GIOVANNI BARBARESCHI
RIBELLI PER AMORE
Tu rinnovi come aquila la tua
giovinezza (Sal 103)
Premessa
L'adolescenza: la scoperta dell'intelligenza
La giovinezza: il valore della libertà
La maturità: L'incontro con il dolore
L'incontro con la morte vissuta nell'agonia di un amico
L'introduzione di don Mirko Bellora
Perché
don Giovanni Barbareschi?
Perché è un'aquila. Perché è una roccia.
Perché
è un uomo di fede. Crede in Gesù Cristo e nella sua
Chiesa. E ha fatto di questa fede un amore. E' uno dei miei
meravigliosi maestri e amici. Mi ha accompagnato nella mia vita
di prete a Desio, a Monza, a Milano. E ha accompagnato,
svegliato, inquietato tanti giovani e non.
Ha scritto il filosofo Emanuel Mounier:
Uomini che hanno
paura del salto:
ecco che cosa siamo
diventati,
uomini educati a diffidare del
salto.
Tutti passano e noi restiamo fermi,
in riva agli abissi dell'avvenire.
Come imparare di nuovo il coraggio di saltare,
proprio in quei punti
dove la prudenza tace o s'impappina?
C'è in don Giovanni una evangelica follia:
non ha avuto paura dei grandi salti. La sua vita è stata
piena di rischi e di doni, di sogni audaci, apparentemente
proibiti. Come Caronte, ha traghettato verso la libertà
degli ebrei. Il "buon Caronte", così l'ha definito Indro
Montanelli ringraziandolo anni dopo "per il valido aiuto che
dette al salvataggio della mia pelle".
In don Giovanni c'è anche poesia: è un
grande narratore. Indimenticabili alcune serate in quel di Motta
dove fede, libertà ed audacia si facevano canto e
racconto.
Il titolo della meditazione di questa sera è
preso dalla preghiera "Il ribelle" di Teresio Olivelli, scritta
per la Pasqua del '44. E' l'insegnamento più alto, da
aquila, che don Giovanni mi ha regalato: che posso essere
ribelle, ma solo per amore.
*****
Premessa
Lo scorso mese di febbraio ho compiuto ottant'anni e
il vostro parroco, don Mirko, mi ha invitato questa sera
perché vi racconti qualcosa della mia vita.
Guardando questi ottant'anni mi sembra di scorgere
tre momenti fondamentali :
-
un primo periodo, l'adolescenza, qualificato dalla scoperta
dell'intelligenza, del suo valore, della sua potenza,
-
un secondo
periodo, la giovinezza, nel quale ho scoperto il valore della
libertà,
-
un terzo
periodo, la maturità, caratterizzato dall'incontro con il
dolore e dall'incontro con la morte vissuta nell'agonia di un
amico.
Voglio parlarvene questa sera, nella certezza della
vostra cordialità e capacità di ascolto. Mi faccio
aiutare dalla forza della fantasia, e immagino di trovarmi in un
rifugio di montagna davanti a un camino e di parlarvi con il
cuore in mano.
L' adolescenza:
la scoperta dell'intelligenza
Ricordo che ero innamorato della mia intelligenza,
del mio voler capire tutto. Avevo fatto un programma, uno schema:
sul piano del capire, idee chiare e distinte, sul piano del
ragionamento, connessioni logiche e necessarie ...
Così la realtà era ridotta a sistema,
era dominata, era mia.
Tutto ciò che non entrava in questo sistema
lo consideravo non razionale, con tutto il peso negativo di
questo giudizio.
Ma lungo il cammino crescono gli interrogativi e le
difficoltà.
Come arrivare al vero in un giudizio storico quando,
pur nel desiderio di essere obiettivo, devo riconoscere che non
riesco mai ad essere neutrale?
Devo ammettere che la mia obiettività si
riduce alla dichiarazione leale del punto di vista dal quale
giudico l'avvenimento.
