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FERITI … TRASFORMATI ?

Rodin-Cattedrale (86K)

Rodin - Cattedralegiugno-luglio agosto 2020
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FERITI … TRASFORMATI ?

Ci sono lacrime che dureranno più a lungo
delle stelle del cielo,
ci sono sguardi di tenerezza
che risplenderanno eternamente
notte dopo notte. (Charles Péguy)

Ogni cosa di questo periodo di pandemia rimarrà per sempre scolpito dentro di noi.
Rimarrà il terribile dolore della perdita di persone amate, morte in solitudine senza un abbraccio, una carezza, uno sguardo amorevole, senza ascoltarne le ultime parole, senza potergliene dire, senza un funerale. E le persone amate, come aveva scritto Sepulveda, “non muoiono e basta: «ci» muoiono, una forza atroce ci mutila della loro compagnia e poi dobbiamo continuare a vivere con quei vuoti nelle ossa” …
E insieme non andrà mai perduto tutto il bene di chi si è speso, con coraggio e senza misura, nella cura amorevole del prossimo. Penso ai tanti medici, infermieri e volontari che dimenticando ogni stanchezza, a rischio della propria vita, non si sono risparmiati dando una altissima testimonianza umana …

Improvvisamente nella nostra vita tutto è cambiato e di colpo ci siamo sentiti vulnerabili, fragili, impotenti e siamo entrati bruscamente nella dimensione della paura. E forse abbiamo compreso il dolore di altri popoli, di altre zone del mondo che distrattamente eravamo abituati a vedere in veloci immagini televisive che non hanno mai turbato più di tanto la nostra quotidianità, la nostra ricchezza, la nostra salute, il nostro essere nella parte “benestante” del mondo …
Abbiamo fatto l’esperienza della perdita di controllo del tempo, del futuro ritenuto spesso e banalmente di nostra proprietà, abituati come siamo a riempire le nostre agende con appuntamenti per l’anno successivo. Ma soprattutto abbiamo toccato con mano l’esperienza della morte che non fa distinzioni e che si è fatta vicinissima, terribilmente, facendo vacillare la nostra illusione di essere immortali. Nessuno mai più dimenticherà tanto facilmente quella colonna di camion militari che si porta­vano via decine e decine di bare o la nostra chiesa di S. Stefano diventata per qualche giorno luogo di raccolta per bare …
Ci siamo resi conto dell’importanza assoluta della conoscenza, della scienza, ma anche della mancanza di riposte per tutto, del fatto che non sappiamo e non sappiamo mai abbastanza …
Abbiamo sentito e continuiamo a sentire l’urgente necessità di una politica seria, che la smetta di urlare per meri calcoli elettorali, sentiamo l’esigenza di persone che siano in ogni posto per la loro competenza e non per manovre di spartizione, consenso o profitto, perché in gioco c’è il futuro riguardo l’economia, il lavoro, la scuola, la vita di tutti. Perché nessuno resti indietro…
Abbiamo sentito la forza e il dono della fede cristiana che ha al centro Gesù Crocefisso: quante lacrime e quante preghiere rivolte a Lui e a Maria sua Madre …

Tutto in questi mesi si è rivoluzionato, tutto è stato messo in discussione.
Ne usciremo trasformati, migliorati? Non ci è dato saperlo, solo sperarlo. Io lo spero infinitamente.
Aver frequentato il dolore potrebbe portarci, dovrebbe invitarci a un’altra consapevolezza perché, come scrive il teologo Giuliano Zanchi, il male, qualunque esso sia, ci tocca sempre due volte. La prima ci ferisce, la seconda ci trasforma. Dovremmo imparare a sentirci un corpo unico, dove quando qualcuno soffre, sono anch’io a soffrire. Dovremmo ricercare reciprocità e senso di appartenenza perché ognuno di noi dipende dagli altri e perché le nostre scelte e azioni incidono sugli altri.

