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UNA PAROLA SENZA BACIO

Miljenko Bengez Sibenik
Miljenko Bengez - Sibenik

ottobre 2013
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“Uscire” … credo possa essere questa la “cifra” attraverso cui leggere la lettera pastorale “Il campo è il mondo. Vie da percorrere incontro all’umano” scritta per ciascuno di noi dal card. Angelo Scola all’inizio del nuovo anno pastorale.

È una lettera che ci invita a rivisitare la nostra vita ordinaria, il nostro modo di pensare e di agire, il nostro modo di essere credenti e di vivere la fede; è una lettera che ci invita ad avere un nuovo sguardo, nuovi occhi, nel guardare al mondo e alle persone, che ci invita ad avere lo sguardo e il cuore commosso di Gesù; è una lettera che ci invita a porci domande riguardo la separazione della fede dalla vita, riguardo gli affetti, il riposo, il lavoro; è una lettera che ci spinge incontro all’uomo per raccontare, per testimoniare e “cantare” con la nostra vita che Gesù di Nazareth è “l’Evangelo dell’umano”, è la buona e bella notizia per tutto l’uomo e per tutti gli uomini.

Bisogna “uscire” dal nostro solito sguardo per imparare lo sguardo e la commozione di Gesù di fronte agli uomini, per imparare da Lui uno sguardo positivo. Uno sguardo e una commozione che impariamo dalla parabola evangelica del buon grano e della zizzania (Matteo 13) di cui ci narra il nostro Arcivescovo, che impariamo da tutto il Vangelo. Ed è lo stesso sguardo che ci chiede di avere continuamente, con dolcezza e forza, il nostro papa: guarda a ogni uomo con lo stesso sguardo, con la stessa sorprendente misericordia di Gesù, impara da Lui l’arte della misericordia.

Mi torna spesso alla memoria l’episodio di Mosè e del roveto ardente narrato nel libro dell’Esodo. A Mosè è chiesto di togliersi i calzari davanti a quel luogo sacro. Nell’avvicinarsi agli uomini, è chiesto lo stesso alla Chiesa e a ogni cristiano: togliersi i calzari. Perché ogni uomo, in qualunque situazione, è un “luogo sacro” e Dio è già in ogni uomo ben prima del nostro arrivo. Per questo deve vincere l’accoglienza sull’indifferenza, l’ospitalità sull’ostilità, la fiducia sulla chiusura, il rispetto sul sospetto, la cordialità sul distacco, l’incanto sul disincanto, la misericordia sul giudizio. Deve vincere l’incontro.

Bisogna “uscire” da noi stessi, dai luoghi ecclesiali e imparare ad avere “un’apertura a 360°”: così ci chiede l’arcivescovo.

Quando c’è stata l’inaugurazione dell’anno giubilare nella parrocchia San Domenico a Molfetta, mi sono avvicinato alla porta di ingresso della chiesa, ho battuto tre volte, la porta si è spalancata e io sono entrato nel tempio carico di luci, tutto il popolo dietro di me, la folla esultante.

Io vorrei invece poter inaugurare, un giorno, un anno santo al rovescio. Tutti quanti in chiesa, il vescovo vicino alla porta chiusa, con il martello che batte, la porta che si apre e il popolo di Dio che esce sulla piazza per portare Gesù Cristo agli altri.

Sì, perché oggi il problema più urgente per le nostre comunità cristiane non è quello di inaugurare porte che si aprono verso l’interno degli spazi sacri. Il problema più drammatico dei nostri giorni è quello di aprire le porte che dall’interno del tempio diano sulla piazza.

È di questa simbologia che abbiamo bisogno! Per far capire che l’intimismo rassicurante delle nostre liturgie diventa ambiguo se non si spalancherà sugli spazi del territorio profano. E per affermare che il rito deve raggiungere i cortili, entrare nei condomini, sostare sui pianerottoli, e afferrare l’uomo nei cantieri del quotidiano. Diversamente è una fuga pericolosa dalla realtà.

La prossima volta … tra venticinque anni … il giubileo lo inaugureremo in modo diverso. Io, vescovo, mi farò strada a fatica in mezzo alla gente che stiperà la chiesa. Giungerò davanti alla porta sbarrata. Dall’interno batterò con il martello tre volte. I battenti si schiuderanno. E voi, folla di credenti in Gesù Cristo, uscirete sulla piazza per un incontenibile bisogno di comunicare la lieta notizia all’uomo della strada. (mons. Tonino Bello)

Rimango sempre estasiato e intrappolato davanti alle metafore che ha saputo “inventare” quel grande vescovo, poeta e profeta, che è stato mons. Tonino Bello … questo “anno santo al rovescio” mi è rimasto nel cuore ed è penetrato nei sogni che danno vita all’inizio del nuovo anno pastorale, un anno ricchissimo di suggestioni, risonanze, responsabilità, possibilità.

E straricco della continua e sovrabbondante sorpresa che è il nostro papa Francesco, con le sue sfide … Sentiamo cosa ha risposto nell’intervista rilasciata a Civiltà Cattolica qualche giorno fa:

Di che cosa la Chiesa ha più bisogno in questo momento storico?” La cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso. … La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi.

Siamo ancora una Chiesa capace di scaldare il cuore? Mi è tornato alla mente un verso del poeta Clemente Rebora:

Eppure la cosa capita
non redime la cosa sofferta;
e la parola senza bacio
lascia le labbra più sole

come a dire che un annuncio senza affetto, senza condivisione, senza misericordia, senza vicinanza non raggiunge il cuore dell’altro.

Dovremmo assomigliare ad Abramo, padre dei credenti … Un antico midrash rabbinico si chiede perché Dio fece uscire Abramo dalla sua terra e risponde che Abramo era come un’ampolla di unguento profumato e che Dio lo faceva uscire perché, là dove fosse arrivato, si potesse godere del suo profumo.

A questo siamo chiamati: a “uscire” perché tutti possano godere del profumo di Gesù e del suo Vangelo.

don Mirko Bellora

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