In campo scientifico posso parlare di verità
raggiunta o devo accontentarmi della rigorosità di una
dimostrazione, che spesso parte da alcuni presupposti non
dimostrati e non dimostrabili?
La crisi adolescenziale diventa ancora più
profonda.
Io cerco la verità o cerco l'evidenza? La
verità si rivelerà a me sempre con un volto
misterioso?
Ma allora amare la verità è amare il
mistero? La mia intelligenza si deve accontentare di una evidenza
raggiunta o ha sete di mistero?
E ancora: conoscere una verità o possedere
una verità? Quando possiedo la verità di
un'amicizia, la verità di un amore, la verità di
una fede ...? Solo vivendo giorno per giorno quelle
esperienze?
Il mio schema iniziale non serviva più
...
La giovinezza:
il valore della
libertà
Nella giovinezza ho incontrato il valore di una
parola che ritengo sacra: libertà.
La libertà è per me il volto
attraverso il quale Dio ha parlato alla mia persona.
La rivelazione di Dio alla mia persona è il
valore sacro della libertà.
Sono profondamente convinto che quando un uomo o un
popolo intero cerca la sua libertà, personale, politica,
religiosa ... che lo sappia o no, quella persona, quel popolo,
cerca Dio.
Nella nostra cultura occidentale siamo abituati ad
una distinzione: atei o credenti. La terminologia più
umana e universale è diversa, è quella che troviamo
nella Bibbia: uomo schiavo o uomo libero.
La mia giovinezza si identifica in sofferenze, in
lotte per aiutare l'affermazione e la crescita della
libertà dentro di me, e per difenderla quando era
calpestata in altre persone.
Nel settembre 1943 mi trovavo alla Casa Alpina di
Motta, in Valle Spluga sopra Madesimo, collaboratore di don Luigi
Re.
Una sera arriva una famiglia: padre, madre, due
bimbi di pochi anni. Chiedono di essere aiutati a raggiungere la
Svizzera perché ebrei, ricercati dai tedeschi e dai
fascisti.
Il mattino seguente viene organizzata una gita al
lago d'Emet, zona molto vicina al confine, una delle gite
abituali per i giovani ospiti della Casa, ma quella volta con un
impegno e una motivazione diversi.
Alla partenza il gruppo da me guidato era composto
di 25 persone. Al ritorno eravamo solo in 21, ma i tedeschi di
guardia al confine non si sono accorti di nulla.
Così inizia per me il periodo intenso della
lotta clandestina, della Resistenza: dal settembre '43 all'aprile
'45.
Aiutare gli ebrei ricercati, aiutare i prigionieri
inglesi fuggiti dai campi di concentramento, aiutare i ricercati
politici o i giovani renitenti alla leva della Repubblica di
Salò ... Dai passaggi in Svizzera attraverso le montagne
dello Spluga ai passaggi attraverso la rete nei dintorni di
Varese o di Luino ... E la conseguente necessità di
fabbricare documenti falsi, certificati falsi, lasciapassare,
salvacondotti, passaporti ...
In quei mesi ho stretto alcune amicizie: con Carlo
Bianchi, con Teresio Olivelli, con Claudio Sartori. Insieme
abbiamo dato vita ad un piccolo giornale, "Il Ribelle",
uscito clandestinamente con 26 numeri e con 11 quaderni
monografici.
Scrivevamo sul nostro giornale: "Ribelli,
così ci chiamano, così siamo, così vogliamo
essere, ma la nostra è anzitutto una rivolta morale. E'
rivolta contro un sistema e un'epoca, contro un modo di pensiero
e di vita, contro una concezione dell'esistenza".
Scrivevamo ancora: "Non vi sono liberatori, ci
sono solo uomini che si liberano".
Anche la famosa "preghiera del Ribelle" è
stata quasi totalmente composta dai miei amici Teresio Olivelli,
morto nel campo di concentramento di Hersbruck nel marzo '45, e
Carlo Bianchi, fucilato nel campo di Fossoli il 12 luglio
'44.
