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IL CAPPELLO E LA TESTA

Kenjio Il pensatore

Kenjio: Il pensatorefebbraio 2019
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IL CAPPELLO E LA TESTA

Indelebile in me il ricordo di una affermazione di un grande parroco che amo molto, don Primo Mazzolari (1890-1959), che così si rivolgeva ai cristiani presenti alla Messa: “In Chiesa dovete togliervi il cappello, ma non la testa!”. Mi sembra un’ottima “traduzione” dell’invito che il nostro arcivescovo Delpini ha rivolto ai milanesi in occasione della festa di S. Ambrogio. Il suo “Autorizzati a pensare” potrebbe essere letto in chiave ironica, ma anche come un grido di allarme o come un potente invito rivolto a tutti, non solo ai cristiani. Ecco solo alcune righe del suo intervento:

La cultura “post-moderna” esalta l’emozione, lo slogan gridato, stuzzica la suscettibilità e deprime il pensiero riflessivo …
Desidero evidenziare il rischio di lasciarsi dominare da reazioni emotive e farle valere come se fossero delle vere e proprie ragioni …
Credo che il consenso costruito con un’eccessiva stimolazione dell’emotività dove si ingigantiscono paure, pregiudizi, ingenuità, reazioni passionali, non giovi al bene dei cittadini e non favorisca la partecipazione democratica.
Credo sia opportuno un invito ad affrontare le questioni complesse e improrogabili con quella ragionevolezza che cerca di leggere la realtà con un vigile senso critico …
Occorre riscoprire la cultura e il pensiero che danno buone ragioni alla fiducia, alla reciproca relazione, a quella sapienza che viene dall’alto che “anzitutto è pura, poi pacifica, mite” …

Mi guardo intorno e anch’io ho questa impressione: la fatica del pensare, l’aggressività che si fa parola, l’arroganza che si mette in mostra, l’opinione che si pensa verità, l’emotività e gli istinti che prendono il posto della ragione, la faziosità che schiaccia il senso critico, il proprio interesse che prevale su ogni cosa e sull’altro … e in tutto questo il rischio più grosso, il rischio che più temo e che più mi intristisce è quello della perdita di umanità, di compassione, di pietas. Il rischio per i cristiani è perdere il Vangelo, è dimenticare il Vangelo.

La straordinaria fortuna di vivere nel grande solco della Chiesa ambrosiana ci ha fatto incontrare grandi, indimenticabili e indimenticati maestri come il card. Carlo Maria Martini che così si esprimeva: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti. L’importante è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora saranno veramente fondate.”

Il pensare allora, riguarda in modo profondissimo anche la fede. Per non fare che la fede sia solo tradizione o stanca abitudine, superstizione o vuoto ritualismo, un mito che la condanna ad essere muta, una verniciata esteriore senza rapporto con la vita, con le scelte quotidiane. Scriveva così qualche anno fa il teologo Bruno Forte, adesso vescovo dell’Arcidiocesi di Chieti-Vasto:

Il credente non è che un povero "ateo" che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se il credente non fosse tale, la sua fede non sarebbe che un dato sociologico, una rassicurazione mondana ... La fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare e proprio per questo ad esistere per gli altri. La fede deve ascoltare le ragioni della non credenza per sentirsi provocata a pensare a sé stessa ed a trovare nel cuore credente gli abissi di non credenza che lo abitano e lo rendono sempre inquieto. ... Chi pensa di aver fede senza lottare, non crede più in nulla. ... Se Dio per te non è un fuoco divorante, se l'incontro con Lui è per te soltanto tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali e senza passione d'amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente. ... Credere è "cor-dare", un dare il cuore ... (Confessio theologi)

La fede è questa passione d’amore per Dio e per l’uomo, per il cielo e la terra. Chi crede, chi celebra i Sacramenti è chiamato a essere segno dell’amore di Dio per l’uomo, per ogni uomo, per gli ultimi. E, come scrivevo proprio lo scorso febbraio ai giovani, di fronte al dolore del mondo, al grido dei poveri siamo chiamati a una scelta: possiamo lasciare perdere, oppure interessarci a quello che accade attorno a noi, a quello che succede nel mondo, possiamo decidere di diventare dei tubi digerenti (mutuando una celebre frase di padre Alex Zanotelli), capaci di metabolizzare ogni genere di dolore e sofferenza grazie a un enzima chiamato indifferenza. Oppure possiamo reagire, metterci in gioco, interessarci e prenderci cura del mondo in cui viviamo. È la scelta di una presenza attiva, significativa, preziosa nella società di oggi.

Indimenticabile al proposito una affermazione sferzante, del pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, vittima del nazismo: “Chi non urla per le piazze per gli ebrei, non può cantare in chiesa il gregoriano”. Affermazione più che mai attuale anche oggi di fronte a tutti gli uomini, le donne, i bambini indifesi.Diceva Gregorio Magno: “Amor quasi oculus, fides quasi oculus” … l’amore e la fede sono quasi un occhio in più, che ti fa capace di vedere meglio, di vedere le persone come persone e non come numeri o problemi. Così raccontava Carl Gustav Jung di un colloquio con il capo indiano Lago di Montagna: «Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi. “Dicono di pensare con la testa”, rispose. “Ma certamente. Tu con che cosa pensi?” gli chiesi sorpreso. “Noi pensiamo qui”, disse, indicando il cuore». Ai cristiani è chiesto di pensare, di pensare molto, di continuare a ragionare, di non smettere di interrogarsi … col Vangelo in mano e nel cuore. Che meraviglia una fede così! Che sa far fiorire l’umano, che ama la ragione e non teme il dubbio, che fa brillare nella vita ciò che si canta in chiesa.

Ho scelto come copertina di questo numero una scultura di carta dell’artista Kenjio: un libro che fiorisce in onde di carta piegate su sé stesse, accompagnate da una figura di argilla di un uomo assorto nei suoi pensieri. Una scultura “letteraria” che reinterpreta il fascino e la necessità della conoscenza, del pensare. La dedico a ognuno di noi, ringraziando papa Francesco che in questi giorni tornando in aereo da Panama non ha risposto a una domanda “difficile” posta da un giornalista dicendo: “Non ho riflettuto e pregato a sufficienza”.

don Mirko Bellora

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