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TESSITORI DI BELLEZZA

novembre 2006 riga

Mi piace iniziare il racconto di una splendida giornata e di quella meravigliosa opera d’arte che è il nuovo presbiterio con le parole del Messaggio agli artisti del Concilio Vaticano II:

Questo mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza,
per non oscurarsi nella disperazione.
La bellezza, come la verità,
è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini,
è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo,
che unisce le generazioni
e le congiunge nell’ammirazione.

E’ questo infinito bisogno di bellezza che mette gioia e desta stupore la luce guida nell’aver voluto e realizzato il nuovo presbiterio che porta scolpite nella pietra le intuizioni liturgiche più belle e importanti del Concilio Vaticano II, nell’aver colorato a nuovo quello che da sempre chiamo il cortile dei sogni e degli incontri, segno di una Chiesa-comunità creatrice di relazioni e di legami, nell’anno del 110° anniversario della nostra stupenda Chiesa.
Perché l’arte e la bellezza rendono l’infinito avvertibile.
Perchè l'amore del bello sia segno dell'amore alle persone e alla città.

Un amore continuamente richiamatoci dal nostro amato arcivescovo, card. Dionigi Tettamanzi che regalandoci a piene mani gioia, cordialità, sorrisi, è stato con noi il pomeriggio di domenica 29 ottobre per l’anniversario della consacrazione della nostra splendida chiesa: un pomeriggio davvero indimenticabile, cominciato tra i colori gioiosi del cortile e dei ragazzi dell’oratorio, continuato nell’intensa celebrazione eucaristica, nell’evocativo rito delle dedicazione del nuovo altare. Un pomeriggio di cui gli sono infinitamente grato dal profondo del cuore.
altare Un gesto su tutti è rimasto scolpito negli occhi e nel cuore dei presenti. Il cardinale ha versato sull’altare il crisma, simbolo di Cristo, e con le sue mani lo ha sparso con vigore e insieme con tenerezza. Quasi fosse una carezza ricca di cura e premura, una carezza che guarisce, che restituisce forza. Una carezza amante. Segno della carezza di Dio.
Quelle stesse mani che hanno unto l’altare hanno poi stretto calorosamente centinaia di altre mani, in una "processione" di persone che sembrava non finire mai. Per tutti un sorriso, una parola, una battuta. Per tutti l’ascolto. Segno di un legame d’amore che dall’altare arriva ininterrotto al cuore delle persone.
E’ il filo della bellezza che non si spezza ma che unisce l’altare e la piazza, la chiesa e la strada, l’Eucarestia e la vita, Dio e l’uomo.

Basilica maggiore … basilica minore

Un filo a cui tengo pazzamente. Come avevo scritto nell’invito a questa festa: "siamo certi che ogni opera vuole rimandare alla bellezza di Dio Padre, certi che la bellezza salverà il mondo, ma certi soprattutto che E’ negli uomini che la Chiesa è bella. (S. Agostino)"
Come ci racconta con luminosa efficacia un altro vescovo, mons. Tonino Bello:

Quell'anno, alla fine di aprile, il Santuario di Molfetta, dedicato alla Madonna dei Martiri, con speciale bolla pontificia veniva solennemente elevato alla dignità di Basilica Minore. La città era in festa, e per il singolare avvenimento giunse da Roma un Cardinale il quale, nella notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una veglia di preghiera che si tenne nel santuario. Parlò con trasporto di Maria suscitando un vivo entusiasmo. Poi, prima di mandare tutti a dormire, diede la parola a chi avesse voluto chiedere qualcosa.
Fu allora che si alzò un giovane e, rivolgendosi proprio a me, mi chiese a bruciapelo il significato di Basilica Minore. Gli risposi dicendo che «basilica» è una parola che deriva dal greco e significa «casa del re», e conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per essere riconosciuto ufficialmente come dimora del Signore del cielo e della terra. Il giovane, il quale tra l'altro disse che aveva studiato il greco, replicò affermando che tutte queste cose le sapeva già, e che il significato di basilica come casa del re era per lui scontatissimo. E insistette testardamente: «Lo so che cosa vuol dire Basilica. Ma perché Basilica Minore?»
Dovetti mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo, infatti, le idee molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatto una cultura e avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma, e Basiliche Minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi bisognava pur darla, e io non ero tanto umile da dichiarare lì, su due piedi, davanti a un'assemblea che mi interpellava, e davanti al Cardinale che si era accorto del mio disagio, la mia scandalosa ignoranza sull'argomento.
Mi venne, però, un lampo improvviso. Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, Basilica Minore è quella fatta di pietre. Basilica Maggiore è quella fatta di carne. L'uomo, insomma. Basilica Maggiore sono io, sei tu! Basilica Maggiore è questo bambino, è quella vecchietta, è il Signor Cardinale. Casa del re!».
Il Cardinale annuiva benevolmente col capo. Forse mi assolveva per quel guizzo di genio. La veglia finì che era passata la mezzanotte. Fui l'ultimo a lasciare il santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la strada, commentammo insieme la serata, mentre il tergicristallo cadenzava i nostri discorsi.
Ma ecco che, giunti davanti al portone dell'episcopio, si presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c'era lui: Giuseppe. Sotto gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di selvaggio, la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo, Basilica Maggiore o Basilica Minore?».
«Basilica Maggiore» risposi. E lo portammo di peso a dormire.
All'alba, volli andare a vedere se si fosse svegliato. Avevo intenzione di cantargliene quattro. Giuseppe riposava, sereno. Un respiro placido gli sollevava il petto nudo. Sotto le palpebre socchiuse luccicavano due pupille nerissime, e la barba dava al suo volto un tocco di eleganza. Forse stava sognando. Mi venne spontaneo rivolgermi al Signore e ripetere col salmo: «Lo hai fatto poco meno degli angeli».
Mi attardai per vedere se avesse le ali.
Forse le aveva nascoste sotto il guanciale.