Carlo Bianchi era sposato, aveva tre bambini. Prima
di partecipare attivamente alla Resistenza mi aveva presentato
sua moglie Albertina e le aveva chiesto : "Posso partecipare
anch'io? Ci sono i bambini!". Quella donna eroicamente ha
risposto: "Sì, i tuoi figli saranno sempre orgogliosi
della tua scelta". Era incinta, aspettava la quarta creatura
... Carlo non l'ha neppure conosciuta: è nata quando lui
era già morto.
Scrivevamo ancora nel nostro giornale: "Il nostro
impegno è ad essere, prima che a operare ... siamo
veramente persuasi che influiremo sul mondo più per quello
che siamo che per quello che diciamo o facciamo ... crediamo con
tutte le nostre forze che la verità e l'amore operano nel
mondo per il solo fatto della loro presenza ...".
Così dice la nostra preghiera:
Signore,
che tra gli uomini drizzasti la tua croce,
segno di
contraddizione,
che predicasti la rivolta dello spirito
contro la
perfidia e gli interessi dei dominanti,
a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele,
che in noi e prima di noi ha calpestato Te,
fonte di libere vite,
dà la forza della ribellione.
Dio, che sei verità e libertà,
facci liberi e intensi.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Dio della pace, Signore che porti la gioia,
ascolta la preghiera di noi, ribelli per amore.
Sono diventato prete il 13 agosto 1944.
A questo punto, per espresso desiderio del vostro
parroco, devo aprire una parentesi e raccontarvi la liberazione
dal carcere di San Vittore di Indro Montanelli.
Comandava la piazza di Milano il capitano Theodor
Emil Saevecke, poco più che trentenne, responsabile della
Gestapo, che aveva trasformato l'hotel Regina in via Santa
Margherita nella sede ove avvenivano gli interrogatori più
difficili e dalle cui stanze gli interrogati uscivano sempre in
condizioni pietose.
E' Saevecke il responsabile della strage di piazzale
Loreto, avvenuta pochi giorni prima, il 10 agosto 1944, nella
quale vennero fucilati per rappresaglia quindici italiani
prelevati all'alba dal carcere di San Vittore.
Quale capo della Gestapo disponeva di un apparato
militare efficiente e di un notevole numero di collaboratori
tedeschi e italiani, tra i quali emergeva la figura del
"dottor Ugo", alias dottor Luca Osteria, e la sua
efficiente squadra.
Il dottor Ugo era riuscito a convincere il capitano
Saevecke che era bene facilitare l'esodo da San Vittore di alcuni
"prigionieri importanti" e che questo avrebbe creato
certamente dei meriti presso chi stava ormai in modo evidente
vincendo la guerra.
Avevo conosciuto il dottor Ugo quale responsabile
dell'arresto in piazza San Babila dei miei amici Teresio
Olivelli, Carlo Bianchi e di tutto il gruppo del giornale
clandestino "Il Ribelle".
Mi aveva dimostrato il suo desiderio di acquisire
dei meriti per "dopo" ... concedendomi la possibilità di
alcuni colloqui nel carcere di San Vittore con i miei amici
arrestati.
Un giorno mi chiede apertamente se ero disposto
"attraverso le mie vie provvidenziali" a facilitare
l'espatrio in Svizzera di tre importanti personaggi detenuti a
San Vittore, dei quali uno era particolarmente raccomandato dal
Card. Schuster. Lui avrebbe facilitato l'esodo da San Vittore
fingendo la necessità di un supplemento di istruttoria
all' hotel Regina.
Il rischio era davvero grosso ... Fidarci del dottor
Ugo? E se tutto fosse stata una messa in scena per scoprire
persone e strade dei nostri espatri clandestini?