Chissà cosa è cambiato anche nella Chiesa, nella nostra comunità pastorale?
Splendide al riguardo sono le parole di mons. Derio, Vescovo della diocesi di Pinerolo, che ha vissuto drammaticamente l’esperienza della malattia da coronavirus. Così ha scritto:

Non basta tornare a celebrare per pensare di aver risolto tutto. “Non è una parentesi”. Non dobbiamo tornare alla Chiesa di prima. O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni. Per favore ascoltiamo con attenzione ciò che ci sussurra questo tempo e ciò che meravigliosamente ci dice Papa Francesco. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza delle relazioni all’interno, tra catechisti, animatori, collaboratori e praticanti. Abbiamo bisogno di creare in parrocchia un luogo dove sia bello trovarsi, dove si possa dire: “Qui si respira un clima di comunità, che bello trovarci!”. Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia. Non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti. Carica di entusiasmo, passione, speranza, affetto.

Come copertina di questo numero di Parola Amica ho scelto una delle sculture più note di Rodin, a sua volta copertina di un bellissimo testo scritto in questi ultimi mesi dal cardinale José Tolentino Mendonça, Il potere della speranza, che così descrive l’opera:

Sembra, a un primo sguardo, di una semplicità impressionante. Si tratta di una composizione in pietra che consiste in un paio di mani. Sono, in verità, due mani destre, di due individui differenti, i cui avambracci s’incrociano e allungano perché le dita, nel punto più alto, si tocchino disegnando come un arco. Un’idea apparentemente elementare, dunque.
Ma la poesia esplode – e ci consegna in tal modo a una visione altra dell’opera – quando ci viene annunciato il titolo. In un primo momento Rodin pensò di chiamarla L’arca dell’alleanza, ma poi optò per La cattedrale. La scultura di Rodin può venirci in aiuto nel nostro bisogno di una risposta.
Una cattedrale non è solamente un territorio sacro esteriore al quale i nostri piedi ci conducono. Non è soltanto un tempio situato in un determinato spazio. E neppure solo un rifugio sicuro segnalato dalle mappe.
Una cattedrale è realizzata anche dalle nostre mani aperte, disponibili e supplicanti, ovunque noi ci troviamo. Perché dove c’è un essere umano, ferito di finitudine e di infinito, là si trova l’asse di una cattedrale. Dove possiamo realizzare quell’esperienza vitale di ricerca e di ascolto per la quale la risposta non è l’immanenza. Dove le nostre mani possano levarsi in alto: in desiderio, urgenza e sete. Questo sarà sempre uno degli assi della cattedrale.
L’altro è disegnato dal mistero di Dio, che si avvicina a noi e ci stringe, anche quando non lo avvertiamo subito, anche quando il silenzio, un silenzio duro e denso, sembra la verità più tangibile.
Fu Pascal a scrivere che «le mani sostengono l’anima». Oggi abbiamo bisogno di mani – mani religiose e laiche – che sostengano l’anima del mondo. E che mostrino che la riscoperta del potere della speranza è la prima preghiera globale del XXI secolo.

La speranza … nonostante tutto. Non un facile ottimismo, ma la forza che ci spinge al vivere, che dà senso al vivere. Quella speranza che sa vedere l'invisibile, toccare l'intangibile e raggiungere l’impossibile. Quella speranza che nasce dal mattino di Pasqua. Questo è ciò di cui tutti noi abbiamo bisogno. Il giornalista Gerolamo Fazzini conclude il suo splendido e prezioso libro, scritto in aprile, Siamo tempo (L’abbiamo scordato?) con questa citazione di Chesterton: «Non nego che ci deb­bano essere preti per ricordare agli uomini che un giorno dovranno morire. Dico solamente che in certe epoche strane, come in quella che vivia­mo, è necessario avere un altro genere di preti, chiamati poeti, per ricordare agli uomini che an­cora non sono morti».

In questo periodo in cui più che mai ogni nostra cellula ha sentito il bisogno, la necessità della relazione, della vicinanza, di un bacio, una carezza, un abbraccio, di vivere il corpo come relazione, occorre riscoprire la straordinaria bellezza e forza dell’amore. Anche nel dolore. Per questo, come ripete spesso Roberto Benigni, affrettiamoci ad amare … amiamo sempre troppo poco e troppo tardi …

don Mirko Bellora

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