
nella sofferenza, questi saranno i contorni della resistenza del
cristiano in Dio alla sofferenza.
NOTE:
1M. Pomilio, Il Natale
del 1833, Rusconi, Milano 1983, p. 125.
2E. Wiesel, La notte,
Giuntina, Firenze 1991, pp. 39s; 69s.
3P. Sequeri, Il senso del
discorso teologico sull'agire di Dio e le difficoltà
irrisolte della sua "giustificazione" in rapporto alla sofferenza
dell'uomo, in:AA. VV. Il significato cristiano della
sofferenza, La Scuola, Brescia 1982, p.104.
4M. Serenthà,
Sulla sofferenza umana 1. Il dolore umano e Dio creatore,
in: «La rivista del clero italiano» 72 (1991),
86-101: in particolare p. 96.
5Ibid., p. 97.
6Ibid., p. 94.
7Giovanni 9, 1 ss.
8Cfr G. Moioli, La Parola
della Croce, Glossa, Milano 1994, 57-59.

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