Decisi di rischiare e la mattina di quel
lunedì 14 agosto mi trovo al portone del carcere di San
Vittore. Arriva il dottor Ugo con una macchina e
contemporaneamente escono dal carcere Indro Montanelli, il
generale Bortolo Zambon consulente militare del Comitato
Liberazione Nazionale Alta Italia, e la signorina Doroty
Brulatour, nipote di Roosvelt che, fidanzata ad un italiano, non
aveva voluto tornare in America. I tedeschi l'avevano
imprigionata perché "preziosa merce di
scambio".
Il dottor Ugo guidava personalmente la macchina, io
ero seduto al suo fianco e dietro i tre prigionieri importanti.
Ai controlli il dottor Ugo presenta il lasciapassare falsificato
a firma Saevecke, e tutto passa liscio. All'uscita
dall'autostrada, poco prima di Varese, per strade secondarie
raggiungiamo Malnate, Cagno, Uggiate, Ronago. A Ronago prego i
tre detenuti di scendere e di seguirmi in una visita alla signora
Palmira Ambrosoli, titolare dell'affermata fabbrica di caramelle,
già collaudata nostra collaboratrice. Qui siamo raggiunti
dalla "signora Lidia", la nostra provata e fedele
fiduciaria per i passaggi più delicati e difficili.
Con Lidia, tutti sottobraccio, quali amici che
desiderano fare qualche passo oltre confine e poi tornare subito,
attraversiamo la sbarra di frontiera. Il militare tedesco di
guardia ci saluta e sorride. Lui doveva fingere di non sapere che
al ritorno qualcuno sarebbe mancato ...
Dopo un quarto d'ora (il tempo necessario ai nostri
amici per raggiungere la caserma svizzera di Novazzano) torniamo
in due, la Lidia e il sottoscritto, non più sottobraccio
...
Non ho più avuto occasione di incontrare
Indro Montanelli. Dopo alcuni anni, nell'anniversario del 14
agosto, giorno dell'espatrio, gli ho scritto : "io sono quel
prete che
" e gli ho indicato il mio vero nome e
cognome.
Ha voluto vedermi e in quell'occasione mi ha
regalato un suo libro con una dedica : "a don Giovannino, il
buon Caronte del suo Indro ...".
A me interessava sapere che cosa Montanelli pensasse
di noi preti ... Mi ha dato questa definizione : "Vi dividete
in due categorie: i mestieranti, che forse voi chiamate
liturgici, e i folli. Lei è un folle".
Chiusa questa parentesi, riprendo il racconto.
Il 13 agosto sono stato ordinato sacerdote. Il 15
agosto ho celebrato la mia prima Messa nella chiesa di Santa
Maria al Castello, di fronte al teatro Dal Verme.
Mi è sembrato molto bello che tra
l'ordinazione sacerdotale e la prima Messa avesse trovato posto
una rischiosa opera di carità fraterna.
La sera stessa del 15 agosto, nel tentativo di
aiutare la fuga di alcuni ebrei in partenza per un campo di
concentramento in Germania, sono stato arrestato dalla SS e
rinchiuso nel carcere di San Vittore, raggio V°, cella
102.
Non ho potuto celebrare la mia seconda Messa se non
dopo un po' di tempo, quando è intervenuto il Card.
Schuster ottenendo dal Comando Tedesco che mi fosse permessa la
celebrazione.
In carcere ho un poco sofferto: gli interrogatori,
le torture, il non poter vedere il cielo stellato...
Ma mi sentivo ed ero un uomo libero.
Quando, dopo circa due mesi, sono uscito dal
carcere, sono andato immediatamente a trovare il Card. Schuster.
Coloro che attendevano di essere ricevuti era seduti nella sala
di attesa, uno accanto all'altro, sulle sedie disposte lungo la
parete. Il Cardinale si affacciava alla porta del suo studio e
diceva: "Appresso" e uno dopo l'altro si andava da lui. Ad
un certo momento, quando ancora non toccava a me, lui apre la
porta, mi vede, viene davanti a me prete di 22 anni e mezzo, si
inginocchia, mi bacia le mani, e mi dice: "Così nella
chiesa primitiva facevano i Vescovi davanti ai martiri".