Chi si sente amato si veste di bellezza … credo sia questo uno dei compiti di ogni cristiano, di ogni comunità cristiana: essere tessitori di bellezza, far venire alla luce il sogno bello di Dio per ogni uomo, per le nostre città.

I tralci e la vite

Gli alberi stanno sempre più diventando cifra evocativa per la nostra comunità parrocchiale: gli alberi del cortile, l’albero di Zaccheo del progetto pastorale, l’albero dell’Eden e l’albero della croce nella pala del battistero e ora l’albero della vite per il nuovo altare, il nuovo ambone e la corteccia di un albero per la sede del celebrante.
Così scrivevo dieci anni fa per l’inaugurazione del cortile:

Un albero si vede, ma non tutto.
Nasconde il segreto delle radici.
Sono le radici che lo fan restare vivo, anche nel cuore dell'inverno.
Si fa accogliente con tutti gli uccelli che chiedono ospitalità, senza distinzioni. Accoglie e non intrappola, non trattiene.
Un albero è felice di donare. "Ruba" tutto il calore del sole e ci dà la freschezza della sua ombra. E' felice se gli si toglie il peso dei frutti.
Un albero attraversa le stagioni, nasce e rinasce. Quando l'inverno sembra averla vinta, l'albero sa tirar fuori la primavera che stava nascosta nel suo cuore.
Un albero ha bisogno di terra e di cielo.

ambone1 (115K) Un albero sta nel giardino dell’Eden all’inizio della storia biblica della Genesi: l’albero della vita e della conoscenza del bene e del male.
Un albero sta dritto sul Calvario: l’albero della croce di Gesù.
Ai piedi di questi alberi si gioca ogni giorno la nostra libertà, la nostra speranza, la nostra capacità di amare, di fidarci l’un l’altro, di fidarci di Dio.

E un albero sta alla fine del racconto biblico dell’Apocalisse: "In mezzo alla piazza della città si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni" (Ap 22,2). … uno straordinario albero che regala frutti ogni mese, che guarisce e che sta nel mezzo della città … forse è il sogno che Gesù il Crocefisso risorto custodisce per ogni comunità cristiana, anche la nostra.

Un albero sta nel nostro nuovo presbiterio: l’albero della vite. "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto" (Gv 15,5).
E’ vicinanza. Più che vicinanza, è intimità. Non è lo stare accanto, lo stare vicino, è l’essere l’uno nell’altro. Come nell’amore più grande.
Un’intimità che ci regala speranza, bellezza, forza, tenerezza, perdono, creatività, un’intimità che porta molto frutto.
Un’intimità che nasce e cresce nel giorno "della vite e dei tralci", nel giorno del Signore risorto, la domenica. Quando dall’ambone a forma d’albero si proclama la Parola, seme che fa crescere e che dà vita, quando mi è dato di sedere, come celebrante, appoggiato a una corteccia, segno di solidità del ministero del servizio pastorale, quando all’altare che pare fiorire dalla nuda terra si spezza e si consegna il Pane della vita.

Ringrazio tutti coloro che hanno sognato con me, nella consapevolezza che, qualunque lavoro stavamo facendo, stavamo "costruendo una cattedrale" …

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