Lascio immaginare a voi la profonda risonanza che
quelle parole hanno avuto dentro di me.
Erano un inno sacro al valore della libertà,
era come se il mio Vescovo, Padre e Maestro, mi avesse detto :
"Quello che stai facendo è giusto. Va' avanti".
Il Cardinale poi si alza, mi guarda in faccia e,
avendo saputo delle torture, mi chiede : "Ti hanno fatto molto
male gli Alemanni?".
Giorno per giorno ho continuato il cammino nella
difficile lotta della Resistenza, aiutando i fratelli ebrei e i
perseguitati politici, cercando di approfondire e di diffondere
mediante il nostro giornale clandestino i valori della
libertà e della democrazia. Era per me una profonda
esigenza e un preciso dovere di testimonianza.
Sono stato arrestato una seconda volta e portato al
campo di concentramento di Gries, alla periferia di Bolzano.
Là eravamo sistemati per qualche giorno in baracche
provvisorie, in attesa di essere trasportati in Germania.
Nella mia baracca eravamo 21, io ero il più
giovane e per questo volentieri mi prestavo per le fatiche
più pesanti. Un giorno il capo baracca mi dice: "Tu ci
aiuti sempre e porti le fatiche più pesanti; che cosa
possiamo fare per te?". Io, prete novello, quasi senza
rendermi conto di quanto chiedevo, rispondo: "Cercate il modo
di farmi dire una Messa".
Nella baracca c'erano ebrei, comunisti, atei,
indifferenti ... Mi pare che credente, nel senso comune della
parola, fosse uno solo.
Si danno da fare e con l'aiuto del parroco della
parrocchia vicina al campo e di qualche austriaco appartenente
alla SS, riescono a procurarsi il pane e il vino. Come calice,
una scatola del lucido delle scarpe, pulita all'inverosimile. Non
c'erano paramenti, non c'era il Messale. C'era solo pane e vino e
un detenuto prete.
Quegli uomini erano liberi e rischiavano per me e
con me. Se ci avessero scoperti la punizione avrebbe colpito
tutti ed era facilmente prevedibile: isolate celle di rigore
senza acqua e con cibo razionato? schiene nude e frustate col
nerbo di bue davanti a tutti perché per tutti fosse un
esempio? ...
Il gesto dei miei amici era fede? era amore? Non ho
saputo rispondere allora e non so rispondere neppure questa sera.
Era certamente un atto di libertà.
Dopo quella Messa, dopo quella testimonianza di
amore tutto è cambiato dentro di me.
Ho capito che l'amore è l'unica risposta
umana alla libertà. E' vero: la libertà di ogni
uomo è una piccola isola in un oceano di condizionamenti
(patrimonio genetico, ambiente, cultura, educazione ricevuta,
religione imposta ...) ma tu puoi nascere come persona solo in
quella piccola isola.
Ho capito che la grandezza di ogni uomo sta nel
tentare di realizzare tutta la libertà di cui è
capace. La grandezza di una persona non sta nella sua ricchezza,
nel suo potere, neppure nella sua cultura , ma solo nella sua
libertà.
Ho capito che la libertà dell'essere umano
non si deduce, non si dimostra: si crede. E' un atto di fede. E'
il primo grande atto di fede al quale è chiamata ogni
persona: credere di poter diventare una persona libera.
In questa luce potete capire come quel pezzo di
carta che mi è stato consegnato al termine della guerra e
nel quale si afferma che "non vuole essere un premio, ma il
ricordo perenne di gratitudine degli ebrei d'Italia ..." è
per me sacro nel senso più autentico e profondo della
parola.
La maturità:
l'incontro con il
dolore
Tenebre del Venerdì Santo, gioia della
Pasqua, accettazione della croce, morte, resurrezione ... parole
che avevano per me un significato religioso, teologico, ma non
avevano ancora la pienezza di un significato esistenziale.
E' stato questo il cammino di quel periodo che
intendo chiamare la maturità della mia umana vicenda.
Vorrei questa sera raccontarvi alcune tappe di quel
cammino, ma ho tanta paura e non sono sicuro di riuscirvi. Vi
chiedo di aiutarmi con la vostra amicizia e la vostra
comprensione.
Già nella giovinezza, specialmente nel
periodo del carcere e del campo di concentramento, avevo
conosciuto la cattiveria dell'uomo, la sua ferocia quando si
lascia governare dagli istinti, dalla sete di vendetta, dal
desiderio di potere ... Avevo conosciuto, come dice don Carlo
Gnocchi, "l'uomo, l'uomo nudo, completamente spogliato
...".
La scoperta che mi ha sconvolto nel significato
più profondo della parola è arrivata quel giorno
nel quale con quel mio gesto, con quella mia parola, con quel mio
atteggiamento desideravo fare felice un amico e invece mi sono
accorto che proprio quel gesto, quell'atteggiamento, quella
parola, lo hanno ferito. L'ho visto soffrire e non ho capito
perché ...
Profondo e spontaneo l'interrogativo: chi sei tu
uomo? un mistero di libertà e di dolore, capace di fare
soffrire un tuo fratello, anche senza volerlo, anche al di
là dello spazio e del tempo della tua vicenda terrena?
La strada era ancora lunga, in salita, invitante
nella sua tortuosità.
Ricordo quel giorno nel quale un Superiore, con un
suo ordine scritto, mi vietava di continuare una strada
intrapresa: volevo terminare gli studi di medicina
all'Università di Roma.
Con grande fatica ho accettato quell'ordine che a me
appariva come un torto, un'ingiustizia. Chiaramente quel foglio
di carta della Congregazione Romana era per me una croce.
Ho accettato, ho condiviso l'ordine anche senza
capirlo nella sua motivazione. Ho detto di sì con il cuore
in tumulto. Vorrei confermare: ho accettato, non solo subito, ho
condiviso.
Dopo quel sì, dentro di me è scoppiato
qualcosa di diverso, di nuovo, dopo il Venerdì Santo
è venuta la luce della Pasqua, dentro di me è nata
la gioia.sono capace di definirla e neppure capace di
possederla: sono solo capace di abbandonarmi alla gioia come ci
si può abbandonare a un'onda che ti sorregge e ti porta.
E' una tenerezza che ti invade e non sai neppure il
perché.anche che piacere e dolore sono tra loro
incompatibili, ma non così gioia e sofferenza.so dire altro, ma accettare e condividere la
croce è l'esperienza più forte che l'essere umano
possa vivere.
Qualcuno ha scritto :
In principio era la gioia
e la gioia era presso Dio e la gioia era Dio.
E la gioia si è fatta carne ed è
venuta ad abitare in mezzo a noi.
Ritorna l'interrogativo: chi sei tu, uomo? e si
allarga la risposta: un mistero di libertà, di dolore, una
capacità d'amore, di accettazione della Croce, di gioia,
di redenzione ...
Questa è la tua grandezza, uomo: con la tua
libertà tu puoi redimere tutto. E il mondo, tutto il
mondo, pieno d'amore e di dolore, attende di essere da te redento
... anche la morte.
La gioia è la percezione della
eternità. La gioia è la certezza di superare la
morte.
Non chiedetemi di dire di più, di chiarire
maggiormente, non ne sono capace. Non sono momenti che si possono
descrivere, sono eventi da vivere e da contemplare.
I momenti di gioia che ho vissuto sono stati
certamente i momenti più profondi e più
significativi della mia umana vicenda.
L'incontro con la morte vissuta nell'agonia di un
amico
Sono il prete amico che don Carlo Gnocchi ha voluto
vicino a sé per - sono parole sue - "vivere la sua
morte".
Avevo conosciuto don Carlo il 17 marzo del '43 alla
stazione di Udine, quando lui, cappellano degli alpini,
sopravvissuto alla campagna di Russia, rientrava in Italia. Ci
siamo rivisti più volte a Milano, con lui ho vissuto la
Resistenza.
Verso la fine di dicembre del '55, quando don Carlo
si è reso conto di essere gravemente ammalato, la sua
esplicita richiesta al cardinale Montini: "Faccia in modo che
quel prete mio amico sia esonerato da ogni altro incarico e possa
stare con me fino alla mia morte".
E così, nel dicembre '55 e nei mesi di
gennaio e febbraio del '56, alla clinica Columbus, a Milano, sono
stato con don Carlo.
All'inizio rimanevo per tutta la giornata e poi alla
sera, verso le ore 21, lo salutavo per rivederci il mattino
seguente alle ore 8.
Ai primi di gennaio, una sera, mentre lo salutavo,
mi prende la mano, la stringe forte e mi dice: "Non andare
via, resta qui anche la notte. Ho paura ...". Da allora non
l'ho più lasciato, né giorno né notte.
E abbiamo organizzato "i nostri incontri". Li
abbiamo chiamati così, quel nostro star soli e parlarci a
cuore aperto. Io e lui, soli: le Suore sapevano di non
disturbarci.
I nostri incontri erano normalmente due al giorno:
uno alla mattina e uno nel tardo pomeriggio "Perché
voglio prepararmi a vivere la mia morte ricordando e rivivendo la
mia vita". Queste le sue parole, questa la motivazione del
nostro voler stare soli.
Ogni incontro aveva un tema e una modalità di
svolgimento. I temi cambiavano, ma la modalità di
svolgimento era sempre quella.
Alcuni esempi di temi affrontati: la mia
adolescenza, il mio periodo di Seminario, la mia mamma, la mia
fede ...
Lo svolgimento: prima parlava uno, poi parlava
l'altro, e poi poesie, testi letterari che facessero riferimento
o meglio illustrassero quanto avevamo detto.
Gli incontri terminavano sempre con un ascolto
musicale. Dovevo portare le cassette, quasi sempre musica
classica, e chi aveva per così dire il diritto di
priorità sulla musica classica erano solo i canti degli
alpini. Io li ho ancora tutti dentro, sentiti assieme, cantati
assieme.
Così ho vissuto due mesi.
Don Carlo era innamorato del mistero di ogni persona
umana e della sua libertà. Quando gli ho domandato quale
era stato il suo più difficile atto di fede, lui mi ha
risposto: "L'atto di fede nella mia libertà: io credo
di poter diventare una persona libera".
Questo è don Carlo, davanti ad ogni persona:
prima educatore all'oratorio e all'Istituto Gonzaga, poi con i
mutilatini e con i poliomielitici. L'importante è far
diventare quella persona tutto ciò che può essere,
aiutarla nel suo cammino di crescita.
Scrive don Carlo: "Unicità e
irripetibilità di ogni persona umana ... il valore di una
vita che, quand'anche fosse offesa nella sua corporeità,
si deve annunciare come degna, vivibile e promettente ... come
luogo possibile di continua umanizzazione".
Vorrei ora dire qualcosa della fede di don Carlo. Ne
abbiamo parlato in momenti diversi.La paura di un condizionamento familiare ha generato
in lui una forte crisi di fede. Negli anni di liceo si è
interrogato in profondità: il suo ambiente familiare, la
religiosità di sua madre, le abitudini contratte, le
preghiere imparate dalla mamma ... lo avevano condizionato nella
sua scelta vocazionale?
Un giorno mi ha fatto portare una novella di
Pirandello intitolata: "La fede". Ha voluto che io la leggessi
tutta e gli dicessi che cosa significava per me quel don
Angelino, il prete della novella, che aveva perso la fede e non
voleva più celebrare ... ma va da lui in sacrestia una
vecchia contadina, con pochi soldi in mano, con due pollastrelli,
e gli dice: "Per favore, dica la Messa per il mio
figliolo", e don Angelino va a dire la Messa con la fede di
quella donna.
"Ecco - mi ha detto don Carlo - bisogna
capire questo, che la fede non è qualcosa del singolo,
della sola persona, la fede è un atto corale. Più
di una volta io ho chiesto aiuto alla fede di mia madre. Certe
volte sono andato a dir Messa così, con la fede della mia
mamma".
Don Carlo supera la sua crisi di fede quando si
innamora della persona di Cristo. Non si capisce nulla di don
Carlo se non si approfondisce questo aspetto: il suo rapporto con
la persona Gesù Cristo.
I torti della Chiesa e degli uomini di Chiesa don
Carlo li conosceva, li aveva visti e sofferti. Ma la persona di
Cristo ... Scrive don Carlo: "Anch'io ho sempre cercato le
vestigia di Cristo sulla terra, con avida, insistente
speranza".
Quando, in un altro incontro ha voluto parlarmi
ancora della sua fede, mi ha fatto portare una poesia di Trilussa
che io ho letto e lui poi ha commentato.
La fede viene descritta come una vecchietta.
C'è un giovane che si perde in mezzo a un bosco, il bosco
della vita, e questa vecchietta che viene avanti e dice: "Se non
sai la strada te la insegno io". La strada per arrivare a quella
croce, il problema del dolore, a quel cipresso, il problema della
morte. Commentava don Carlo: "Il dolore, la morte: le uniche
vere difficoltà di un atto di fede ...".
Il giovane sperduto si accorge che la vecchietta
è cieca e si meraviglia ...
Quela Vecchietta ceca, che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse: - Se la strada nu' la sai,
te ciaccompagno io, ché la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò una voce
fino là in fonno, dove c'è un
cipresso,
fino là in cima dove c'è la Croce...-
Io risposi: - Sarà... ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede... -
La Ceca, allora, me pijò la mano
e sospirò: - Cammina! -
Era la Fede.
Don Carlo viveva proprio così la sua fede :
un bisogno di essere preso per mano ...
La mattina del 28 febbraio 1956 don Carlo mi aveva
chiesto che il piccolo crocifisso, dono della mamma alla sua
prima Messa, venisse messo, attaccato con dello scotch, sotto la
tenda ad ossigeno, in modo che lui lo potesse continuamente
vedere.
Nelle prime ore del pomeriggio mi fa cenno di
togliere la tenda ad ossigeno, mi stringe la mano e mi dice:
"Volevo dirti grazie per tutto quello che hai fatto per me. E'
bello morire con un volto amico vicino ...".
Verso le 18 con fatica enorme strappa il crocifisso
dalla tenda, lo bacia, muore. Così è morto don
Carlo.
E oggi, a 80 anni compiuti, cerco di vivere la mia
vecchiaia.
Mi illumina la certezza che non mi sto avvicinando
alla fine, ma all'eterno.
Per questo non voglio mascherare la vecchiaia
incalzante simulando una giovinezza che non c'è
più. Accettando la mia vecchiaia ho perso l'astio nei
riguardi della vita che scivola di mano e l'invidia per coloro
che hanno ancora una vita piena, efficiente, produttiva.
Vorrei essere saggio, irradiante, non aggredire la
realtà per dominarla, ma lasciare che essa si riveli a me
nella sua totalità e nel suo mistero. Saggezza è
qualcosa di diverso da una intelligenza più o meno acuta,
da una cultura più o meno vasta. Saggezza è
ciò che ti nasce dentro quando l'assoluto e l'eterno
penetrano nella tua coscienza individuale e gettano un fascio di
luce su quel fatto, su quell'avvenimento, su quella persona
...
E ogni giorno constato e verifico: vedo un po' meno
chiaramente, sento un po' meno distintamente, ma capisco un po'
di più. E capire è pienezza, è dolore,
è amore, è gioia.

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